“Porta in ufficio questi documenti, li abbiamo già
visionati.”
“Agli ordini!”
“E recupera i fascicoli XTB-16 e
WTF-02.”
“Va bene!”
“E ricordati di passare dal capo a
fare rapporto!”
“Sì… certo…”
Stava già per uscire quando sentì la voce di L richiamarlo indietro.
“Ah… Matsuda-san…”
“Sì, Ryuzaki? Hai bisogno che
faccia qualcos’altro?” domandò speranzoso che quella sarebbe stata finalmente
la volta buona per dimostrarsi utile al grande
detective che tanto ammirava.
“Sì… Comprami un tubo di Smarties
al bar qui all’angolo, mentre torni qui…” e detto questo, L
tornò a concentrarsi sulle prove che stava esaminando, accatastate insieme a
scatole di cioccolatini, carte di caramelle e una brioche sbocconcellata.
“…non c’è problema, Ryuzaki…”
annuì il giovane poliziotto a testa bassa, chiudendosi la porta della stanza
d’albergo alle sue spalle.
.
***
.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando fu finalmente libero
da tutti i compiti che gli erano stati assegnati. Aveva svolto ciascuno dei
suoi doveri con impegno e dedizione, come se da essi
fossero dipese le sorti dell’indagine. Sì, persino andare a
comprare i dolci per L nel bar all’angolo.
Matsuda poteva dare l’impressione di essere un po’ stupido,
ma l’esser parte della squadra investigativa testimoniava che non lo era
affatto in fondo. Il fatto era che, lavorando a stretto contatto con
personalità molto più forti e carismatiche di lui, la
sua ne risultava sempre schiacciata. Per quanto si impegnasse,
non sarebbe mai stato efficiente e preciso come Aizawa,
Ukita o Mogi. Non avrebbe mai avuto la forza di
volontà e la risolutezza del Capo Yagami. Men che mai
avrebbe mai potuto eguagliare la genialità di L.
Matsuda aveva una discreta intelligenza, forse appena sopra
la norma, ma sempre nulla di eccezionale. Aveva un carattere
semplice, non nascondeva mai nessuna emozione, a
partire dalla sua infantile tendenza ad entusiasmarsi troppo facilmente,
passando per i melodrammatici sospiri di delusione riservati ai momenti di
sconforto e concludendo con la paura. La più semplice, pura e micidiale paura.
Non che credesse che gli altri non ne avessero, ma lui
era sempre il solo a mostrarla così sfacciatamente. Diceva con sincerità tutto
quello che pensava e per quanto più e più volte gli fosse stato detto che
quella era una virtù, nella maggior parte dei casi finiva col parlare a
sproposito. Infine era sentimentale, decisamente
troppo per il lavoro che faceva.
Forse l’unica vera qualità eccellente che possedeva era di
accettare senza troppi patemi d’animo la coscienza della propria normalità.
E di fare sempre tutto quello i
suoi colleghi (i suoi amici, sperava) gli chiedevano di fare, naturalmente.
La ventiquattrore pesava come se fosse stata piena di mattoni
e Matsuda aveva l’impressione che gli si sarebbe staccato un braccio a furia di
portarsela appresso. Fortunatamente l’albergo in cui si erano stanziati quel
giorno era di fronte al bar dove aveva recuperato i dolcetti, proprio oltre la
strada.
Aveva già un piede sulle strisce pedonali, pronto ad
attraversare di corsa per non finire travolto dal camion che stava
sopraggiungendo, ma si bloccò di colpo e ritornò sul marciapiede. Il traffico
sulla strada, il vociare delle persone che andavano avanti ed indietro con
passo spedito, le note di una canzone che uscivano dalla porta spalancata di un
negozio, la voce di uno speaker dal grande televisore
esposto in una vetrina, tutto formava una cacofonia stordente a cui aveva
imparato a non prestar troppo orecchio se voleva evitarsi un brutto mal di
testa in serata. Però per un istante un suono diverso,
un piccolo flebile cambiamento tra i rumori conosciuti aveva catturato la sua
attenzione, forse proprio perché nel mezzo di quella confusionaria orchestra
cittadina suonava tremendamente stonato.
Matsuda tornò sui suoi passi e prese a guardarsi attorno,
cercando di sentirlo di nuovo, di capire da dove provenisse,
e pazienza se qualche passante troppo disattento o frettoloso lo urtava
superandolo. Fece su e giù per il marciapiede più volte, si avvicinò ora ad un
negozio, ora ad un altro, e per un istante credette
di esserselo solo immaginato. Era stanco, era stata una giornata pesante e da
quando lavorava al caso Kira aveva i nervi letteralmente a fior di pelle,
quindi era perfettamente normale che la sua mente gli giocasse qualche scherzo
una volta ogni…
Improvvisamente lo sentì ancora, decisamente
più chiaro e forte, stavolta. Di fianco al ristorante tailandese (nel quale
l’avrebbero senz’altro spedito a recuperare la cena per tutti
quella sera, dato che era l’unico take-away del circondario) si apriva
una piccola vietta secondaria, il tipico vicolo
cieco, buio e un po’ sporco, riempito soltanto da un cassonetto della
spazzatura. E da lì, ne era sicuro stavolta, era
arrivato quel suono.
Con circospezione si infilò nel
vicolo (troppo stretto perché una persona ci passasse comodamente senza
strusciare i vestiti contro i muri anneriti dal traffico, ma Matsuda era troppo concentrato su altro per
badare alla sua giacca) e si sporse per guardare oltre il cassonetto. Era una
bambina a produrre i singhiozzi che aveva sentito, se ne stava rannicchiata
contro il muro e teneva la testa appoggiata alle ginocchia, strette
convulsamente dalle braccia.
“Ehi…”
La bambina alzò il volto si scatto,
letteralmente atterrita dalla presenza di un altro essere umano, tanto da
mettere anche Matsuda in agitazione.
“No, no non ti preoccupare, non voglio farti del male!”
esclamò Matsuda sollevando la mano non costretta a sorreggere la valigetta in
segno di pace. “Stavo solo passando di qui e ho sentito qualcuno che piangeva e
mi sono preoccupato, così sono venuto a controllare… Ma tu? Stai bene?”
L’unica risposta che ottenne fu che la bambina
prese a piangere più forte e Matsuda per l’ennesima volta nella sua vita si
accorse che nelle situazioni critiche non sapeva mai cosa fare.
Beh… qualcosa si sarebbe inventato!
.
***
.
“Mh… capisco… e così le tue compagne di classe ti trattano
male, eh?” domandò dispiaciuto Matsuda, porgendo alla piccina il gelato appena
acquistato al chiosco del parco.
La bambina annuì energicamente, afferrando il dolce che le veniva offerto e cominciando subito a mangiarlo con foga.
Matsuda sorrise comprensivamente e si sedette accanto a lei sulla panchina,
mangiucchiando il ghiacciolo che si era concesso.
Ad un certo punto la bambina brontolò qualcosa mentre
mangiava.
“Cosa? Non ho sentito..”
“Ho detto che spero che Kira punisca tutte le persone
cattive. Così le mie compagne di classe imparerebbero a comportarsi male e non
mi picchierebbero più.”
Matsuda ci rimase di sasso. La bambina ora aveva ripreso a
piangere.
“Vorrei proprio tanto che Kira le uccidesse tutte… le
persone cattive… così nessuno farebbe più del male! Sarebbe un mondo molto più giusto!”
Una goccia gelata cadde sulla mano di Matsuda, facendolo
riprendere dallo stupore con cui ascoltava lo sfogo della bambina. Sapeva di
dover dire qualcosa eppure ogni parola gli si fermava sulla lingua. Come poteva
dire alla piccina che sbagliava, se le cose che diceva in parte le aveva
pensate anche lui?
Tirò fuori dalla tasca un altro
fazzoletto di carta (quello che aveva usato per ripulirle il viso dopo che
l’aveva convinta ad uscire dal vicolo era ormai inutilizzabile) e le asciugò
gentilmente i lacrimoni che le bagnavano le guance.
“Sai… io non credo che sarebbe un mondo giusto…”
Lei lo guardò aggrottando le sopracciglia, come se avesse
detto la più grande scemenza della terra, ma Matsuda era abituato a ricevere
quel genere di sguardo e non ci diede troppo peso.
“Se Kira uccidesse tutti i
criminali, forse è vero, nel mondo nessuno commetterebbe più nulla di malvagio…
Ma lo farebbe solo perché costretto. Perché avrebbe paura di
essere ucciso da Kira. Io non credo che sarebbe un bel mondo… saremmo
tutti come in un gigantesca gabbia trasparente e
avremmo paura di fare qualsiasi cosa perché temiamo venga giudicata malvagia.
Faremmo tutti la cosa giusta, non perché ci crediamo
davvero, ma perché costretti. Io non credo che questa sia Giustizia… In un
mondo come quello che vuole Kira, la Giustizia morirebbe… Perché la vera
Giustizia è nel scegliere di fare la cosa giusta, non
credi?”
Le sorrideva mentre parlava e pian piano l’espressione della
bambina cambiava. Lo scetticismo diventava comprensione ed alla fine lei chinò
lo sguardo in segno d’aver compreso di aver detto una cosa sbagliata.
“Però anche se le mie compagne mi
picchiano, non è giusto…” mormorò a mezza voce.
“So cosa significa… sai, quando avevo la tua età, i compagni
di classe se la prendevano sempre con me…”
La bambina alzò lo sguardo sorpresa
e lui le rispose con un altro sorriso rassicurante.
“E come hai fatto?”
“Eh… le ho prese. Per un bel po’ di tempo. E sono stato così
male che anche io speravo che morissero tutti… Però un giorno ho capito che se
c’era qualcosa che non mi sembrava giusto, dovevo combattere per cambiare le
cose… Chiedi aiuto a un’insegnante… a un adulto… e
mostra sempre alle tue compagne che non hai paura di loro, perché quelle che
sbagliano sono loro!”
Matsuda appoggiò una mano sulla testa della bambina e le
scompigliò affettuosamente i capelli.
“Non ti preoccupare, vedrai che andrà meglio… La Giustizia trionfa sempre!”
Lei gli sorrise e riattaccò a
mangiare il suo gelato, prima che si sciogliesse. Solo in quel momento Matsuda
si accorse che il suo ghiacciolo gli si era sciolto completamente sulla mano e
sulla manica della giacca, ma visto che la cosa
strappò una risatina alla piccola, non gli riuscì proprio di prendersela per
quello.
“Ora è meglio che vai a casa! I tuoi saranno in pensiero,
no?” le disse quando lei ebbe finito di mangiare.
“Sì!” rispose lei, saltando giù dalla panchina.
“Però signore, non mi hai detto
come ti chiami!”
“Matsu… i. Mi chiamo
Matsui!” si corresse rapidamente lui. Non
importava che fosse una bambina, era sempre meglio non usare il suo nome con
tanta leggerezza.
“Ciao Matsui-san! Grazie mille per
il gelato!”
Matsuda la salutò con la mano e si accorse che nemmeno la
bambina si era presentata, ma era ormai lontana e non gli parve il caso di
richiamarla solo per quello. Le sembrava decisamente
più sollevata mentre andava via, quello per lui era più che sufficiente.
“Bene… ora che questo caso è chiuso e ho dato un nuovo
motivo ai miei colleghi di rimproverarmi, posso tornare al Quartier
Generale!” esclamò con divertita rassegnazione, pulendo come meglio poteva la
sporcizia sulla giaccia (col solo risultato di
allargare la macchia nerastra che si era procurato nel vicolo) e recuperando la
valigetta che aveva appoggiato con cura accanto a sé sulla panchina.
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***
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Era quasi il tramonto ora e Matsuda si diresse verso la
stanza l’albergo dove, in gran segreto, un piccolo gruppo di uomini
rischiava la vita per una giusta causa senza che il mondo ne fosse cosciente.
Lui sapeva bene, l’aveva capito fin da subito, che non
avrebbe mai contato nulla la sua presenza in quel gruppo, non avrebbero mai catturato Kira grazie a lui.
Ma lui c’era.
E ce la metteva tutta in ogni caso.
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Owari