gerard x cincillà
Nda:
cavolata nata dopo qualcosa come un migliaio di conversazioni assurde
con quella figona di The Last Thing I see (ti giuro che non stavo
piangendo al telefono iogheuigri cioè stavo per
però alla fine no(?)). Che poi c'ho messo tipo un'era a
scriverla ma vabbé -coffcoff-
Un grazie anche a Vampiresroads, che continuava a chiedermi quand'avrei
pubblicato e mi ha fatta sentire la scrittrice più
importante del mondo, da brava personcina carina qual è cc
«Gerard! Che cazzo fai?»
Il
roscio
girò la testa appena irruppi nella stanza, arcuando le
sopracciglia e storcendo il capo, e sbatté le palpebre.
«Be',
mi sembra ovvio» ribatté,
pacato «insegno a Ludovico a fare il
caffè».
Spiazzato,
spostai lo sguardo dal frontman all'animale e poi alla
macchinetta mezza piena abbandonata sul fornello, sbattendomi
sonoramente una mano sulla faccia.
«Ma
che sei scemo?» sbottai esaurito scuotendo più
volte la
testa, «Stavolta la PETA ci ammazza sul serio!»
Mi
guardò con calma, come se stessi dicendo una cosa
assolutamente fuori
dal mondo e lui fosse un dottore pronto a curarmi dai miei
deliri,
e tornò ad accarezzare il cincillà, grattandogli
il pelo in mezzo alle
orecchie con lentezza indicibile.
«Frank,
mi sa che non hai ben
chiara la cosa» osservò premurosamente, senza
smettere di
accarezzare l'animaletto, «Questa è un'idea a dir
poco
rivoluzionaria, e se andrà
in porto ci farò un fracco di soldi»
spiegò.
«Gerard,
sei in una band di successo, hai palate di
soldi» gli feci notare. Lui tacque e mi guardò,
imperturbabile.
«Tutto
finisce. I cincillà che fanno il caffè
no».
Mi
svegliai
sul divano dopo un po', e nell'incoscienza del dormiveglia pensai che
dopotutto non si trattava di un'idea così terrificante; ma
dovetti ricredermi quando un forte odore di bruciato
cominciò a
invadere il salotto, mentre il frontman camminava tranquillamente con
in mano uno degli estintori d'emergenza, senza degnarmi di uno sguardo
o mostrarsi minimamente preoccupato. Oh, Dio. Come avevo
anche solo potuto pensare di lasciarlo solo con un'idea
così... così... così.
Voglio dire, si trattava di Gerard Way, mica di un adulto normale,
razionale e pienamente affidabile.
Mi
alzai di scatto dal divano e mi affrettai a raggiungere la cucina,
strizzando gli occhi, ancora indeboliti dal sonno, e portandomi una
mano alla testa, maledicendomi per essermi alzato così
velocemente. Rimasi qualche secondo ad occhi chiusi, finché
il
mondo non smise di girare, poi presi un respiro profondo e guardai di
là, incrociando le dita e sperando di non trovare la
devastazione più completa accanto ai due. Sorprendentemente,
a
parte la montagna di schiuma che ricopriva i fornelli e tutto
ciò che li circondava, la cucina non era in condizioni
così pietose, così fui libero di tirare un
sospiro di
sollievo e rilassarmi. Gerard armeggiava con l'estintore e fischiettava
tra sé, mentre Ludovico, seduto sul bancone, lo osservava
interessato e si tirava in piedi, per poi abbandonare l'idea di
raggiungerlo e mettersi di nuovo a sedere. Mi avvicinai all'animale e
gli accarezzai la testa, senza dire una parola e senza che Gerard
mostrasse interesse verso di me. Rimanemmo in silenzio per un po', poi,
imbarazzato, mi massaggiai il collo.
«E
insomma... come andiamo?» buttai lì, catturando
l'attenzione del frontman, che si girò con aria
insoddisfatta.
«A
rilento» rispose piccato, girandosi verso il
cincillà.
«Ludovico
soffre molto il calore» aggiunse, storcendo la bocca. Annuii;
era
tra le prime cose che ci aveva detto l'uomo che ce l'aveva venduto ma
probabilmente il roscio non lo stava ascoltando per niente, come suo
solito.
«Significa
che ti arrenderai?» chiesi, cercando di non sembrare troppo
speranzoso.
«Giammai»
ribatté lui, battendosi il pugno sul petto «ti
do' la mia
parola che riuscirò a istruirlo!»
Sospirai,
scuotendo impercettibilmente la testa, e agguantai un mazzo di chiavi,
infilandomelo in tasca con rassegnazione.
«Buona
fortuna allora, io vado a fare la spesa» lo salutai, uscendo
dalla cucina e posando la mano sul pomello.
«Compra
altro caffè!» esclamò lui di rimando,
mentre un
rumore di piatti che cadevano mi raggiungeva da dietro. Sospirai e un
brivido mi corse lungo la schiena, ma l'ignorai e scappai via.
«Capisci,
Mikey? Quello mi manderà a fuoco tutta la cucina!»
esplosi, mentre il ragazzo mi guardava dall'altra poltrona.
«E
scusa, non hai l'assicurazione?» ribatté lui,
senza batter
ciglio. Lo guardai, chiedendomi se dicesse sul serio.
«Non
per cincillà che imparano a fare il
caffè» risposi,
forse un po' più amaramente del dovuto.
«Be',
in questo caso dovresti tornare a casa e non staccarti mai da quei
due» disse semplicemente, scrollando le spalle.
«È
questo il punto, Mikes, non posso! Voglio dire, Ludovico sa benissimo
che il suo padrone è Gerard, anche se sono io a dargli da
mangiare, pulirgli la gabbia e fargli fare i bagni di sabbia, quindi se
sto lì per più di venti minuti comincia, non dico
a
innervosirsi e neanche a spaventarsi, però non si sente
più a suo agio, ecco, quindi Gee mi scaccerebbe»
sospirai.
«Capisco»
annuì lui, prendendosi il mento tra le mani, pensieroso. Se
all'inizio venire da lui e esporgli il problema mi era sembrata la cosa
più intelligente da fare, ora stavo decisamente pentendomi
di
essere anche solo uscito da casa. Nonostante la sua innegabile
intelligenza e la sua aria distaccata, Mikey condivideva comunque gran
parte del patrimonio genetico del roscio, quindi avrei dovuto prevedere
che l'avrebbero pensata più o meno allo stesso modo, o che
comunque lui non si sarebbe sbilanciato più di tanto nei
confronti del fratello e che quindi non mi avrebbe aiutato. Sospirai.
«Ti
prego, Mikes, il cincillà l'abbiamo comprato con la mia
carta di
credito ed è intestato a me, quindi se la PETA ci scopre
sarò io quello che passerà dei guai»
riprovai,
cercando di commuoverlo o intenerirlo in qualche modo.
«Mmm,
potresti provare a comprarti un animale tutto tuo e a sbattere in
faccia a Gee un progetto ancora più assurdo del suo,
così
si sentirà preso in giro e potrete raggiungere un accordo
decente» propose, rompendo il silenzio. M'illuminai.
«Mi
sembra perfetto; grazie mille, Mikey!» esclamai, alzandomi
dalla
poltrona e scappando via. Lui rimase lì a leggere il
giornale,
contento di essersi riconquistato la pace, e si dimenticò
presto
di me.
Corsi
fuori dallo studio e mi precipitai al negozio d'animali
più vicino, fermandomi davanti alla sua vetrina e
riflettendo
per qualche istante, prima di comprare qualcosa di cui avrei potuto
pentirmi. Certo, ero preoccupato da morire per la mia casa e la mia
incolumità, però non volevo che il frontman si
trovasse
in una posizione ''o me o il cincillà che fa il
caffè'',
perché effettivamente il cincillà era qualcosa
che
sarebbe durato a lungo, mentre la nostra relazione sarebbe potuta
finire da un giorno all'altro senza problemi, quindi non
sapevo
quanto mi sarebbe convenuto e mi sentivo terribilmente combattuto tra
orgoglio e desiderio d'affetto. Alla fine vinse la mia parte
tira-e-molla e tornai a casa con qualche pacco di caffè
solubile
e il morale sotto i piedi, immaginandomi la devastazione in cui avrei
trovato il mio appartamento e le lamentele degli altri inquilini,
incazzati per il rumore e la puzza di bruciato. Stavo giusto entrando
nel mio isolato quando un'autopompa dei pompieri mi superò,
la
sirena urlante e le facce dei volontari sporte fuori dal finestrino,
lasciandomi stupefatto e con un'orribile sensazione di catastrofe
addosso. Cominciai a correre a perdifiato, sentendo il timbro
squillante rimbombare sempre più vicino, e non diminuii il
passo
neanche quando i miei polmoni cominciarono a cedere e reclamare aria,
troppo spaventato per anche solo dire 'ah'. Raggiunsi il mio
palazzo e
trovai il portone aperto, mentre il trillo, ormai vicinissimo, mi
echeggiava nelle orecchie e mi stordiva; mi lanciai su per le scale,
stringendo i denti e arricciando il naso per il troppo fumo, e mi
fermai davanti a casa, ansimando rumorosamente. Bussai più
volte
ma non udii risposta, così infilai una mano in tasca e tirai
fuori le chiavi, cercando, tremante, d'infilarle nella serratura. La
porta si aprì dopo qualche tentativo, e appena fu possibile
mi
fiondai dentro, urlando a pieni polmoni il nome del mio ragazzo, ma
tutto ciò che riuscivo a udire era un silenzio opprimente e
inquietante che non lasciava presagire niente di buono, così
corsi al piano di sopra e lo cercai in tutte le stanze, prima di
tornare di sotto e controllare in cucina. Niente. Respirai
profondamente e cercai di calmarmi, mentre il fumo mi circondava in un
abbraccio sgradevole e caloroso, e mi sentii girare la testa. Spalancai
la finestra e tossii un po', riprendendo il controllo di me stesso, poi
tornai a cercarlo, controllando in ogni stanza per vedere se magari
fosse caduto per terra, ma niente. Ormai la cappa era troppo fitta per
continuare a cercarlo, così arrancai verso il salotto e mi
avvicinai all'uscita, la testa che girava sempre di più e la
vista sempre più annebbiata, crollando sul corrimano appena
ebbi
varcato la soglia. Respirai a fondo, cercando di racimolare un po'
d'aria pulita, ma tutto divenne nero e svenni.
«Gerard?»
mormorai flebilmente, aprendo gli occhi.
«Oh,
Frankie, ti sei svegliato finalmente» mi salutò
apprensivamente lui, seduto sull'erba accanto a me.
«Si può sapere che cavolo ci facevi in casa? I
pompieri
hanno detto che hai rischiato di morire soffocato, mi sono preoccupato
da morire»
«Ero...
ero venuto a cercarti...» mormorai, abbassando lo sguardo.
Lui
tacque e assunse un'aria affranta, mordendosi il labbro, e si mise la
mia testa sul grembo, accarezzandomi delicatamente la guancia.
«Non
era il tuo appartamento, comunque» buttò
lì dopo un
po', tornando a guardarmi. Alzai gli occhi su di lui, stupito.
«Era
la vicina. Quella di sotto. Ha fumato a letto e il mozzicone ha
incendiato le coperte» spiegò, senza alzare lo
sguardo e
continuando ad accarezzarmi il viso, «ora
è in ospedale, ma non è niente di
grave».
Annuii.
«E
tu... tu come stai?» domandai, cercando di scorgere qualche
nuova emozione nel suo sguardo preoccupato.
«Tutto
bene; ho sentito la puzza di fumo e mi sono affacciato alla finestra, e
visto che di sotto c'erano tutti con un'aria spaventata a morte ho
capito l'antifona, ho sistemato Ludovico nel suo trasportino e siamo
andati a farci una passeggiata» rispose, indicando l'animale
con
un cenno del capo. Era dentro la sua gabbietta e sembrava a suo agio,
sebbene la sua routine fosse stata bruscamente interrotta e ora si
trovasse in un parco a lui completamente sconosciuto.
«Mi
dispiace» sussurrò, piegandosi in avanti e
baciandomi dolcemente la fronte.
«Non
importa, quello che conta è che stiamo tutti bene»
ribattei, abbozzando un sorriso. Gerard ricambiò e si
tirò su, portandosi una ciocca rossa dietro l'orecchio, e
avvicinò la gabbietta a noi due, come a riunire la famiglia.
Sorrise.
«Dicono
che tra qualche ora potremo tornare a casa» aggiunse, come a
tranquillizzarmi «quindi
per ora rimarremo qui, a meno che non cominci a piovere. Ultimamente il
tempo è stronzo, da queste parti»
ricordò. Dinklebeeeerrrrg.
«Ludovico
ha mangiato?» domandai quindi, cambiando argomento. Gerard
annuì.
«Hai
dormito per più di un'ora, abbiamo
fatto in tempo a farla noi, la spesa» rispose, sorridendo
sornionamente.
«Cioè
mi hai lasciato qui da solo mentre andavi a comprare la
cena?» ripetei, abbastanza scettico.
«Be',
no, c'era quel barbone laggiù». Tacque. «Okay,
okay, non è vero, ho chiesto qualcosa all'altra
vicina» si arrese.
«Mi
sembrava strano» osservai divertito, lasciandogli un buffetto
sulla spalla.
«Cosa
intendi dire?» ribatté lui, fingendosi offeso e
incrociando le braccia sul petto, affondando il viso tra le spalle.
«Che
sei troppo buono per anche solo pensarci» sussurrai,
baciandogli la mano e guardandolo negli occhi.
«Paraculo»
soffiò, unendo le labbra alle mie e staccandosene pochi
secondi dopo. «Ce
la fai a mangiare qualcosa?»
«Basta
che non hai cucinato tu e mangio» lo sfottei, beccandomi un
altro scappellotto da parte sua.
«Non
so perché ti dia ancora retta» sospirò
esasperato, passandomi un panino.
«Perché
ti presto casa, forse?» ribattei.
«Touché»
commentò, mentre mi tiravo su e scartavo la cena.
«Attento,
ci sono i cetriolini» lo avvisai, storcendo la bocca e
sputandone fuori uno.
«Diamoli
a Ludo» propose, aprendo il panino per prenderne qualcuno.
«È
fuori questione. Un cambiamento di dieta, unito a uno stress
improvviso, può essergli fatale» lo stoppai.
«Ah
sì?» domandò, guardando l'animaletto
grattarsi il
naso all'interno della gabbia. Annuii con decisione.
«È
una delle prime cose che ha detto il commesso» gli ricordai.
Lui assunse uno sguardo vacuo.
«Ti
credo sulla parola» scrollò le spalle, ammettendo
di non averlo ascoltando per neanche un secondo.
«Lancialo
ai piccioni, semmai» proposi; lui scrollò
nuovamente le
spalle e tirò un cetriolo lontano, verso il lago.
«Cominciamo
ad avviarci, fra una mezz'oretta i vigili dovrebbero aver
finito»
disse poi, stiracchiandosi e alzandosi in piedi, tendendomi una mano
per aiutarmi. La strinsi e mi tirai su, spolverandomi i jeans
dall'erba, poi afferrai la gabbietta per il manico e trotterellai
dietro al frontman, sbocconcellando il mio panino. Che faceva veramente schifo.
I
giorni successivi trascorsero con tranquillità.
Più o
meno. Fortuna che Gerard si ricordava dell'esistenza di Twitter una
volta ogni trentacinque anni, oppure avrebbe documentato tutto
l'addestramento di quel povero cristo minuto per minuto e la PETA ci
sarebbe venuta a manifestare sotto casa senza sosta. Mi ero ormai
arreso al fatto che il frontman dedicasse più attenzioni al
cincillà che a me e passavo le giornate a passeggiare,
suonare
la chitarra o cazzeggiare in giro, in modo da lasciarlo libero di fare
un po' quel che voleva senza sentirmi urlare contro. Non che urlasse
mai, ma per me le paranoie non hanno mai fine, quindi. Solo che si
stava avvicinando il momento di andare in tour e non potevamo
assolutamente portare Ludovico con noi, quindi il suo addestramento
andava interrotto e messo da parte. Ma come dirlo a Gerard?
«Gee?»
mormorai, bussando con le nocche sulla porta. «Posso
entrare?»
«Frankie!
Vieni, vieni pure» sorrise lui, posando la macchinetta sul
lavello e voltandosi verso di me.
E mo' come cazzo faccio?
«Come
vanno le cose?» domandai, cercando di guadagnare tempo.
«Alla
grande. Ancora un paio di giorni e Ludovico sarà il
più
grande cincillà di tutti i tempi»
esclamò.
«Ah,
che cosa carina» commentai, abbozzando un sorriso e
appoggiandomi
con la spalla al frigorifero. Gerard mi guardò.
«''Carina''?
Questa è una rivoluzione, Frankie, l'idea migliore del
millennio!» ribatté, fiero di sé.
«Hai
ragione, scusa» convenni, staccandomi dal mobile. Non avrei
mai
avuto le palle per dirglielo ora che era così felice.
«Hai
parlato coi ragazzi, comunque?» domandai, cambiando argomento.
«No,
perché? C'è qualche problema?» chiese a
sua volta.
Sì, sì ce n'è uno. Dobbiamo tornare in
tour, Gee, e al più presto.
«No,
niente, non ti preoccupare. Buona fortuna con Ludo» tagliai
corto, tranquillizzandolo.
«Ah,
okay, grazie» sorrise, accarezzando il cincillà. «Vedrai
che ce la faremo» aggiunse, fiducioso.
«Non
ne dubito» ribattei premurosamente, uscendo dalla stanza e
andandomi a sedere sul letto. Ci
risiamo.
Mi dispiaceva fare sempre il guastafeste, specialmente nei momenti
più creativi e allegri della vita del frontman, ma ogni
volta
gli altri sbolognavano a me il compito di riportarlo coi piedi a terra
e io semplicemente non riuscivo a dire di no. Sospirai. Che poi fino a
quando sarebbe andata avanti questa storia? Giorni, mesi, anni?
Sospirai di nuovo. Mi rendevo conto da solo che non potevo continuare
così, che dovevo prendere in mano la mia vita e cominciare a
dire di no alla gente, ma ogni volta che lo facevo mi sentivo in colpa,
così lasciavo perdere e dicevo di sì, invece.
Sbuffai,
lasciandomi cadere all'indietro e portandomi le mani incrociate dietro
la nuca, pensieroso, e socchiusi le palpebre, concentrandomi sui rumori
che mi attorniavano. La televisione accesa della vicina, le macchine
che sfrecciavano lungo la strada, i cani che abbaiavano giù
al
parco, il
cincillà che armeggiava con la macchinetta del
caffè sul piano della mia cucina... Non
sapevo se ridere o piangere al solo pensiero. Optai per la prima
opzione, anche se fu una risata piuttosto isterica.
«Okay,
giuro che glielo dico» decisi, respirando a fondo. Prima o
poi.
«Frank?
Frankie?» mi chiamò il roscio dall'altra stanza.
«Sì?»
risposi distrattamente, continuando a fare zapping alla tv e fermandomi
su un canale che trasmetteva uno speciale su una delle mie band
preferite, i Misfits; voltandomi quindi verso la cucina. «Che
c'è?»
«Che
cos'è la PETA?» domandò, entrando nella
stanza scrollando il display del cellulare. Uh-oh.
«Ti
prego, dimmi che sei finito per caso sul loro sito»
biascicai, sbiancando.
«Uh?
No, tranquillo, non ho fatto niente, ma mi hanno mandato una mail e non
sembrano particolarmente contenti dei progressi di Ludovico»
commentò candidamente, senza davvero capirci qualcosa. «Forse
sono gelosi» suppose.
«Da'
qua» sbottai, prendendogli il blackberry dalle mani e
leggendo velocemente il messaggio, terrorizzato.
«Dio,
Gerard, lo sai che cosa sono loro?» domandai, pallido.
«No,
è per questo che sono venuto a chiederlo a te»
ribatté lui, battendo le ciglia.
«La
PETA è l'organizzazione di animalisti più
numerosa e
potente del mondo, si occupa dei diritti degli animali, del loro
sfruttamento, del loro modo di vivere e di qualunque cosa li riguardi,
in pratica; e se ti ha mandato una mail significa che qualcuno li ha
avvertiti di quello che stai facendo con Vic. È considerato
sfruttamento, sai?» spiegai in breve, preoccupato.
«Oh.
Ma io voglio bene agli animali» obiettò, «e
pure tu. Sei anche vegetariano, no?»
«Sì,
ma questo non conta assolutamente niente; ti stanno condannando per
come ti stai comportando con Ludovico, non perché odi gli
animali o non ne supporti i diritti» insistetti, spostando lo
sguardo da lui alla mail sempre più velocemente.
«Oh.
E quindi?» domandò ancora, riprendendosi il
cellulare e dandogli un'altra occhiata.
«Quindi
siamo nella merda più completa» risposi,
guardandolo negli occhi. «Nella.
fottuta. merda».
Okay,
ricapitolando, non bastavano i multipli mini-incendi causati dai
due, non bastavano gli infiniti pacchi di caffè che avevo
dovuto
comprare, non bastavano tutte le precauzioni che avevo preso -- il
peggio doveva comunque ancora venire. Mi strinsi la base del naso tra
le dita e mi concentrai, cercando una via di fuga. L'unica
possibilità che vedevo era invitarli da noi e fargli vedere
che
trattavamo il nostro animaletto nella maniera più consona al
suo
stile di vita, ma non era poi così facile - non con Gerard
nei
paraggi, almeno. Non perché fosse incivile, stupido,
maleducato
o qualsiasi altra cosa, ma perché non riusciva sinceramente
a
vedere cosa ci fosse di male nella sua idea e continuava a difenderla a
spada tratta con tutti quanti, e quindi c'era il rischio che lo facesse
pure con gli 'esaminatori' dell'organizzazione, mandando a farsi
benedire ogni altro tentativo di calmarli da parte mia. A malincuore,
dunque, decisi di mandarlo a cena fuori con i ragazzi, in modo da poter
mangiare da solo con chiunque sarebbe venuto a controllare i nostri
comportamenti e conservare un minimo di contegno vista la situazione,
cosa che il roscio non avrebbe mai fatto.
«Gee?»
lo chiamai entrando in salotto, pulendomi le mani in uno strofinaccio
pulito «Sei
pronto?»
«Arrivo,
arrivo» cinguettò lui correndo giù
dalle scale e raggiungendomi, raggiante. «Sei
sicuro di non voler venire? Ci divertiremo da matti, dicono che sia un
film molto bello» insistette spontaneamente, chiudendosi la
felpa sulla pancia.
«Non
ti preoccupare, starò bene così. Sarà
per la prossima volta, okay?» sorrisi, mentre lui alzava il
volto verso di me.
«Okay,
ma la prossima volta vieni per forza» mi avvisò,
sorridendo e sporgendosi in avanti per un bacio veloce. Non fece
nemmeno in tempo a schiudere le labbra che la voce scazzata di Ray
risuonò per il corridoio, così si
staccò, mi lanciò un'occhiata alla 'sai
com'è fatto', abbozzò un sorriso e
aprì la porta, indugiando un attimo sulla soglia.
«Ho
le chiavi, se non ti senti bene puoi anche andare a letto, okay?
Farò di tutto per non svegliarti quando torno, non ti
preoccupare» mormorò, accarezzandomi la guancia. «Buona
serata, amore mio» mi salutò quindi, scomparendo.
Bene, la parte difficile arriva
ora.
Aspettai
che il gruppetto sparisse insieme all'eco delle loro risate e tornai in
cucina, ripescando un grembiule da dentro un cassetto e legandomelo in
vita; accesi i fornelli e riempii una pentola d'acqua, per poi
sistemarla sul fuoco e metterci sopra un coperchio, e cominciai a
preparare la cena. Vegetariana, mi pare ovvio. Mentre ero a
metà dell'opera, notai che il cincillà aveva
l'aria di uno che voleva sgranchirsi le gambe, così mi
fermai un attimo e lo feci uscire dalla gabbia, lasciando che
saltellasse in giro per almeno un paio di minuti prima di rimetterlo al
suo posto e tornare ai miei preparativi. Dopo una mezz'oretta circa,
potei finalmente dire che tutto era pronto e impeccabile e mi concessi
di tirare un tanto bramato sospiro di sollievo, lasciandomi cadere sul
divano e socchiudendo gli occhi. Dieci minuti dopo, il citofono suonava.
«Pronto?»
domandai spaventato, aggrappandomi alla cornetta.
«Non
si dovrebbe dire 'chi è?' in questi casi?»
gracchiò una voce maschile, subito zittita da una femminile.
«Oh,
ma che te ne frega, Aus; lascialo vivere» squittì
la seconda, piantandogli una gomitata tra le costole con aria
impettita. «Il
signor Frank Iero?» domandò quindi, ricordandosi
di me «siamo
della PETA».
«Sì,
certo, vi stavo aspettando... Secondo piano sulla destra, ma vi
verrò incontro» biascicai, sperando di convincerli.
«Grazie
tesoro» rispose zuccherosa la donna, aprendo il grande
portone e entrando nel palazzo, seguita a ruota da un uomo sulla
cinquantina, probabilmente suo marito, che si guardava intorno con aria
circospetta. Mi sbrigai a raggiungerli.
«Buonasera,
signori» li salutai con un sorriso impacciato, porgendo loro
la mano. Me la strinsero, lei ricambiando il sorriso con aria sciolta e
lui riservandomi uno sguardo gelido, e cominciammo ad avviarci verso
casa, nell'imbarazzo più totale.
«Comunque
io mi chiamo Hannah» si presentò la donna, una
volta attaccata la giacca all'attaccapanni e tirata fuori una sigaretta
dalla borsa a tracolla, «e
lui è Austin, il mio partner. Lavoriamo insieme da anni, e
quando c'è qualcosa non va lo capiamo subito, quindi se hai
qualcosa da nascondere faresti meglio a dirlo ora, tesoro».
Continuò
a giocherellare con i miei vinili e i miei dischi, girandoli e facendo
correre le dita lungo le copertine, e mi guardò, senza
smettere di sembrare una qualunque casalinga di mezza età
che guarda fin troppe telenovelas per commentare la realtà
con un minimo di serietà; sorrise, un sorriso da squalo, e
mise nuovamente a posto il disco, voltandosi verso di me.
«Niente
da dichiarare?» mi sollecitò, trillante, con una
faccia da chi ti ha appena visto rapinare una banca e seppellire il
bottino vicino casa sua per poi lasciarlo lì bell'e
incustodito. Scossi la testa, cercando di sembrare convincente, e
annuii.
«Niente
di niente, signorina Hannah» ribattei, deciso, e lei
tirò le labbra in una specie di ghigno decisamente
inquietante.
«Questo
lo vedremo, tesoro» replicò, girando di scatto la
testa verso le scale. I suoi capelli profumavano di frutti di bosco.
«Che
c'è di sopra, dolcetto?» domandò,
tornando a guardarmi con aria a metà tra il compassionevole
e il secco.
«Camera
da letto e bagno» risposi meccanicamente «vuole
controllare?». Scosse il capo.
«Forse
dopo. Per ora mi accontento di vedere l'animaletto - un
cincillà, vero? - e accertarmi che sia trattato con la cura
adeguata, se non almeno decente. Fammi strada, tesoro».
Annuii e la guidai di sopra, spalancando la porta di camera mia con
lentezza e accertandomi che fosse tutto in ordine come l'avevo lasciato
prima di far entrare la donna. Ludovico era nella sua gabbietta e
dormiva placidamente sul truciolato, appoggiato su un fianco a qualche
centimetro dal "beverino" d'acqua, e riuscivo a percepirne il russare
leggero se solo tendevo l'orecchio. Lanciai un'occhiata alla signora e
la vidi avvicinarsi all'animale, silenziosamente, per poi piegarsi in
avanti e controllare attentamente le condizioni della gabbietta.
«Hmm...
sembrerebbe tutto normale...» commentò, rimanendo
adagiata sulle ginocchia «ma
dovremo aspettare che il nostro amico qui si svegli per poterci
accertare del suo stato psicologico e poter essere sicuri della cosa.
Per quanto ne so, potresti aver pulito la gabbia giusto oggi e non
avercelo detto, sweetie» concluse, alzandosi in piedi e
pulendosi le mani.
«Nel
frattempo, mentre questa meraviglia si riposa, che ne dici di mostrarci
il resto del piano, zuccherino?» propose, con un tono che non
ammetteva repliche. Abbozzò un altro sorriso da pescecane e
abbassai il capo, facendogli cenno di uscire dalla stanza con la mano e
seguendola appena sboccò in corridoio. Richiusi
silenziosamente la porta dietro di me.
«Questo
è il bagno» dichiarai, lasciandola curiosare tra i
nostri effetti personali e quelli del cincillà, disposti
accuratamente su un ripiano a parte, al riparo dal sole e da eventuali
ventate d'aria fredda. Sembrava soddisfatta.
«La
tua ragazza dev'essere molto ordinata» cinguettò,
rimettendo a posto un pacco di sabbia e girandosi a guardarmi,
concedendomi un sorriso smagliante. Lo ricambiai con riluttanza e uscii
dalla stanza, mentre l'uomo arrancava dietro i miei passi, catturando
tutto con gli occhi e senza spiccicar parola nemmeno una volta, e mio
malgrado rabbrividii. Mi ero fatto il culo a pulire tutto al massimo
delle mie capacità, ma se non fosse stato abbastanza per
loro?
«Da
questa parte invece c'è lo studio» dissi
continuando il giro, aprendo la porta su una sala piena di libri di
ogni volume e dimensione ed entrandovi, appoggiandomi quindi alla
grande scrivania che dominava tutto, austera. Avevo lasciato apposta
dei pomi aperti e dei fogli mezzi scritti per dare un po'
più di veridicità all'ambiente, anche se, tutto
sommato, il casino che aveva lasciato il roscio prima di uscire era
solo di aiuto vista la situazione. Hannah mosse qualche passo incerto e
si fermò a dare un'occhiata a qualche titolo, scandendo le
lettere con le labbra e assumendo un'aria assorta man mano che il suo
sguardo passava da un ripiano all'altro, e mi sentii a disagio. La
donna si spostò i capelli dagli occhi, sistemandoli dietro
l'orecchio destro, e fece correre un dito sulle copertine di alcuni
libri, come a controllarne la pulizia. Mi parve di scorgere un pizzico
di delusione in lei quando notò che il suo dito era rimasto
come prima, ma forse me lo immaginai.
«Leggi
cose poco consone per la tua età, zuccherino»
commentò, alludendo alla vasta collezione di fumetti di
Gerard.
«Sarebbe
ora che cominciassi a mettere la testa a posto, o gli altri potrebbero
prenderti in giro».
Mi
stupì come parlasse come mia madre e sorrisi inconsciamente,
associando la sua figura a quella severa di mia mamma e mettendole a
confronto. Sì, sarebbero potute decisamente essere amiche,
se si fossero conosciute in un altro frangente. Chissà,
magari l'avrebbe anche invitata a qualche cenone di Natale, se fossero
entrate molto in confidenza. Chissà.
«Però
certo, qualche buon titolo ce l'hai, quindi forse tieni quella robaccia
solo per distrarti...» stava continuando, senza evidentemente
essersi accorta della mia distrazione, rassomigliando sempre di
più a mia madre. Staccai l'audio.
«Be',
tesoro, direi che qui abbiamo finito, anche se mi piacerebbe
incontrarti più spesso in biblioteca. Potrei consigliarti
tante belle cose, sono sicura che ti piacerebbero» si
compiacque, lisciandosi il vestito a fiori. «Allora,
ci scorti di sotto?»
«Ma
certo, da questa parte» risposi, aspettando che uscissero
dalla sala per poter tornare al piano terra e dirigermi verso la
cucina, dove spensi il forno e mi girai a guardarli. «Vi
spiace se continuiamo dopo cena? Di solito a quest'ora Ludovico si
sveglia e mangia qualcosa con me, poi dopo passeggiamo un po' e gli
lascio fare un bagno di sabbia» domandai. La donna sorrise
sornionamente, annuendo e piegandosi verso il forno, cercando di
scorgerne il contenuto.
«Che
cosa ci hai preparato, caro?» chiese, tornando in posizione
eretta e guardandomi dritto negli occhi.
«È
uno sformato di verdure» risposi, di nuovo a disagio.
Probabilmente pensava che l'avessi fatto per impressionarli.
«E
l'hai fatto tutto da solo?» insistette, ravvivando di nuovo
l'immagine di casalinga che mi aveva dato in primo luogo.
«Be',
sì, ci sono abituato» mormorai, cercando di
mantenere un'aria sicura mentre lei mi squadrava con i suoi grandi
occhi grigi, stranamente vivaci vista l'ora, e arcuava le labbra in un
ennesimo falsissimo sorriso. Diede una gomitata nelle costole al
partner e lo guardò con aria emozionata, come se lo stesse
invitando a seguire il mio esempio e a mangiar più sano.
«Hai
sentito, Austin? Lui sì che sa come conquistare una
donna» gongolò, simulando una risata sbarazzina.
Abbozzai un sorriso impacciato e sentii come un peso sul petto, mentre
lei si sporgeva di nuovo verso l'elettrodomestico e mi faceva i
complimenti per l'aspetto del mio sformato, sotto lo sguardo annoiato
dell'altro uomo, che mi guardò inespressivo per un paio di
secondi e poi spostò la testa, scuotendo quindi la spalla
della collega con le dita.
«Hannah,
vorrei ricordarti che siamo al lavoro. Se vorrai, dopo potrete
scambiarvi le ricette e spettegolare un po', ma ora dobbiamo portare a
termine il nostro incarico e mantenere un minimo di
professionalità, che dici?». Lei lo
guardò.
«Guastafeste»
sibilò tra i denti, rialzandosi e sistemandosi velocemente
il vestito dalle pieghe «Allora
noi andiamo a lavarci le mani, zuccherino, torniamo subito,
okay?». Annuii debolmente e li osservai allontanarsi, tirando
un sospiro di sollievo appena scomparvero in cima alle scale,
appoggiandomi completamente al banco da lavoro e passandomi una mano
sul volto. Le nove meno un quarto. Il film sarebbe finito verso le nove
e mezza, quindi avevo più di quarantacinque minuti a
disposizione per fargli chiudere questa stupida inchiesta e levarmeli
dai piedi, e con un po' di fortuna il frontman non si sarebbe neanche
accorto della loro presenza qui, nella sua euforia post-serata con gli
amici. Sorrisi tra me e fui tentato dall'accendermi una sigaretta
veloce, ma scacciai l'idea dalla testa e andai a recuperare la
gabbietta dell'animale, invece; la posai davanti alla finestra chiusa e
feci un grattino tra le orecchie a Ludovico, che aveva cominciato a
sbadigliare.
«Un
violet, eh?» mormorò la donna, comparendo
all'improvviso alle mie spalle, spostando lo sguardo dal
cincillà a me.
«Bella
scelta, anche se di solito li preferiscono le ragazze». Rise
tra se, come ad allentare la tensione, e frugò un attimo
nella borsa a tracolla, tirandone fuori un pacco di uvetta secca
già aperto, avvicinandosi all'animale per offrirgliene un
po'.
«No!»
esclamai, forse con troppa veemenza. Me ne resi conto e arrossii,
mentre lei mi guardava con aria corrucciata.
«Come
scusa?» mormorò, la frutta ancora nel palmo della
mano e gli occhi puntati su di me.
«Posso
dargli delle uvette solo una volta a settimana, e ne ha
già prese ieri» spiegai, imbarazzato «scusi
la foga».
«Oh,
capisco. Hai fatto bene a dirmelo allora» commentò
premurosamente lei, tirandosi su e tornando al tavolo. La seguii
cautamente e dopo qualche minuto ci raggiunse anche l'uomo, che
controllava il quadrante dell'orologio con aria assorta e non sembrava
neanche notare la tensione che aleggiava nell'aria attorno a lui.
Alzò gli occhi e ci guardò.
«Uh?
Ah, già, la cena» si ricordò, sedendosi
a capotavola, «che
si mangia?».
«Abbiamo
quel meraviglioso sformato che abbiamo visto prima» rispose
la donna, indicandolo col capo «e qui
hai una frittata, in caso tu abbia ancora fame» mi
precedette, passandogli il piatto con aria zelante. Li osservai,
smarrito, e annuii.
«G-già,
esatto» biascicai, cominciando a tagliare un pezzo di
sformato per chiunque ne avesse voluto un po'.
«Per
me basta così, grazie» trillò lei,
avvicinando velocemente il suo piatto al bordo della pentola. Le misi
dentro la porzione appena preparata e lei ritrasse le braccia,
aspettandomi prima di cominciare a mangiare. «Sei
molto bravo in cucina, zuccherino, posso chiederti chi ti ha
insegnato?» domandò, dopo aver inghiottito un
boccone di verdure.
«Ho
imparato da solo, anche se non ho molte occasioni per
esercitarmi» risposi. Perché non mi chiedeva di
Ludovico?
«Be',
direi che è proprio uno spreco, sei un talento
nato» esclamò cordialmente, mandando
giù un'altra forchettata.
«Il
nostro Austin, qui, non è capace neanche a far bollire
dell'acqua» rise, suscitando un grugnito da parte dell'uomo.
«Un
uomo non deve saper cucinare, Swhorne» ribatté,
secco, senza alzare gli occhi dal piatto.
«Oh,
secondo me sì. Sono mille punti in più a un buon
partito, non so se mi spiego. Niente è più
attraente della buona cucina, specialmente se sei una buongustaia, ed
è per questo che sei ancora solo»
replicò, strizzandomi l'occhio. Mi sentii sprofondare sotto
terra per l'imbarazzo. «Ma
d'altronde che ne puoi capire tu, che vivi di football e
lavoro?» sospirò, scuotendo la testa come se fosse
un dettaglio che le bruciava parecchio. Lui sbuffò
un «bah»
e si versò del vino, evitando di risponderle.
Calò il silenzio e mi sentii terribilmente esposto, mentre
lei continuava a ingurgitare cibo con nonchalance e lui a fissare il
suo riflesso nel bicchiere, avendo terminato la sua porzione di
sformato e declinato la mia proposta di portare un dolce o
qualcos'altro a tavola con un 'no, sto bene così, grazie'.
Ludovico cominciò a grattare contro le sbarre e mi
lanciò un'occhiata interrogativa, spostando lo sguardo
dall'una all'altro ospite e domandandomi chi erano con gli occhi.
«Aspetta
un attimo, Ludo, arrivo subito» risposi, finendo di
sparecchiare mentre la signora si avvicinava a lui e gli sorrideva con
quella che definiva un'aria amabile e affettuosa, ma che sembrava
più una presa in giro di un sorriso che altro.
«Ecco,
ancora un attimo...» mormorai, aprendo la gabbia e tirandolo
fuori, depositandolo sul tavolo. Lui emise un verso che doveva essere
una specie di sbuffo e mi si avvicinò di più,
senza fidarsi degli altri due. Hannah rise.
«Oh,
ma com'è carino» pigolò, mentre quello
cercava disperatamente di nascondersi fra le mie dita, e l'altro
annuì.
«Non
sembra molto abituato agli ospiti»
osservò, secco, senza smettere di osservarlo.
«Per
i cincillà conoscere gente nuova è fonte di
stress, e bisogna evitare il più possibile di farli
stressare» ribattei, deciso, «perché
potrebbero ammalarsi o sviluppare una qualche forma di nervosismo che
potrebbe a lungo andare deprimerli».
«Hai
proprio ragione, zuccherino» convenne la signora, spostando
nuovamente i capelli lontano dal viso.
«Ma
dovresti farlo passeggiare in ambienti più protetti, qui
basta un niente che crack, cade e si spacca l'osso del collo».
«Ci
sto molto attento, non temete» ribattei, facendomelo
camminare sulla mano. Ludovico si sedette, tranquillo.
«Non
ne dubito, tesoro» annuì melensa la donna,
stringendomi la guancia tra le dita e scuotendomela.
«Daccene
una dimostrazione allora» sbottò invece l'uomo,
deciso a sbrigare la faccenda il più velocemente possibile.
Tacqui, intimidito, e Hannah lo rammonì con un «Aus!»,
girandosi poi verso di me e sorridendo. «Dai,
parlaci un po' di qualcuno dei suoi rituali»
m'incitò premurosamente, senza provare neanche a toccare
l'animaletto. Annuii.
«Ecco,
di solito si accontenta di salirmi sulle spalle e una volta
lì tende a rimanerci, quindi non si muove molto...
Però a volte invece preferisce correre per il bagno, e
quando succede possiamo star lì le ore senza che si stanchi
mai. Siccome più o meno ovunque ci sono mobili sotto i quali
si può nascondere e buchi nei quali si può
infrattare, abbiamo deciso che quella è la stanza meno
pericolosa di tutte. Voglio dire, basta abbassare la tavoletta e
chiudere la finestra che sono terminati i modi in cui può
uccidersi, quindi è comunque abbastanza sicura. Senza
contare che Ludo è un esemplare piuttosto pigro, quindi non
cerca neanche di scalare i mobili e saltare da un piano all'altro, ed
è piuttosto difficile che si spacchi qualcosa».
«Capisco...
e in giro ce lo porti?»
domandò di nuovo, giocherellando con una penna.
«Assolutamente--»
«Sì»
m'interruppe l'uomo, scocciato.
«Eh?»
ribattei, confuso. Lui mi guardò, serio, e mi
passò una foto, datata sette giorni prima all'ora di pranzo.
«Ce
l'ha passata una tua vicina, qualche giorno fa. Sai che è
terribilmente pericoloso per i cincillà uscire?»
m'incalzò.
«Non
riesco a capire» mormorai, prendendomi la testa fra le mani, «Io
non... non...»
«Non
avrai una seconda possibilità, ecco cosa»
sbottò, riprendendosi la fotografia. «Scommetto
che non è la prima volta che succede e che non
sarebbe l'ultima, se permettessi all'animale di restare qui
con te. Ti rendi conto di quanto sia incosciente il tuo comportamento?
Se vuoi giocare con una vita, gioca con la tua!» La donna lo
guardò, contrariata.
«Andiamo,
Aus, guarda com'è sconvolto... magari non lo sapeva
proprio» ipotizzò, accarezzandogli il braccio.
«Ancora
peggio! È il suo cincillà, dovrebbe starci
attento ed essere più responsabile, non lasciarlo prendere
al primo che passa e farglielo portare a spasso come qualunque altro
animale domestico! Un minimo di cervello, insomma!»
«Ma
hai visto come lo tratta bene, un piccolo errore può
capitare a tutti» ribatté lei, sminuendolo.
«A
tutti un corno, e se ci avesse lasciato le penne?»
«In
quel caso avremmo potuto incazzarci di brutto, ma non è un
reato portar fuori il proprio cincillà»
obiettò la donna. L'avrei ringraziata, ma ero troppo
sconvolto anche solo per pensarci. Gerard era davvero andato al
supermercato con Ludo. Mentre io ero già collassato sul
pianerottolo di casa. Mentre io rischiavo la vita per loro. Mentre io
soffocavo.
«Non
è reato ma è incoscienza! Non si trattano
così gli animali!» sbraitò l'uomo,
visibilmente adirato, ma a raggiungermi fu solo l'eco della sua voce. Allora non era uno scherzo.
«Diosanto
Aus, abbiamo lasciato gente in pace per molto peggio, non credi di
esagerare?»
«Esagerare?
Ti pare che esageri? Pensa se fosse morto!»
«Ma
non è morto, no? Non è questo che
conta?»
«Quello
che conta è che abbia un padrone che sappia trattarlo come
si merita!»
Allora era serio. Allora l'ha
fatto davvero. Allora mi ha abbandonato svenuto in mezzo a un prato per
davvero.
«E
chi pensi che sia questo padrone se non lui? Uno sbaglio capita a
tutti, non significa che le cose non vadano bene»
Alzai
gli occhi e le lanciai uno sguardo vacuo da sotto le mie occhiaie
addolorate. È
vero, tutti sbagliano.
«E
chi ti dice che è il primo sbaglio?»
ringhiò lui.
«Questo»
si limitò a controbattere la donna, prendendomi per le
spalle e sbattendogli davanti al viso i miei occhi lucidi.
«Se
lo facesse spesso, se lo mettesse in pericolo spesso... non avrebbe
questa faccia».
Cadde
un silenzio gravoso nella stanza, interrotto solo dal mio respiro
pesante e dal ticchettio dell'orologio. Mi pareva quasi di sentire le
sopracciglia dell'agente incrinarsi e stridere, per quanto duramente le
stava corrugando, e non fui in grado di sostenere il suo sguardo
arcigno per altro tempo, così spostai lo sguardo verso il
basso, deglutendo.
«Per
me devi lasciarglielo» disse la donna, abbandonando per la
prima volta la sua aria da casalinga troppo sognante.
«Dammi
un buon motivo» ribatté lui, glaciale, sfidandola
con gli occhi. Lei increspò le labbra con serena
tranquillità.
«Lo
ama abbastanza da sopportare i miei nomignoli e la tua scortesia con un
sorriso per tutta la serata».
Lui
ammutolì, senza sapere cosa ribattere. Effettivamente,
persino a lui davano fastidio i 'tesoro', gli 'zuccherino' e i 'caro'
della collega, e se fosse stato in me probabilmente avrebbe dato di
matto. Sospirò sonoramente, alzando le mani al cielo.
«Okay,
okay, hai vinto. Si tenga pure il cincillà» si
arrese, scuotendo la testa con
rassegnazione mentre la rabbia sfumava «ma se lo ribecco a
fare una cosa del genere io--»
«Tu
niente, Austin, non sono cose di nostra competenza» gli
ricordò zelante la donna, sorridendo.
«Il massimo che potrai fare è fargli una predica,
comprare un cincillà e dimostrargli quanto tu sia meglio di
lui nel curarlo. Anche se non credo riusciresti mai a superarlo, sai?
Ho come l'impressione che non lo raggiungeresti nemmeno
lontanamente».
Sorrisi
e la ringraziai con gli occhi, grato. Stavo per piangere, ma non
m'importava. Avremmo tenuto Ludovico, sarebbe andato tutto bene,
saremmo rimasti una famiglia. E chissenefrega di tutto, sarebbe andato
tutto bene. Mi strizzai la base del naso con le dita, cercando di
cacciare indietro le lacrime, e la donna sorrise, mettendomi una mano
sulla spalla.
«Sei
un bravo ragazzo, Frank» sussurrò. «Sbagliare
è normale, l'importante è saper perdonare e
andare avanti».
La
guardai di nuovo. Sì, sarebbe decisamente andata d'accordo
con mia madre. Lei l'avrebbe perfino invitata ai cenoni di Natale, ne
sono sicuro. Tipo come ospite d'onore o qualcosa del genere. Sarebbe
stato fico.
«Grazie»
sussurrai, abbozzando un sorriso. Lei contraccambiò con
sincerità e mi levò la mano di dosso,
sistemandosi la borsa a tracolla e alzandosi silenziosamente in piedi,
imitata prontamente dal collega. Mi strizzò l'occhio,
soddisfatta.
«Be',
direi che il nostro lavoro qui è finito»
commentò quindi, arruffandomi i capelli prima di uscire
dalla porta, che l'altro agente le aveva tenuto aperta, «buona
vita, signor Iero. Spero di non rivederti mai più, ragazzo
mio». Ricambiai il saluto e rimasi immobile nella penombra,
mentre il rombo della loro macchina si allontanava sempre di
più, e sentii due lacrime calde scorrermi lungo le guance,
mentre Ludovico mi si avvicinava e strusciava il muso contro la mia
mano, come se stesse tentando di tranquillizzarmi. Sorrisi,
grattandogli le orecchie, e mi tirai su. Ripresi in mano la foto,
delicatamente, e sorrisi tra me e me. Hannah l'aveva lasciata
lì apposta, ne ero sicuro. L'afferrai meglio e la strappai
in due, accartocciandone ogni metà e lasciandole sul tavolo.
Aveva ragione, ognuno meritava una seconda possibilità.
Presi il mio amico in braccio, lo infilai in gabbia e mi sdraiai sul
divano, in attesa di Gee. Sarebbe andato tutto bene.
«Frankie?
Frankie svegliati, è mattina» mi sentii chiamare.
Quando aprii gli occhi, la prima cosa che vidi furono le iridi marroni
del ragazzo, sistemate a pochi centimetri da me, e poi il suo sorriso
smagliante, così insolito di prima mattina.
«Dormito
bene, amore?» mi chiese, stampandomi un bacio delicato sulla
fronte.
«Più
o meno, ho la schiena a pezzi» mormorai, ancora intorpidito
dal sonno. Mi portai una mano alla testa e sbadigliai.
«Vuoi
un caffè? È ancora bollente» propose,
sorridendo. Ricambiai il sorriso e dissi che mi sarebbe piaciuto da
morire, così lui scomparve in cucina e tornò
indietro con la mia tazza preferita. «Ecco,
tieni» sussurrò, passandomelo e sedendosi sul
divano accanto a me. Mi appoggiai contro la sua spalla e lo guardai dal
basso, scoccandogli un bacio sul mento.
«Dai,
smettila, se fai cadere il caffè ci ustioniamo»
scherzò, ricambiando però il bacio. Arricciai il
naso per prenderlo in giro e ne presi un sorso, e un sapore amaro mi
invase la bocca, accarezzandomi il palato. Aprii gli occhi e lo guardai.
«Woah,
ma è buonissimo. Come hai fatto?» sbottai,
guardandolo in faccia con aria sorpresa. Lui esplose in un sorriso
fiero e indicò la gabbia con un cenno del capo. «No.
Non ci credo. Non è possibile» esclamai,
incredulo, scoppiando a ridere, la mano sinistra sulla fronte e l'altra
stretta attorno alla tazza. «Tu
sei un genio, Gerard, un fottuto genio».
«Il
genio più genio della storia» precisò,
orgoglioso.
«E
anche uno dei due unici fortunati. Questo sarà il nostro
piccolo segreto» mormorò, sporgendosi in avanti
per lasciarmi un bacio sulle labbra «e
nessun altro riuscirà mai a cavarcelo di bocca».
Ripensai
alle parole di Hannah. Sì, tutti hanno diritto a una seconda
possibilità. E noi eravamo destinati ad averne migliaia.
|