La
scheggia
Ikol.
L’anagramma di Loki, il riflesso di ciò che gli
spettava di
essere di diritto. Uno scherzo, una burla, messa in atto da Loki ai
danni di Loki. L’Ingannatore contro l’Ingannatore,
una beffa più
grande di quanto immaginasse, un gioco con il Destino, gioco di cui
il Fato aveva vinto il primo tempo, relegandolo nell’umile
corpicino di una gazza mentre uno sciocco ragazzino infangava il suo
nome e lo scherniva con arroganza, forte della propria
superiorità
rispetto a un misero animale.
Malvagio me, l’ennesimo oltraggio: non
Loki, non Ikol, ma
il lato di qualcun altro, il lato scomodo, quello che doveva esistere
ma non era davvero desiderato.
Proteggeva quel bambino con la propria saggezza perché, se
lui
fosse morto, ogni sua speranza si sarebbe infranta, la fatica fatta
non avrebbe più avuto alcun significato, avrebbe perso
quell’ultima
scommessa.
E quel ragazzino, quello sciocco infante, era convinto che lo
facesse perché gli doveva rispetto, perché ora
era una scheggia di
lui e non un’entità a sé stante,
perché aveva bisogno di
lui.
Stupido, stupido bambino.
Non riusciva a immaginare ciò di cui lui era davvero capace,
non
avrebbe realizzato l’errore commesso se non quando sarebbe
stato
troppo tardi. Fino ad allora, lui avrebbe atteso, accontentandosi di
becchettare le briciole di grandezza che il ragazzino gli lasciava,
munifico, finché non fosse giunto il momento di riprendersi
il
proprio ruolo di Ingannatore.
Come Penelope tesseva con pazienza l’arazzo, in attesa del
ritorno dell’amato Odisseo, così lui avrebbe
tessuto la propria
tela di macchinazioni, in attesa che le Norne benedicessero di nuovo
il suo futuro.
***
Hela sedeva sola nella sala del trono e contemplava la propria
mano, finalmente al posto che le spettava e non più
vagabonda su
Midgard insieme a quel ragazzino. In realtà lo riteneva
innocuo,
anche se capace di pianificazioni di notevole astuzia, senza dubbio
ereditata dalla sua reincarnazione precedente, tuttavia sarebbe stato
più prudente, anche per il bene del suo reame, non finire
coinvolta
con Loki Laufeyson.
Leah era stata compromessa, così avrebbero affermato gli
esseri
umani, aveva iniziato a tenere troppo a quel bambino, al punto da
acconsentire a vivere in una caverna anziché farne parola
con la sua
signora, che avrebbe potuto indurre Loki a offrirle una dimora ben
più consona al suo rango.
Leah non si era mai lamentata, non una sola volta, della compagnia
del ragazzino, non con serietà. Dal modo in cui
l’aveva guardata
prima di scomparire, Hela aveva capito che la ragazza era
perfettamente consapevole del proprio sbaglio e che prima o dopo la
regina di Hel avrebbe dovuto ricordarle quale fosse il suo ruolo.
Loki tuttavia non lo sapeva – o forse non voleva saperlo
– e
per la prima volta era stato il Fabbricante di Bugie a essere
ingannato – forse da Hela, forse dal suo stesso cuore, un
cuore che
Loki non aveva mai avuto e che nondimeno aveva battuto per Leah, Hela
l’aveva avvertito come un rumore assordante, ben diverso dal
silenzio che albergava il petto dei suoi sudditi. Il bambino
l’aveva
fissata con le lacrime agli occhi e, quando le aveva ringhiato di
lasciarlo in pace, Hela aveva riconosciuto in lui un’eco del
vecchio Loki, un’eco terribile che aveva rafforzato la sua
convinzione di aver compiuto la scelta giusta.
Loki non sarebbe mai cambiato: per quante vite avesse potuto
vivere, un frammento di lui sarebbe rimasto sempre lo stesso e a poco
a poco quel frammento avrebbe divorato il buono che c’era nel
suo
animo fino a lasciare solo terra bruciata.
Forse, strappandogli Leah, Hela aveva dato sprone a quel
frammento, forse aveva spinto il ragazzino a riflettere, a fuggire da
esso. Non poteva saperlo, ma si augurava di aver preso una decisione
che avrebbe protetto il suo popolo dalla distruzione che Loki portava
con sé come lo strascico di una sposa e che finiva con il
travolgere
tutti coloro con cui aveva a che fare.
D’improvviso Hela fu distratta dalle proprie riflessioni da
una
voce e dal frullare di un cuore ancora vivo. «Hela, mia cara,
forse
ti arreco disturbo?»
V’era qualcosa di familiare e sconosciuto al tempo stesso, in
quelle parole – un significato familiare,
un’intonazione troppo
acuta, sconosciuta – così come nella gazza che si
appollaiò sul
bracciolo del suo scranno e le puntò addosso i suoi intensi
occhi
verdi. Impiegò qualche secondo a riconoscerlo come
l’animale da
compagnia di Loki e allora inclinò la testa da un lato,
perplessa.
«Vieni da parte del tuo padrone, gazza?»
L’uccello parve irrigidirsi, ma nel rispondere il suo tono
era
vellutato, carezzevole. «Non proprio. Il mio nome
è Ikol ora e
forse il mio aspetto ti confonde, ma sono fiducioso che tu serbi
ancora qualche ricordo di me». Le concesse una breve pausa
per
riflettere e capire. «Sono venuto per la seconda parte
dell’accordo
che ci lega, Hela. Ammetto che il futuro non è stato
benevolo con
me, ma sono disposto a scommettere di nuovo. Voglio tornare».
La sovrana di Hel spalancò gli occhi vuoti, un nome
risalì la
gola fino alle labbra: «Loki?»
Non aveva bisogno di alcuna conferma: di colpo realizzò ogni
cosa, rivide con precisione ogni suo precedente incontro con il
ragazzino, come quella gazza fosse stata onnipresente, e comprese che
la scheggia di Loki che non sarebbe morta mai era proprio
lì,
dinanzi a lei, all’apparenza piccola e innocua.
Un altro scherzo, un’altra beffa del Mercante di Menzogne,
che
per una volta, però, si ritorceva anche contro di lui,
l’aveva
costretto nelle spoglie di un semplice uccello, ma, dopotutto, Loki
Laufeyson aveva sempre un secondo progetto, una via di fuga.
«Perché proprio adesso?» volle sapere.
La gazza rispose con cordialità, perché entrambi
erano ben
consapevoli che stavano solo ritardando l’inevitabile. Hela
non
poteva venire meno al patto. «Perché il ragazzino
è solo e
impotente, e nulla può intralciare il mio cammino. Mi
piacerebbe
trattenermi a conversare con te, cara, tuttavia non posso rimanere a
lungo lontano dal bambino. Se tu potessi essere così
cortese…»
Solo e impotente, perché ora Leah non era più con
lui; solo e
impotente, ormai non serviva più a nulla; solo e impotente,
aveva
vestito quegli abiti per troppo tempo.
Se non fosse stata la regina degli Inferi, Hela avrebbe potuto
permettersi di dispiacersi per il ragazzino, ma aveva dei doveri nei
confronti dei propri sudditi e mantenere buoni rapporti sia con
Asgardia che con i suoi nemici avrebbe garantito la pace al neonato
Hel, pace di cui necessitava per poter prosperare di nuovo come un
tempo.
«Come vuoi» acconsentì con un cenno.
«A patto che tu rispetti
le condizioni che ti riguardano, s’intende. Voglio
un’intesa con
te, non una guerra».
Gli occhi della gazza rifulgevano di un lucore mostruoso.
La mano destra di Hela fu percorsa da un tremito.
«Ma certo, mia cara, cara Hela. Sei sempre stata una buona
amica
per me, dopotutto».
***
Loki non riuscì a nascondere il proprio stupore quando, per
la
prima volta, fu Ikol a proporgli di giocare insieme. Di solito era
sempre lui a farlo e, se accettava, la gazza sembrava fargli una
concessione piuttosto che essere davvero entusiasta di giocare con
lui. Forse però persino Ikol nutriva dei sentimenti e,
poiché Leah
ormai non poteva più giocare con lui, aveva deciso di
prendere il
suo posto e sforzarsi di tirarlo su di morale.
Quel pensiero gli riscaldò il cuore al punto che, sebbene
non
fosse dell’umore adatto, decise di accettare
l’invito
dell’uccello e tentare di svagarsi un poco.
Dopo la partenza di Leah – perché non voleva
pensare alla sua
scomparsa come a una morte, non era morta, era viva e sarebbe stata
bene fin quando Hela fosse stata in buona salute, ne era certo, lo
sapeva e andava bene così – non
aveva più giocato a nulla,
né a scacchi né con lo StarkPad, nemmeno se era
Thor a
suggerirglielo.
Era scivolato in un’apatia da cui solo Thori e
all’occasione
Ikol erano capaci di tirarlo fuori. Thor provava, non si arrendeva
mai, ma gli mancavano le informazioni necessarie per comprendere la
ragione dell’inaspettata tristezza del fratello minore.
Persino
Freiya, Gaea e Idunn erano preoccupate per lui, ma erano troppo
impegnate a governare Asgardia per potersi impegnare attivamente
nello sforzo di tirarlo su di morale come faceva Thor.
All’improvviso, però, Loki si sentiva lontano
mille miglia sia
dal Dio del Tuono che dagli altri asgardiani, sebbene finalmente
persino loro avessero cominciato ad accordargli fiducia.
Di colpo era lui a non desiderare la compagnia per cui prima
avrebbe dato qualsiasi cosa e spesso preferiva trascorrere le
giornate da solo nella spelonca, a giocare con Thori oppure a fissare
con aria assente la roccia dove Leah preferiva sedersi, un masso
levigato la cui seduta era più confortevole degli altri
macigni
acuminati. A volte si sorprendeva con gli occhi lucidi, come quel
giorno in cui Thori aveva annusato l’aria con attenzione e,
dopo
aver girovagato senza meta per la caverna, gli aveva ringhiato
contro, irritabile e impaziente: «Dov’è
quella strega? Voglio
ammazzarla!»
Loki non aveva avuto cuore di deludere le sue aspettative,
così
come di mostrargli la propria debolezza, e aveva nascosto il volto
nel cappuccio.
«Vieni a giocare con me» propose Ikol una mattina
che prometteva
pioggia, mentre Loki contemplava le nuvole addensarsi in cielo dalla
bocca della spelonca. Quando il ragazzino gli lanciò
un’occhiata
incredula, la gazza fece schioccare il becco in un gesto seccato.
«Ti
consiglio di chiudere la bocca prima che un insetto vi si
annidi».
Loki si riscosse e si strinse nelle spalle, ferito. «Scusa,
Ikol,
ma non è mai capitato, prima, che mi invitassi a giocare.
Sono
stupito». Un istante di silenzio, e la curiosità
infantile ebbe la
meglio. «A cosa vuoi giocare?»
«È una sorpresa» lo stuzzicò
l’uccello, librandosi in volo.
«Seguimi».
Il ragazzino aggrottò la fronte e per un istante
titubò, rapito
dalla grazia con cui Ikol sfrecciava attraverso l’etere, poi
si
alzò dalla roccia su cui sedeva e si affrettò ad
addentrarsi nel
cuore della caverna al seguito del suo protettore.
Era buio, l’interno della spelonca: non una luce lo
rischiarava,
neppure quella che proveniva da fuori, poiché
l’entrata era troppo
distante dalle viscere verso cui la gazza lo stava guidando. La sua
figura si confondeva con l’oscurità sempre
più densa e volava
così veloce che presto Loki si ritrovò a correre
per tenere il
passo.
Ciononostante, dopo qualche tempo si rese conto di non riuscire
più a distinguere le fattezze dell’uccello, tanto
le tenebre erano
fitte e si avviluppavano attorno a lui come tentacoli vischiosi.
Si fermò e si guardò intorno, ma non riusciva a
vedere nulla.
Non potevano essere trascorsi che pochi minuti dacché aveva
dato
inizio all’inseguimento, ma erano già troppi per
compiere il giro
completo della caverna. Quello in cui si trovava adesso dava
l’impressione di essere il ventre senza uscita di un mostro
enorme.
«Ikol!» chiamò ad alta voce, inquieto,
conscio che c’era
qualcosa di sbagliato, tuttavia non riusciva ad afferrare cosa fosse.
«Ikol, dove sei?»
Ammutolendolo per lo stupore, al posto di Ikol gli si
avvicinò
Leah, che illuminava la spelonca grazie alle fiamme verdi danzanti
sulle punte delle sue dita. «Ti ho trovato,
finalmente» commentò
in tono brusco, la fronte corrugata e gli occhi ridotti a due
fessure. «Sai da quanto tempo ti sto cercando,
stupido?»
Accanto a lei, come materializzatisi
dall’oscurità, Thor e
Daimon lo scrutavano con fare di rimprovero. Dietro di loro, altri
–
Idunn, Freiya, Gaea, Laufey, Volstagg, Fandral, Hogun, Sif,
così
tanti altri che Loki non riusciva nemmeno a posare lo sguardo su
ognuno di loro.
«Sei uno stupido» ribadì Leah nel
rendersi conto che il
ragazzino era troppo sgomento per parlare. «Non dovresti
andartene
in giro da solo se non conosci la strada».
Gli occhi di Loki scivolarono sulle loro ombre, più grandi
di
quanto avrebbero dovuto essere, che disegnavano strane figure arcane
sulle pareti della caverna. Figure terribili che lo spaventarono, ma
poi riportò l’attenzione su Leah e lei era reale,
era rabbuiata,
lo stava insultando, era Leah. E allora la
chiamò.
«Leah…?»
Lei taceva, alle sue spalle gli altri scuotevano il capo. Poi,
all’improvviso, la ragazza si aprì in un sogghigno
feroce,
orribile, e i suoi occhi sfolgorarono di verde.
«No».
La magia tra le sue mani si spense e Loki fu di nuovo solo in una
tenebra che ora minacciava di divorarlo. Si sentiva congelato fin
nelle ossa da un freddo senza principio e senza fine e, al contempo,
un fuoco indomabile gli consumava la carne dall’interno.
Stava
accadendo qualcosa di terribile.
Tutto bruciava, tutto congelava. Solo gli incubi regnavano su quel
luogo.
«Ikol!» Dopo che Leah gli aveva detto di non essere
lei e gli
altri erano spariti insieme a lei, la gazza era rimasta
l’unica cui
potesse aggrapparsi. Indietreggiò, avrebbe voluto voltarsi e
fuggire
ma un lato di lui era terribilmente convinto che, qualora avesse
tentato, non avrebbe mai guadagnato l’uscita.
Trovò un sasso sul
suo cammino, cadde all’indietro e si fece sfuggire un
grugnito di
dolore. «Ikol!»
Né il fuoco né il ghiaccio accennavano a
retrocedere; nessuno
rispondeva ai suoi richiami.
Nella mente del ragazzino, il caos.
Che Mephisto si stesse prendendo la propria vendetta? Ma sarebbe
davvero arrivato a tanto solo per aver perso le Dísir? O
forse si
trattava dei maghi di Camelot, che volevano castigarlo per aver
voltato loro le spalle? Oppure era opera di Nightmare, determinato a
prendersi la propria rivincita dopo che lui l’aveva preso in
giro?
Aveva così tanti nemici che avrebbero potuto essere dietro
quella
tortura che non aveva alcuna possibilità di indovinare
l’autentico
colpevole.
In qualche modo, però, doveva fuggire. Sospettava che il suo
aguzzino non si sarebbe fermato alla semplice paura. Sul campo di
battaglia dei cavalieri di Camelot e degli dei di Manchester, Loki
aveva visto abbastanza morte per essere in grado di riconoscere la
propria, incombente sulla sua testa.
Nonostante la saggezza che aveva maturato, era solo un bambino.
Doveva fare affidamento su Ikol, se desiderava sopravvivere.
Ormai era pressoché sicuro che la sua proposta di giocare
fosse
stata un’illusione creata dal suo nemico, ma ciò
significava anche
che forse la gazza era troppo lontana per venirgli in soccorso, che
forse era solo contro il suo sconosciuto avversario.
Il sospetto della totale solitudine germogliò in lui come
una
rosa nera e Loki spalancò gli occhi e si prese la testa tra
le mani.
Solo, forse era solo. Solo nella terra degli incubi.
«Ikol!»
Quest’ultimo fu quasi un gemito, quasi una preghiera, ti
prego, Ikol, rispondimi, non lasciarmi solo. Tu no, non lasciarmi
solo.
Fu una reazione dettata più dalla disperazione che dalla
speranza
di ricevere una replica, al punto che sobbalzò quando una
voce
conosciuta echeggiò da qualche parte dinanzi a lui. La voce
di Ikol
nelle sue sembianze di Dio dell’Inganno, corso in suo aiuto,
perché
Loki era l’altra faccia della medaglia, quella senza la quale
neppure Ikol avrebbe potuto esistere.
«Ragazzo».
Una parola e nient’altro; il ragazzino strabuzzò
gli occhi nel
tentativo d’intravvederlo, di penetrare il fitto velo del
buio,
l’animo placato da quel suono così pacato,
così soffice, ma anche
impaziente di potersi rassicurare non solo grazie all’udito,
bensì
alla vista.
«Ikol?» Esitò, colto
dall’orribile timore che potesse essere
un’altra illusione. «Dove sei?»
«Ikol?» gli fece eco l’altro se stesso,
molto più vicino di
un istante prima, così tanto che, se avesse allungato un
braccio,
Loki pensò che avrebbe potuto sfiorarlo. «Temo che
non vi sia alcun
“Ikol” in questo luogo. C’è
solo Loki».
La carezza falsamente gentile dell’oscurità
intorno al suo
collo divenne la presa salda di una mano; gelo e fuoco cessarono
d’improvviso di tormentarlo per lasciare spazio a una paura
così
viva, a una consapevolezza così dolorosa che distruggeva
tutto,
tutto; e il ragazzino soffocava.
«C’è solo Loki»
ripeté la voce ai margini della sua
coscienza. Dolce, morbida. «E Loki sono io».
Mentre la sua mente e il suo corpo si piegavano alla volontà
di
quella mano che stringeva troppo, di quella voce che sussurrava
suadente, Loki – no, non più Loki: non
era più nulla –
chiuse gli occhi.
Il suo viaggio nel mistero si concluse nell’istante in cui
l’ultima lacrima gli solcò la guancia e si
schiantò contro il
terreno arido.
***
Loki.
Quattro lettere, come caos, come mors,
come slut.
Una vita drappeggiata sulle sue spalle come un manto, un premio, la
vita che bramava e che meritava di vivere per aver vinto la
scommessa, per aver posto fine allo scherzo. Per aver sconfitto
l’Ingannatore.
Si guardò allo specchio, ammirò il corpo maturo,
muscoloso, nudo
fino alla vita, i capelli lunghi, fili d’inchiostro nero,
sciolti
sulle spalle ampie, l’elmo che rimandava riflessi
d’oro, colpito
dalla luce delle candele.
Il suo piano di riserva, la sua botola, il suo personale deus
ex machina, come lo chiamavano i midgardiani: una clausola
del
suo contratto con Hela, scritta con una grafia sottile,
insignificante, eppure fondamentale, una clausola che prevedeva che,
qualora la sua reincarnazione non fosse stata di suo gradimento,
avrebbe potuto modificarla come gli aggradasse, purché prima
avesse
fatto due favori a Hela.
Il primo, restituirle Hel.
Il secondo, un sorso del Sacro Graal.
La sovrana di Hel aveva creduto che quella parte dell’accordo
fosse stata dimenticata dal nuovo Loki e aveva avuto ragione, ma la
scheggia non aveva affatto perduto quel ricordo. Oh, no.
Prese la cotta di maglia in filigrana verde e dorata, la
indossò,
calcò il cappuccio sulla testa, l’elmo.
Per un fugace istante, il suo sguardo corse alla tunica
abbandonata in un angolo, troppo stretta per lui, più adatta
a un
bambino, poi, nell’affiggersi di nuovo sullo specchio, vide
un
ragazzino raggomitolato su se stesso al di là della
superficie
riflettente, nudo, gli occhi vitrei, il corpo sudicio di sangue.
Loki increspò le labbra in un sorriso compiaciuto.
Stupido, stupido bambino.
*slut: "fine" in norvegese
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