Lady
War
In
un futuro post
apocalittico, l’umanità è stata
rovesciata. La terra non è più la stessa.
Mostri orribili in grado di divorare le anime degli esseri umani,
chiamati Akuma, vagano portando morte e distruzione.
Dietro a tutto ciò c’è uno strano
figuro che indossa un fantomatico cappello e un cappotto color crema:
il Conte del Millennio.
Leda e Alan viaggiano verso l’Ordine Oscuro, sede dei ribelli
combattenti alla ricerca dei segreti per riscattare le sorti della loro
gente, accompagnati da misteriosi personaggi le cui sorti si
intreccieranno a quelle dei due fratelli.
†
Capitolo
1: Quell'uomo seduto accanto...
Il
nulla
si protendeva
per chilometri e chilometri, senza fine, lungo le aride piane del Nord
America. O meglio, di quel che ne rimaneva.
Un solo colore predominava su tutto quell’ambiente, il cui
vento portava con sé l’odore della morte:
grigio. Esso ricopriva, come una patina di cenere, ogni
dettaglio: terra, sassi, perfino le vecchie piante rinsecchite.
L’orizzonte era indistinto, si dissolveva nella nebbia e si
fondeva con il cielo bianco sporco, ricoperto di nuvole.
Ciò che però era impossibile non notare, non era
la totale assenza di policromia, quanto l’inesistenza di
alcun tipo di suono. Lo stridio di un rapace in volo, il movimento
trascinato di una serpe sul terreno, il rumore del vento…
Erano completamente assenti. L’intera pianura presentava la
stessa identica situazione, monotona, silenziosa, sterile.
Attraversarla tutta valeva a dire un mese di viaggio. E saperla
attraversare tutta denotava una costanza e una forza d’animo
incrollabili.
Leda l’aveva attraversata già tre volte. Quel
giorno sarebbero diventate quattro.
A prima vista uno sconosciuto direbbe che una bambina non potrebbe mai
farlo.
Leda però aveva già diciannove anni e di
fanciullesco conservava solo l’aspetto. Ciò che si
trovava oltre quel viso liscio e un po’ imbronciato era un
atteggiamento rude, riservato e diffidente. Il viso di una ragazza
plasmato dalla guerra, dovuta crescere in fretta per proteggere
l’unica cosa che ancora le restava della vita che aveva
perduto: suo fratello Alan, un ragazzino di dodici anni sempre
sorridente, nonostante tutte le disgrazie passate.
Ora Leda stava tornando da lui, al luogo nel quale lo aveva lasciato
con mille raccomandazioni: l’Ordine Oscuro. Una
comunità di sopravvissuti, di persone scampate alla
crudeltà della guerra e rifugiate in una grande struttura di
forma piramidale, immensa, protetta da un campo di forza impenetrabile
studiato dai più abili scienziati. In quel luogo suo
fratello sarebbe stato al sicuro. Forse. Non si era mai fidata
pienamente delle persone che lo comandavano. Più e
più volte le era capitato di bisticciare con gli addetti
della sezione scientifica, nonché con il loro supervisore:
Renny Epstain, una donna a suo dire piuttosto fredda e calcolatrice.
Alan però era sempre stato felice. E questo, in qualche
modo, la ripagava di tutti i sacrifici che era costretta a fare vivendo
lì. Il suo sorriso era un sole luminoso che rischiarava la
sua anima attorniata dalle tenebre.
L’unica persona, a suo dire, degna di vero rispetto, era
Theodore Prince, un anziano sulla sessantina, calvo, con un paio di
folti baffoni candidi sul viso asciutto e rugoso, e con un corpo
talmente esile da dare l’impressione di essere sempre sul
punto di collassare. Era però un uomo forte ed essenziale, e
aveva dimostrato, in più di un’occasione, una
dolcezza quasi paterna per i due fratelli, che aveva accolto nella sua
vecchia locanda offrendo un lavoro a Leda e prendendosi cura di Alan. I
due fratelli gli dovevano molto, soprattutto Leda. I primi mesi, quando
ancora piangeva e si dimenava nel sonno, cercando di fuggire le
immagini dei suoi genitori, che ogni volta gridavano disperati
invocando aiuto per poi tramutarsi in polvere, Theodore era sempre
stato al suo fianco. Non corsero molte parole tra loro, ma questo
bastò. La sola presenza dell’anziano fu
determinante. Scosse infatti Leda nel profondo, aiutandola a superare
la depressione e a farle capire che c’era qualcuno che doveva
proteggere, ora: Alan. L’aiutò a trovare
l’appiglio cui aggrapparsi per la sua salvezza. E non lo
avrebbe mai ringraziato abbastanza per questo.
Sul grigio orizzonte arido e secco si stagliò, avvolta da
una leggera nebbiolina lattiginosa, la punta della gigantesca piramide.
Leda sollevò lo sguardo dal terreno facendo ombra sugli
occhi per evitare di venire investita dal cielo bianco sporco, che con
la sua ingannevole lucentezza sembrava volesse accecarla.
Quando la vide, mandò giù un groppo che le era
venuto alla gola per l’emozione. Era ansiosa di rivedere Alan
e, finalmente, dopo ben due mesi e mezzo di assenza, ciò
sarebbe stato possibile.
Accelerò appena il passo. Era stanca e le piante dei piedi
le dolevano molto, probabilmente a causa delle vesciche, ma nulla le
avrebbe impedito di raggiungerlo.
Effettuò un rapido calcolo mentale: in un’ora,
massimo due, avrebbe varcato l’immensa soglia della sede.
Non sapeva con precisione che ore fossero, perché il sole
era mascherato dai fitti e spessi nuvoloni bianchi che ricoprivano il
cielo, ma in base alla luce che filtrava da essi dedusse che era ancora
mattina.
Entro il pomeriggio avrebbe raggiunto la sua meta…
†
Leda
raggiunse
l’entrata della sede: un pesante portone che, date le
ciclopiche proporzioni, pareva essere fatto di un qualche tipo di
materiale metallico spesso. Era serrato, e non lasciava intravedere
nemmeno il più sottile spiraglio di vita che brulicasse
all’interno. Leda si avvicinò e batté
un paio di volte la propria mano sulla superficie fredda e dura con
decisione, chiedendo di entrare. Non successe nulla e così
provò una seconda volta. Ancora niente.
Tutto ciò le pareva molto strano.
Solitamente, c’era un uomo o una piccola squadra addetti
all’apertura del portone, e avevano il compito di
identificare i viaggiatori che venivano dall’esterno. Quella
volta, però, sembrava non ci fosse nessuno. Leda
s’innervosì a quella distrazione. O forse avrebbe
dovuto chiamarla presunzione?
Batté ancora i pugni sul portone, e il risonante clamore
metallico si propagò per tutta la pianura ripetendosi nel
nulla fino a disperdersi completamente, facendo ripiombare poi il luogo
in un imbarazzante silenzio. A quel punto Leda perse le staffe, come
d’altronde le accadeva in quelle situazioni.
Cominciò a tirare calci e a inveire contro la porta, certa
che, se non si fossero accorti di lei, in quel modo lo avrebbero fatto
di sicuro.
- Fatemi entrare, bastardi! – gridò infuriata, al
limite della sopportazione.
E proprio mentre stava per pronunciare tutta un’altra serie
d’insulti davvero poco misurati, udì un flebile
calpestio dall’altra parte dell’immensa porta.
Cigolò, con un pesante e rimbombante rumore di metallo che
sferraglia. Subito dopo iniziò a schiudersi, pian piano,
aprendosi sufficientemente a creare un sottile passaggio
all’interno del quale Leda riuscì a sgattaiolare
con facilità, avanzando a passo di marcia e pestando con
rabbia i piedi sul terreno arido.
Si ritrovò all’interno di un corridoio alto quanto
la porta, attraversato da lunghi tubi di ferro arrugginiti che
emettevano piccoli sbuffi di vapore bollente. Accanto a lei comparvero
due uomini vestiti entrambi con dei camici bianchi e puliti e
dall’aria intelligente. Leda rivolse loro in
un’occhiata tutto il suo disprezzo, mentre si allontanava da
loro con passi pesanti. Uno dei due uomini ricambiò lo
sguardo. Evidentemente la conosceva, o meglio; conosceva le sue
maniere. Entrambi, però, non osarono aprir bocca.
Conoscevano anche la sua lingua biforcuta…
Leda sfrecciò lungo il corridoio, respirando a fondo per
recuperare la calma. S’innervosiva facilmente, ed era molto
difficile per lei poi tornare normale. Quando però
arrivò in fondo e girò a destra, imboccando una
strada più bassa ma comunque larga, venne investita
improvvisamente dal vociare acuto e sommesso della gente, numerosa, che
si spostava da una bancarella all’altra con grossi sacchi
carichi di provviste in mano. Il Mercato.
L’ambiente era illuminato e ampio, e le voci delle persone si
sovrapponevano fra loro, confuse, rimbombando fastidiosamente nelle
orecchie. I rumori, gli odori della frutta, della verdura e dei cibi
che le saettavano davanti in mano alle donne coi figli, in qualche modo
la rilassarono. Fecero riemergere nella sua mente sensazioni
famigliari. Strinse il suo zaino sulle spalle, calcandoselo ben bene in
modo che non gli sfuggisse di mano e s’inoltrò tra
la gente che si muoveva frenetica da un punto all’altro,
senza badare a lei e urtandola in tutti i modi possibili.
Leda avanzava a tentoni, aguzzando la vista per scorgere ciò
che oltre quel mare di persone non riusciva a vedere, cercando un viso
amico, o che comunque conosceva. Nessuno.
Da quando erano arrivati, la popolazione della Sede era aumentata a
dismisura. Leda si chiese come facessero per vivere, per dormire, per
mangiare, poiché la maggior parte del cibo proveniva da
fuori, e le gallerie sotterranee usate per sistemare gli alloggi non
andavano oltre una certa profondità. Probabilmente alcuni
erano viandanti, stranieri in viaggio… e altri vagabondi.
Il sovraffollamento era un bel problema. Lo sarebbe potuto diventare,
se il Supervisore Epstein non avesse fatto qualcosa.
La zona del Mercato era molto lunga. Percorreva un intero corridoio
principale per qualche chilometro, fino a giungere alle prime
abitazioni, quelle fatte di legno e mattoni. Leda doveva attraversarlo
tutto, perché la locanda di Theodore era una di quelle
costruzioni antiche. Per lei, che aveva avuto
l’abilità di camminare sulle vaste e aride pianure
del nord già quattro volte, il Mercato sarebbe stato uno
scherzo. In un quarto d’ora raggiunse il confine, segnato da
quelle bancarelle che vendevano chincaglierie inutili e che solitamente
guadagnavano ben poco.
Davanti a lei il corridoio il soffitto si estese, fino a trasformare il
corridoio in un’immensa stanza ampia e piena di case, palazzi
sbeccati e vecchie baracche di legno. Sembrava quasi una
città, senza i viottoli ciottolati e la luce diretta del
sole che veniva riflessa sui tetti. Il pavimento era di pietra, liscio
e anche un po’ consumato dal tempo; l’illuminazione
era artificiale, e non vi era alcun tipo di apertura che potesse
lasciar penetrare uno spiraglio di luce naturale. Leda si era oramai
abituata a quel genere di vita, e così anche tutto il resto
della popolazione. Era una precauzione necessaria affinché
gli Akuma non li attaccassero. All’esterno erano protetti da
quattro pilastri antichi, che creavano una barriera di energia
sufficiente a non far passare nemmeno la più piccola
impurità.
Solo gli esseri umani potevano attraversarla, e gli intrusi venivano
abbattuti dalle guardie.
Aveva sentito parlare di entità mistiche chiamate
‘Apostoli di Dio’, che in passato sconfiggevano gli
Akuma e difendevano le persone ma, da quello che aveva letto nei testi
antichi, si erano tutti estinti, o nascosti. Il loro numero si contava
però sulle dita di una mano. Se non erano ancora spariti del
tutto, lo avrebbero fatto presto. Leda li considerava dei vigliacchi.
Avevano abbandonato la loro gente lasciandola morire nel dolore.
Ovunque fossero stati sperava che ci restassero, perché
dall’umanità non avrebbero ricevuto altro che
odio, e un immenso senso di vergogna. Ormai la gente si era arrangiata
a combattere gli Akuma con tutti i mezzi tecnologici in loro possesso,
e ne andava fiera.
Si portò sul lato destro della strada. Subito dopo, un carro
sfrecciò veloce accanto a lei, smuovendole i capelli castani
e vaporosi con una forte ventata che li portò
all’indietro. Leda se li ravviò con un gesto
istintivo della mano. Gettò un’occhiata scocciata
alla vettura e poi tornò a camminare con lo sguardo fisso
davanti a sé. Proprio in quel momento svoltò a
destra, seguendo ancora la strada e passando di fronte alla vetrina di
un negozio di giocattoli, l’unico di tutta la sede.
C’erano molti bambini, soprattutto piccoli, e i peluche e i
trenini di legno andavano a ruba, tra la gente più ricca.
Proprio mentre stava per passare oltre, si fermò. Qualcosa
aveva attirato la sua attenzione in quella vetrina spenta e impolverata.
Si appiattì contro il vetro e puntò i suoi grandi
occhi di liquirizia su una scatoletta piccola e tonda, metallica, con
incisioni e rifiniture scintillanti ed eleganti. Stette per qualche
secondo ad osservarla, poi si staccò ed entrò
timidamente nel negozio facendo suonare un campanello appeso al
soffitto. Si bloccò, aspettando che tornasse il silenzio,
guardando lo strumento quasi con timore. Non aveva mai amato quel suono
tintinnante e fastidioso che si propagava per tutto il locale,
annunciando festoso che qualcuno era entrato per spendere il proprio,
sudato, denaro. Difatti, qualche attimo dopo, comparve un uomo anziano,
che indossava un berretto verde spento e portava sul naso un paio di
occhiali tondi e piccoli. Leda lo osservò avvicinarsi al
bancone con circospezione, per poi fare lo stesso.
L’uomo si chinò lievemente su di lei, poi sorrise.
- Cosa posso fare per te, signorina? – domandò con
una vocetta tremula, sfregandosi le mani.
- Vorrei… fare un acquisto – biascicò
la ragazza voltando la testa verso la vetrina e cercando di fuggire lo
sguardo compiaciuto dell’uomo.
Questo sussultò lievemente, interessandosi di più.
Fece il giro del bancone e le si affiancò, rivolgendole un
falso sorriso.
- Cosa ti piacerebbe acquistare?
Leda alzò il braccio e indicò con decisione la
scatoletta in vetrina.
- Quello – disse, con tono atono.
All’uomo brillarono gli occhiali. Veloce si spostò
nella direzione indicata e prese delicatamente tra le mani ossute il
piccolo oggetto. Tornò indietro e lo mostrò alla
ragazza.
- Questo, signorina? – chiese, aprendo la mano davanti al suo
naso.
- Sì – pronunciò Leda, senza aggiungere
alcun sentimento.
Gli atteggiamenti di quell’uomo la innervosivano. Era una
persona avida di denaro. Un giocattolaio dovrebbe però
essere avido dei sorrisi dei bambini, non del tintinnare delle monete.
A stento trattenne la stizza, mentre gli posava sul bancone i soldi per
pagare. Lo vide afferrarli e stiparli dentro un sacchetto di iuta. A
quel punto s’impadronì della scatoletta, la
infilò nel suo zaino e velocemente si avviò
all’uscita.
- Arrivederci – disse, mentre richiudeva la porta dietro di
lei e usciva in fretta e furia, senza aspettarsi alcuna risposta.
Si ritrovò nuovamente all’esterno, immersa caos
della gente che saettava da una strada all’altra in preda a
una fretta quasi maniacale. Leda non se ne curò, e
cercò di allontanarsi alla svelta dal campo visivo del
vecchio negoziante avido. Continuò a camminare frettolosa
lungo la strada, guardandosi circospetta attorno e squadrando ben bene
i visi delle persone che le sfrecciavano accanto, noncuranti: tutte
persone nuove, mai viste.
Arrivò fino a un incrocio. Attraversò svelta
dalla parte opposta e andò dritta. In fondo alla via
riuscì a scorgere un edificio di mattoni e legno ancora in
buono stato, con un’insegna sbiadita dal tempo sulla grande
porta di legno scuro. Accelerò il passo.
Urtò di striscio un passante che si voltò a
lanciarle un’occhiata fulminante, ma Leda era già
andata avanti e non badava più a nulla. Le sue gambe la
facevano correre a perdifiato lungo la strada, senza che se ne
accorgesse. La gioia di poter finalmente rivedere suo fratello faceva
di lei l’essere più felice della terra.
Si catapultò letteralmente all’interno
dell’edificio, spingendo con forza la pesante porta di legno.
I presenti – un paio di anziani – si voltarono
lentamente verso di lei rivolgendole sguardi confusi. Leda li
guardò scoraggiata, per poi ricomporsi e iniziare a
guardarsi attorno. Theodore non c’era, e nemmeno Alan. Una
cameriera le sfrecciò davanti con due coperte bianche e
pulite tra le mani ma, quando si accorse della sua presenza, si
arrestò immediatamente.
- Oh, Leda cara! – esclamò, mentre un sorriso
pieno di emozione si allargava sul suo volto incorniciato da lunghi
capelli rossi.
- Anais – pronunciò Leda, senza emozione. Non si
aspettava di vedere lei, ma qualcun altro.
- Quando sei tornata? – domandò la cameriera,
avvicinandosi, curiosa. Le mise una manina delicata sulla spalla,
chinandosi appena sul suo viso imbronciato.
Leda la guardò negli occhi: due ametiste brillanti e
misteriose, ma calde e accoglienti al tempo stesso.
- Ora – disse, lasciandosi fare una carezza amorevole sulla
guancia.
- Allora riposati e fa’ con calma – le disse
così la donna, con un sorriso.
Poco prima di sparire nuovamente alzò un braccio e le
indicò un corridoio alla sua sinistra.
- Ted è di là. Forse c’è
anche Alan.
Leda si avviò nella direzione indicatale. Quel passaggio
conduceva alla caffetteria della locanda, dove gli ospiti erano soliti
bere, giocare a carte o consumare qualche pasto veloce prima di
partire. Di solito Theodore non lavorava lì. Quello era
compito suo. Probabilmente era stato costretto a fare qualche mansione
in più, per compensare la sua assenza. Si sentì
dispiaciuta. Le ragioni per le quali era partita, però,
erano assai più forti. L’unica cosa che avrebbe
potuto fare per sdebitarsi, sarebbe stato raccontare a lui e a Alan le
scoperte incontrate durante il suo viaggio, se ne avesse mai trovato il
coraggio…
Si avvicinò al bancone, dove un uomo anziano ed esile,
girato di schiena, stava versando un liquido rossastro in un bicchiere
di vetro. Si mise di fronte a lui e, ingrossando la voce,
esclamò:
- Hey, tu, qui c’è qualcuno senza drink!
L’altro si voltò di scatto, già pronto
a riprendere la maleducata, quando si accorse di chi fosse realmente.
Mancò poco perché il bicchiere gli cadesse di
mano. Lo porse invece al cliente, fece veloce il giro del bancone e
corse letteralmente contro la ragazza. L’abbracciò
con una forza tale da soffocarla, nonostante la sottile corporatura.
Leda diventò rossa in viso, sentendosi stritolare da quelle
vecchie e forti braccia. Fece di tutto per dimenarsi e quando infine
tornò a respirare restituì il gesto
all’uomo con altrettanta forza, mostrandogli a sua volta
quanto fosse felice di vederlo.
- Oh, Leda… - mormorò l’uomo ridendo di
gioia, con le lacrime agli occhi per l’emozione –
Finalmente sei tornata!
Leda sorrise, sentendo persino lei gli occhi pizzicare.
- Ciao Ted – disse, contenendo l’eccitazione e
catalizzandola in uno sguardo gioioso.
Theodore tornò dietro al bancone afferrando un grosso
boccale per pulirlo con un panno candido.
- Com’è andato il tuo viaggio, hai scoperto
qualcosa? – domandò, con cuore che batteva a mille
per la felicità e la curiosità.
La ragazza abbassò lo sguardo, facendosi improvvisamente
seria. Ciò che voleva dire le comportava uno sforzo immane.
Il silenzio l’avvolse, immerso nel caos della numerosa
clientela del locale.
- L’ho trovata – disse infine, tombale.
L’anziano sussultò, perdendo in un colpo
d’occhio tutta la contentezza. Volse i suoi piccoli occhietti
bruni sulla superficie di ciliegio del bancone e tacque.
Non domandò altro.
Leda prese posto su uno sgabello, con aria cupa. Giocherellava
distrattamente con un pezzetto di carta che si era ritrovata tra le
mani senza accorgersene. Era così che reagiva alle
situazioni difficili: mostrava il muso e si chiudeva in un
atteggiamento rude e scontroso, da maschiaccio.
- Dov’è Alan? – domandò.
- L’ho mandato a prendermi un paio di verdure al mercato. Tra
poco tornerà. Posso darti qualcosa, intanto? –
domandò Theodore, chinandosi appena su di lei, affrancato.
- Una birra – rispose, atona. Era sollevata però
che suo fratello stesse bene. Non vedeva l’ora che arrivasse.
L’anziano le diede le spalle per servirle quanto richiesto.
Gli avrebbe raccontato tutto, ma non in quel momento. Non in mezzo a
tutta quella gente. Udì infatti una lieve risatina derisoria
provenire dalla sua sinistra. Voltò lentamente la testa in
quella direzione, con un cipiglio spaventoso.
C’era un uomo accanto a lei, che non aveva mai visto in vita
sua. Aveva il viso costantemente messo in ombra da un lungo e,
all’apparenza pesante, mantello. Le uniche cose che fu in
grado di vedere con chiarezza furono le mani, forti, che stringevano un
boccale simile a quello che aveva ordinato anche lei. Nonostante
l’aspetto per nulla rassicurante, Leda non si fece troppi
problemi. Odiava chi la derideva, e chi si prendeva la sfacciataggine
di origliare le sue conversazioni, e non provava timore alcuno nel
rispondere alle provocazioni.
- Che c’è di così divertente?
– gli ringhiò, bruscamente.
L’uomo mosse piano la testa verso di lei. La ragazza
riuscì a vedere solo delle labbra suadenti, che veloci
risposero:
- Una birra, per una bambina come te… non pensi che sia un
tantino esagerato?
Leda si indispettì parecchio.
Strinse i pugni sul bancone trattenendo la rabbia, e la
volontà di tirargli un sonoro pugno in faccia, rispondendo
per le rime.
- L’età per bere ce l’ho. Si faccia gli
affari suoi.
L’uomo non disse niente. Le sue labbra si incurvarono in un
sorrisetto beffardo, senza più emettere alcun suono.
Allontanò da sé il bicchiere che stringeva in
mano e si alzò, badando a non scoprirsi il volto.
Dopodiché si allontanò, facendo ondeggiare il
lungo mantello ad ogni passo, fino a sparire oltre il corridoio del
locale.
Leda non staccò gli occhi da lui nemmeno un secondo,
finché non sentì il rumore di un oggetto di vetro
alle sue spalle. Si girò di scatto e vide Theodore. Aveva
posato il suo boccale pieno sul bancone e ora la guardava, incuriosito.
- Sai chi era quello? – gli domandò Leda guardando
seriosa verso il corridoio vuoto, come se potesse ancora vedere lo
straniero dal lungo mantello, oltre di esso.
- Non so dirti molto. E’ arrivato qui mezz’ora fa,
ha ordinato una birra ed è stato in silenzio per tutto il
tempo – spiegò l’anziano, grattandosi la
testa, confuso, senza sapere cosa dire esattamente – E mi ha
anche pagato in anticipo.
Chiunque fosse, avrebbe fatto meglio a starle lontano. Apparteneva
sicuramente a quella categoria di persone che non hanno meta, viaggiano
per il mondo e perciò si credono in diritto di beffarsi del
mondo e di chi ne fa parte. E Leda, quelli, non li sopportava proprio.
Afferrò con forza il manico del boccale e
trangugiò stizzita il contenuto. Non si sarebbe lasciata
prendere in giro, lei. Mai.
- Non lasciarti impressionare, Leda – intervenne Theodore,
frenando i suoi pensieri – Tu sai chi sei, e questo
è sufficiente.
Aveva ragione, maledettamente ragione. Lui sì che sapeva
parlarle. Aveva sempre qualcosa da dirle per ogni situazione. Di
qualunque cosa si trattasse, era capace di rintracciare quella piccola
parola nel suo vasto vocabolario e di incastonarla nella frase giusta,
sollevando il suo morale quasi all’istante.
- Lo so – disse così Leda, finendo di bere con un
ultimo sorso ciò che era rimasto del liquido dorato e
spumoso nel boccale. Poi però pensò:
“Ma io non lo so chi sono…”
Tuttavia, tenne quel pensiero per sé, perché non
voleva mancare di rispetto all’anziano. Si alzò
con un po’ di sforzo dallo sgabello, guardandosi attorno
soddisfatta e cercando la prossima cosa da fare. Theodore fu
però più veloce e la anticipò.
- Va’ a disfare i bagagli, tranquilla. Per oggi sei esonerata
dai lavori domestici.
Leda sorrise, grata. Non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza...
Si inoltrò in direzione di una lunga rampa di scale
scricchiolanti. Le salì, ritrovandosi così al
primo piano: un lungo corridoio sul quale si affacciavano una serie di
porte di legno tutte uguali, tranne che per una targa bianca e logora
che riportava inciso un numero diverso per ciascuna. La ragazza
avanzò lungo il corridoio scorrendole tutte. Si
fermò di fronte alla numero centocinque. Afferrò
la maniglia, la fece girare e spinse piano la porta, entrando in quella
che era la loro stanza.
Non era tanto grande: comprendeva due letti singoli ai quali si
alternavano due piccoli comodini e un enorme cassettone dalla parte
opposta. A terra c’era un soffice tappeto peloso dai colori
spenti e smorti. Le lenzuola sui letti erano bianche e profumavano di
pulito. A Leda ricordava casa, accoglienza, amore, famiglia. Tutte cose
che aveva riscoperto grazie a Theodore. L’odore della stanza
era piacevole, sapeva di fresco e sapone.
Era immacolata. Sui mobili non scorreva un solo filo di polvere. Era
stata pulita da poco, e ancora si poteva sentire, flebile, il profumo
alla lavanda di Anais.
Leda la ringraziò per essersi occupata della pulizia della
loro stanza, in silenzio, passando sbalordita un dito sul grande
comò di legno scuro, lucidissimo. Perfettamente pulito.
L’essere tornata finalmente nella propria stanza, aver
sentito i profumi e la nostalgia farsi vivi, tangibili,
l’avevano acquietata. Si era persino dimenticata
dell’impertinenza del viaggiatore sconosciuto.
Si sedette sul letto di destra, quello più vicino alla porta
d’ingresso. Le molle scricchiolarono leggere sotto il suo
peso. Poggiò lo zaino accanto a lei e frugò nella
tasca principale facendo tintinnare gli oggetti al suo interno. Alla
fine, afferrò con delicatezza la piccola scatoletta
elegante, tirandola fuori e posandola sulle proprie gambe. La
studiò con attenzione, senza toccarla, poi la capovolse e
scoprì così una manovella dalle sfumature
brillanti e con una piccolissima incisione floreale sopra. Lentamente,
la girò in senso orario, ripetendo l’operazione un
paio di volte. Poi la lasciò andare. Improvvisamente il
coperchio si schiuse, aprendosi come una bellissima conchiglia.
C’era una ballerina con un delicato tutù rosa
confetto che piroettava sulla punta di un solo piede, dentro. E come
prese a girare su se stessa, si diffuse nell’aria una soave
melodia, la quale rivelò così il vero nome di
quella piccola scatoletta: carillon.
Quello era un carillon. Il leggero tintinnare dei dentini sulla piastra
metallica al suo interno sprigionava nella stanza suoni affettuosi e
dolci, simili a quelli di una ninnananna. Ogni nota si librava in aria
e rimaneva lì, sospesa, evocando i ricordi del passato di
Leda. Felici e tristi, allegri e malinconici. Un turbinio di emozioni
scomposte vorticava nel suo cuore, e le immagini nella sua mente
scorrevano veloci, talmente tanto da non darle abbastanza tempo per
rimembrarle tutte. La melodia aveva un piccolo ritornello molto carino,
che Leda canticchiò a bocca chiusa con molta nostalgia nello
sguardo perso, mentre osservava la leggiadra ballerina piroettare e
piroettare ancora sulle sue note.
Non lo aveva comprato senza motivo, ma perché lo aveva
riconosciuto. L’aveva costruito suo padre.
- Leda! Leda!
Una voce rimbombò nel corridoio della locanda, ansiosa.
Leda chiuse alla svelta il carillon, fermandone all’istante
la melodia con uno scatto pauroso, sussultando per essere stata colta
di sorpresa. Lo stipò in fretta e furia nella borsa e si
precipitò giù per le scale, scendendole con
rapidità.
Aveva riconosciuto quella voce. Un timbro né troppo acuto
né troppo grave, con quella punta di emozione in
più che solo un ragazzo poteva avere: Alan. Suo fratello. La
persona più importante della sua vita.
Si catapultò nell’ingresso, schivando chi si
trovava sul suo cammino. E quando lo vide lì, in piedi
davanti a lei, con un ingombrante sacchetto di iuta in mano contenente
la spesa, non seppe più resistere. Gli saltò al
collo e lo abbracciò con tutta la forza che aveva in corpo.
Alan lasciò cadere il sacchetto e
l’abbracciò a sua volta, ridendo di gioia,
strofinando la propria guancia nell’incavo della sua spalla,
affettuoso.
- Quando sei tornata? – le domandò, mentre si
discostava da lei e recuperava il proprio bagaglio.
Leda lo prese per le spalle e lo guardò negli occhi,
pensando che mai avrebbe visto pietre preziose più brillanti
e lucide. Avevano delle bellissime sfumature violette e blu, ed erano
capaci di comunicare meglio di mille parole. Leda li adorava. Sembrava
potesse persino scorgere la sua anima, nel loro profondo, senza segreti
né bugie che la celassero.
- Sono tornata ora – rispose, scompigliandogli amorevolmente
i capelli castani chiari.
- Quante cose ti devo raccontare! – esordì il
bambino, eccitato – C’è stata la festa
del paese, e Theodore ha lavorato come un matto. Dovevi vederlo, faceva
così ridere!
Leda sorrise.
- Dopo mi dici tutto, ok? – gli chiese, frenando la sua
contentezza.
Alan annuì energicamente, con un largo sorriso stampato in
faccia. Strinse ancora di più il sacchetto di iuta e corse
via, verso la caffetteria.
Leda rimase nuovamente da sola. L’unica differenza stava nel
fatto che un piccolo sorriso felice le era comparso sul bel volto
delicato e pallido. Quel bambino riusciva sempre, qualsiasi cosa
succedesse, a farla sorridere. Era una colonna portante per la sua
vita, l’Atlante che la sorreggeva.
Si allontanò dall’ingresso, dirigendosi verso il
refettorio dove il personale della locanda era solito riunirsi per
mangiare. A quell’ora i lunghi tavoli che percorrevano la
sala erano sgombri, segno che la vecchia signora Richman, una donna dai
crespi capelli argentati e con un’aria arcigna e severa,
stava lavando le stoviglie.
Leda andò dritta verso la porta della cucina, subito accanto
a quella dalla quale era entrata dal corridoio. La spinse ed
entrò. Venne investita da un soffocante odore di vapore,
cibo e una stucchevole fragranza al limone. Avanzò tra i
fornelli e i piani cottura lucidi e puliti, e si fermò di
fronte a un grande acquaio. Emily Richman era lì, vestita
con un ingombrante grembiule bianco e una retina sulla testa. Aveva le
maniche della giacca tirate su fino ai gomiti e le braccia immerse
nell’acqua insaponata, mentre strofinava un piatto con una
pezza.
Non era una persona amichevole. Spesso era dura, insensibile e
sprezzante, specialmente con Leda. Da quando era arrivata non aveva
fatto altro che educarla severamente su come cucinare, occuparsi
dell’igiene del locale e migliorare i suoi atteggiamenti, a
suo dire irrispettosi e per nulla femminili. Sembrava covare un odio
profondo per lei, a causa del tono di voce che spesso usava per
rivolgerglisi.
Leda aveva capito solo un anno dopo dal suo arrivo il motivo di tutto
ciò: in passato Emily aveva avuto una figlia di nome Paula,
che purtroppo era venuta a mancare a soli 6 anni per una malattia. In
seguito era caduta in depressione, smettendo di mangiare e dormire,
rischiando persino di morire a sua volta. Quando poi Theodore
l’aveva assunta, o per meglio dire, accolta nella sua
locanda, offrendole un tetto e una nuova famiglia, si era un
po’ sollevata. E anche se con Leda era sempre stata rude, in
realtà le voleva molto bene, e il motivo per il quale aveva
scelto di fare la parte dell’antipatica nella sua vita era
proprio perché voleva renderla forte, vigorosa, in grado di
difendere Alan e fare in modo che le rimanesse accanto il
più possibile. Leda aveva capito il lato nascosto del suo
carattere, quello dolce e premuroso, e aveva imparato a giocarci,
cercando di metterlo in luce in tutti i modi. Emily rimaneva
però dura come una roccia, e non permetteva a nessuno di
andare oltre quella sua fiera corazza da donna burbera e scontrosa.
Leda le si affiancò, osservando le sue braccia che si
muovevano esperte nell’acqua producendo un gran sciabordio
sui bordi dell’acquaio, contro cui le piccole onde di schiuma
si andavano a schiantare, come una tempesta in miniatura.
- Salve – pronunciò con aria solenne ed educata.
La donna gettò un’occhiata verso di lei,
ritirandola immediatamente.
- Sei tornata, eh? – disse senza alcuna enfasi, come se la
sua presenza fosse seccante, per lei.
Leda si limitò ad annuire, con un sorriso.
- E non hai scoperto nulla? – domandò ancora
Emily, con aria di rimprovero.
Leda annuì ancora.
- Bene – concluse la donna, continuando a strofinare il
piatto – Lasciami finire di lavorare, ragazzina.
Va’ a riposarti.
Non era un invito. Era un ordine.
- Va bene – fece per tutta risposta Leda, con un sorriso
contento.
E fu tutto.
Si girò e tornò indietro, senza aggiungere
nient’altro.
Richiuse la porta della cucina alle sue spalle, poggiandovisi contro
con la schiena.
“Che ambiente
opprimente…”pensò, mentre afferrava la
maniglia del refettorio per tornare in corridoio e raggiungere Alan.
Proprio in quel momento però, comparve.
Un suono altisonante, fastidioso, ripetitivo, che si spanse per tutta
la stanza e per tutta la sede.
Leda si bloccò, le mani tremolanti sulla maniglia, mentre
ancora la sua mente stava realizzando l’entità di
quel baccano. E quando finalmente capì, si
precipitò fuori dalla porta, terrorizzata, accompagnata dal
suono assordante e rimbombante dell’allarme
d’emergenza.
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