Nota legale:
Kingdom Hearts
© Square Enix & Disney. Questa Fan Fiction è stata scritta per puro diletto,
senza alcuno scopo di lucro. Nessuna violazione di © è dunque intesa.
Collocazione temporale:
Dopo la fine di Kingdom Hearts II.
:: ANOTHER NIGHT ::
Remember me? Before the war.
I'm the man who lived next door.
Long ago…
As you can see, when you look at
me,
I'm pieces of what I used to be.
Il tempo si trascinava tanto lentamente che sembrava essersi fermato.
Aveva passato due anni della sua vita a correre avanti così velocemente, così
freneticamente, che ora si sentiva come inchiodato a terra. Il mondo aveva
smesso di girare, l’aria era diventata immobile, e lui si trovava rinchiuso in
una prigione al di fuori dello spazio. Al di fuori del tempo. Eterna.
Aveva smesso di guardare gli orologi dopo neppure tre giorni. Gli toglievano il
fiato, come se l’inesistente movimento delle lancette potesse comprimergli il
torace come una Magnetega.
Il tempo aveva smesso di scorrere.
Oppure, come gli sussurrava incessante una parte della sua mente, quella piena
di rabbia, di necessità insopprimibile, di desiderio irrefrenabile, era già
passato.
Aveva visto tutto quello che c’era da vedere.
Aveva vissuto tutto quello che c’era da vivere.
Il suo tempo era finito.
Il resto, quell’infinita sequenza d’istanti che si allungava a dismisura in un
futuro sfocato, era soltanto un’attesa eterna. Avrebbe aspettato che un giorno
finisse, e poi un altro, e poi un altro ancora. Non avrebbe pensato a nulla,
perché pensare era doloroso. Ricordare era doloroso. Il rimorso era
doloroso. Ed il rimpianto era spaventoso.
Erano tornati da tre settimane, ormai, e per Sora e Kairi tutto era scivolato di
nuovo nella normalità come se niente fosse successo. Anzi, sembravano ancora
più felici, di quella felicità assurda da pericolo scampato per un pelo. Aver
combattuto sino a sentire la pelle delle mani spaccarsi e sanguinare, sino ad
essere così esausti e disperati da inginocchiarsi di fronte al nemico, sino a
morire un’interminabile eternità di volte di paura e di rabbia e di esaltazione,
sembrava solo un motivo in più per ringraziare con gioia che fosse finita.
Lui invece faceva comparire il Keyblade in piena notte solo per ricordarsi
com’era.
Com’era uccidere.
Com’era sopravvivere.
Com’era stata quella vita che iniziava ad affievolirsi come un’ombra.
Rabbia, paura, invidia, gelosia, ossessione, e rimorso, colpa, disperazione,
devozione, espiazione.
Stava scomparendo tutto. Come la porta del luogo segreto, che diventava ogni
giorno più trasparente. Ormai riusciva a vedere la roccia che stava dietro, e
sapeva che quella porta non si sarebbe aperta mai più.
Era imprigionato.
Era finito, era tutto finito.
Lui poteva soltanto trascinarsi avanti, passando la vita a dormire ed a guardare
il mare, vivendo come il ragazzino traumatizzato che tutti gli adulti erano
convinti che fosse, rimpiangendo ogni giorno di quella folle crociata ed
espiando ogni giorno questo rimpianto lasciando che Sora diventasse di Kairi.
Sapeva di avere potere su di lui. Sapeva che avrebbe potuto avere ciò che
desiderava quando voleva, come voleva, ma non avrebbe mai fatto questo a lei,
così come due anni prima non avrebbe mai toccato Kairi perché sapeva benissimo
cosa Sora provasse nei suoi confronti. Quello che aveva imparato, in tutto quel
tempo, era che avere il potere di fare qualcosa non esentava dal
chiedersi se lo si doveva fare, e l’aveva imparato così bene che non
impiegava la sua influenza neppure per ottenere qualcosa di vitale quanto
l’aria.
Sora.
Riku restava fuori. Il mostro che rimpiangeva la sua mostruosa guerra. Era
quello il suo posto.
Sora si era preoccupato, ovviamente. I suoi occhi blu gli stavano incollati
addosso ogni momento che passava in loro compagnia, quando non si chiudeva in
camera per dormire e quando non stava in piedi da solo sulla spiaggia per tutta
la notte ad aspettare l’alba. Un paio di volte si era anche azzardato a
domandargli cosa non andasse, ma Riku era sempre rimasto sul vago, ed era
riuscito a zittirlo, almeno per un po’. Sospettava comunque che di lì a poco
Sora avrebbe organizzato un assalto in grande stile e l’avrebbe costretto per
puro logoramento psicologico a sputare il rospo.
Kairi invece non aveva chiesto nulla. L’aveva guardato per un po’, di soppiatto,
ed un giorno gli aveva detto soltanto:
«Dove andrà uno, andranno tutti gli altri. Ricordi?»
Lui aveva sorriso. Che altro poteva fare? Aveva sorriso ed aveva fatto finta che
andasse tutto bene. Kairi aveva sorriso di rimando, fingendo di credergli, e non
aveva più detto niente.
Va tutto bene.
E lui cercava la sua strada per l’alba, rendendosi conto che non l’aveva ancora
trovata, e non l’avrebbe trovata mai.
Poteva soltanto aspettare che un’altra notte finisse.
L’aveva vista seduta sulla spiaggia, da lontano, mentre il cielo nero come
inchiostro schiariva lentamente e rendeva distinti i contorni. Lui era appena
uscito dal luogo segreto, dopo aver passato ore a fissare il riflesso tremante
della porta alla luce di una torcia, il profilo che diventava sempre più
confuso, sempre meno nitido. Era uscito e l’aveva vista là, seduta in una
maniera stranamente composta, con le gambe piegate da un lato, il vestito rosa
che sembrava viola scuro nella luce incerta. I capelli lisci parevano neri.
Stava guardando il mare, o così gli sembrava. Forse stava aspettando l’alba come
lui.
Si era avvicinato, più per un movimento istintivo che per altro, ma appena prima
di chiamarla per nome aveva percepito il suo odore.
Kairi. Sora. Oscurità.
Nobody.
Naminé.
Si stava avvicinando alla ragazza con cautela, quando lei parlò all’improvviso.
«Non l’ho posseduta o altro, non preoccuparti. È sempre Kairi. Solo, ora sta
dormendo.»
La voce era di Kairi, ma quel tono piatto, dolce in una maniera un po’ triste,
non le apparteneva affatto. Se non fosse stato così rassegnato, sarebbe sembrato
amaro.
«E quindi tu controlli il suo corpo?»
Lei annuì, e cercò di tirarsi i capelli su una spalla sola, come se averli sulla
schiena le desse fastidio. I capelli liscissimi e troppo corti di Kairi
scivolarono subito giù, tornando ad accarezzarle le scapole nude, e Naminé
sospirò.
Era stranissimo sentirla parlare, percepirla, mentre i suoi occhi
vedevano il corpo di Kairi.
«A volte succede. Lei si addormenta ed io mi sveglio di colpo. Non è che quando
Kairi è sveglia io scompaia, solo che… sono lei. A volte ho persino pensieri
miei, ma sono racchiusa dentro Kairi.» Un sorriso lievissimo. Infelice. «Come il
cuore di Kairi era custodito in quello di Sora. Ma io non ho un cuore, ho solo i
miei pensieri.»
Riku annuì, ed all’improvviso si sentì sciocco a stare in piedi vicino a lei,
teso come se quella creatura così piccola e triste potesse attaccarlo da un
momento all’altro. Non aveva niente da temere da Naminé, e tanto meno da Kairi.
Visto la freddezza con cui l’aveva trattata quando si faceva chiamare Ansem,
avrebbe dovuto essere lei a temere lui, ma Naminé sembrava tranquilla, come se
stesse parlando con un amico che non vedeva da tanto tempo.
Si sedette al suo fianco, allungando le gambe fino a toccare con la punta dei
piedi nudi l’acqua fredda. Le scarpe e le calze le aveva lasciate nella barca.
«Perché sei qui?» le chiese, guardando l’orizzonte che si schiariva
impercettibilmente, scivolando piano da una gradazione di azzurro all’altra.
«Potrei farti la stessa domanda.»
«…non costringermi a risponderti che te l’ho chiesto prima io.»
Naminé rise piano, con quella sua voce soffocata che sembrava penetrare nel
mormorio della risacca e disperdersi come la nebbia mattutina che saliva dal
mare.
«Non c’era nessun altro posto in cui volessi andare. Mi piace qui. Sora ha
sempre avuto dei bellissimi ricordi di questa piccola isola, ed ora so che ne ha
anche Kairi.»
«…ora…?»
«Quando mi sono riunita a lei, ho potuto finalmente leggere nel suo cuore, come
Kairi ha potuto vedere i miei pensieri.»
Era un’immagine stranamente orribile, come d’intimità violata con la forza.
Tecnicamente Kairi e Naminé erano la stessa persona, ma lui si sarebbe sentito
come… stuprato.
I suoi pensieri erano solo suoi.
Il suo cuore era solo suo.
La sua vergogna doveva restare nascosta.
Forse anche per Sora era la stessa cosa. Chissà se sentiva Roxas.
«E tu…» iniziò, dopo un attimo di pausa, ma Naminé lo interruppe all’improvviso.
«Se stai pensando che è terribile, hai ragione. È come essere scarnificata, come
se Kairi mi avesse strappato via la pelle. Ma al tempo stesso, condividere ciò
che più odi di te stesso è confortante, in qualche modo. Ti toglie di dosso la
responsabilità di custodire il segreto.»
Riku non disse nulla, e Naminé si voltò finalmente verso di lui, guardandolo per
la prima volta con le labbra tirate in un sorriso sottile. Era strano vedere
quel sorriso sul viso di Kairi. Riku sperò di non doverlo rivedere mai più.
«Ti ho interrotto, scusami. Cosa stavi dicendo?»
«…stavo per chiederti come fai a sapere che il cuore di Kairi è stato racchiuso
per un po’ in quello di Sora. Mi sembrava che non ricordassi niente di lei.»
Naminé tornò a guardare il mare.
«Ma DiZ lo sapeva. L’ha scritto nei suoi diari, e Sora li ha letti. Io ho ancora
potere sui suoi ricordi, almeno per ciò che riguarda la loro percezione. Riesco
a sentirli, specie quando lui e Kairi sono vicini, oppure quando lei si
addormenta ed io posso prendere il controllo.»
Logico.
Alla fine, tutto tornava sempre a Sora.
Il centro del mondo.
Aveva passato più di quindici anni a dimostrare di essere migliore di chiunque,
migliore di lui, e l’ultimo a convincersi di non essere degno neppure di
essere guardato da quegli occhi incredibilmente blu. Sora era sempre
stato l’inconsapevole perno della sua esistenza. E c’era una certa, amara ironia
nel fatto che persino quando l’aveva tradito era stato spinto dalla sua
ossessione per lui.
Sora era la misura di tutte le cose. Lo era sempre stato.
«…io li invidio moltissimo.»
La voce di Naminé si era alzata all’improvviso, sottile come uno spillo. Riku si
girò a guardarla, e vide che stava fissando il cielo azzurro cupo, con le mani
raccolte in grembo e gli occhi blu di Kairi grandi ed umidi.
«Non ti sei mai sentito come… defraudato, durante questa guerra? Come se
ti avessero tolto qualcosa che ti apparteneva di diritto? Anzi, che avrebbe
dovuto appartenerti? Qualcosa che doveva essere tuo, che in qualche modo ti
era stato promesso? Che ti eri illuso di poter possedere?»
Sora.
«No.»
Naminé si girò a guardarlo, con quei suoi grandi occhi lucidi e consapevoli, e
Riku si rese conto che aveva intuito, che conosceva il suo piccolo, sporco
segreto.
Quello sguardo era umiliante, era intollerabile.
E lo rendeva più leggero, come se dividerlo con lei, con Naminé, che era così
fragile e così sola e così incapace di compatirlo gli togliesse un peso dalle
spalle.
Ma se Naminé sapeva, allora l’avrebbe saputo anche Kairi…
…ed all’improvviso, si rese conto che Kairi lo sapeva già da tantissimo tempo.
Naminé tornò a guardare il mare, come se si fosse ritratta emotivamente e
fisicamente da lui, togliendogli di dosso la pressione insostenibile dei suoi
occhi. Degli occhi di Kairi. Degli occhi di Sora.
Sentiva il loro odore su di lei, mescolato in un amalgama indissolubile. Uniti,
come se la distanza fisica che separava i loro corpi, l’insieme di particelle
della loro carne e delle loro ossa e della loro pelle, fosse scomparsa.
Una cosa sola.
E se Naminé sentiva di essere stata derubata della persona che avrebbe dovuto
appartenerle, allora doveva riferirsi a…
«Tutte le principesse hanno il loro principe. Kairi ha Sora. Io non sono una
principessa, ma lo sono stata, quando ero parte di lei. Eppure, l’unico principe
che potevo avere, quello che mi era stato predestinato, non è mai stato
mio. È ingiusto, non credi?» Lo guardò, supplichevole, come a chiedergli di
giustificare la sua invidia, la sua amarezza. La sua rabbia. «Non credi anche
tu?»
Riku sostenne quello sguardo per qualche istante, poi tornò a guardare il mare.
Piegò di più una gamba e ci appoggiò sopra un braccio.
«Axel.»
Naminé sussultò leggermente.
«Roxas.» Lo disse come se fosse stato un sospiro.
La brezza che giunse all’improvviso dal mare scompigliò i capelli di entrambi, e
quelli di Riku, più lunghi, mulinarono attorno al suo viso come fruste argento.
Sentì l’odore dell’oceano, il sapore del sale sulle labbra, la carezza del vento
sulla pelle, e da qualche parte si chiese se quel corpo piccolo e caldo vicino
al suo non sentisse freddo. Se fosse stata Kairi, le avrebbe passato un braccio
attorno alle spalle per proteggerla. Ma stringere quella ragazza così fragile,
che lo guardava come un doppione inconsistente attraverso gli occhi di Kairi,
gli sarebbe sembrato un gesto inopportuno, indelicato. Invadente.
«Forse è una punizione per quello che ho fatto» bisbigliò Naminé. Le piccole
mani, posate sulle cosce lisce, si strinsero a pugno. «Per aver cercato di
intrufolarmi nel cuore di Sora, a Castle Oblivion. Per quello che ho fatto a te…
- una minuscola esitazione - all’altro te.»
Riku ci pensò sopra un lungo istante, prima di rispondere.
«Avresti pur sempre potuto concludere il lavoro. Se ti fossi sostituita a Kairi,
nel cuore di Sora, ora avresti quello che vuoi.»
Quello che voglio anch’io.
Che creature patetiche che erano, tutti e due.
Naminé sospirò, abbassando lo sguardo, come se persino quel gesto fosse troppo
doloroso per essere sopportato.
«Non sarei dovuta esistere. Nessuno di noi dovrebbe esistere.»
Stava piangendo, ora. Kairi stava piangendo. Naminé stava piangendo. Nella luce
incerta dell’alba imminente, gli sembrava di vedere le loro immagini
sovrapposte, stranamente sfocate, mutevoli come acqua.
Non poteva sopportare di vederla piangere. Né l’una, né l’altra.
«Io non sarò mai toccata. Non sarò mai abbracciata. Non sarò mai baciata. Non
sarò mai niente.»
La sua voce era stranamente calma, precisa. Non tremava neppure mentre lacrime
silenziose scivolavano sulle sue guance. Eppure, l’amarezza era inconfondibile.
Non era la Naminé che ricordava. Neppure quando Roxas era tornato ad essere Sora
l’aveva vista perdere la sua tranquilla, dolorosa rassegnazione. Cosa le era
successo?
Fece per sfiorarle una spalla, in un istintivo gesto di conforto, ma quando
capì bloccò la mano a mezz’aria.
Sora. Kairi. Si baciavano, si accarezzavano timidamente all’ombra di una palma,
mentre la spiaggia era deserta. Probabilmente era stata lei a baciarlo per
prima. Probabilmente era lei a spingerlo, a pungolarlo. Probabilmente avrebbero
impiegato almeno un paio d’anni prima di decidersi a fare sesso.
E probabilmente, nel tepore e nel contatto e nel silenzio e nell’ombra, dentro e
fuori dal corpo di Kairi come una visione, un’allucinazione, un’ospite
riluttante, Naminé aveva sentito le labbra secche di Sora, il calore di Sora,
l’umidità della sua bocca, il tocco incerto della sua lingua, e nel gorgo delle
sensazioni che Kairi stava provando aveva pensato a Roxas. Si era tesa verso di
lui, così vicino, così solo, così confuso, sovrapposto a Sora e dentro Sora come
una personalità fantasma…
…e si era resa conto che lui stava pensando ad Axel.
Che Axel gli mancava da morire.
Che il calore di Axel era l’unica cosa che Roxas desiderava.
Era stato così chiaro a chiunque che la definizione di migliori amici era
riduttiva, per loro. Come per lui e Sora. Già, come per lui e Sora.
Doveva essere stato chiaro anche per lei.
Eppure, si era illusa sino alla fine.
Naminé e Roxas erano i gemelli cattivi del principe e della principessa.
Dovevano essere una cosa sola. Erano nati dallo stesso corpo.
Predestinazione.
«Chiudi gli occhi.»
Naminé alzò lo sguardo verso di lui.
«Perché?»
Era nata da Sora, ma non era Sora. Lui non avrebbe mai chiesto perché, avrebbe
obbedito senza neppure riuscire a concepire il contrario.
Era l’altra metà di Kairi, ma non era Kairi. Lei avrebbe capito, e si sarebbe
tirata indietro. Non senza Sora. Mai senza Sora.
Naminé lo guardava invece con un’espressione seria, nonostante le lacrime, come
se stesse cercando di capire intenzioni che le sembravano incomprensibili.
Lui sorrise, sfrontato. Una debole eco di ciò che era stato.
«Bisogna chiudere gli occhi, quando si dà il primo bacio. Nessuna principessa
bacia il suo principe con gli occhi aperti. Non te l’hanno detto?»
Naminé non sorrise. Lo fissò, a lungo, come se stesse valutando cosa le fosse
consentito fare con quel corpo che non le apparteneva, con quella bocca che non
era la sua, mentre Kairi dormiva. Poi annuì piano, e chiuse gli occhi.
«Va bene.»
Riku alzò una mano, carezzandole la guancia, e la sentì sussultare appena.
Fragile, era così fragile… Riusciva a dare quell’impressione persino nel
corpo di Kairi, che era sempre stata così vitale, così fresca. Aveva paura di
spezzarla solo guardandola.
Riku avvicinò leggermente il viso, ma prima di raggiungere le sue labbra, esitò.
Sentiva la grana morbidissima della sua guancia sotto i polpastrelli, umida di
lacrime. La pelle di Kairi. Ma quella ragazza che stava per baciare non era
Kairi, non più di quanto fosse Sora.
Non era la prima volta che si trovava in una situazione del genere. Prima della
fine del mondo, prima di realizzare la sua ossessione per Sora, si era già
appartato con alcune compagne di classe. Era piacevole. Ma non era abbastanza.
Voleva di più, di più, di più, e quelle ragazze non potevano dargli
nulla. Nessuno poteva. Voleva l’avventura che lui e Sora avevano progettato sin
da prima dell’arrivo di Kairi. Voleva altro, con un’intensità tale da
sembrare una fame insoddisfatta.
E l’aveva ottenuto. Avevano avuto la loro avventura da grandi, ed ora era
troppo tardi per tornare bambini.
Durante quelle lunghe giornate di sole, dopo il loro ritorno, aveva guardato
Tidus e Wakka giocare a blitzball, ignorare Selphie, uscire con le ragazze,
schiamazzare sulla spiaggia, correre sul bagnasciuga sollevando enormi spruzzi
d’acqua, sfidarsi a chi nuotava più al largo, e lui era riuscito soltanto a
pensare che tutte quelle cose non c’entravano più niente con lui. Si sentiva
troppo cresciuto per condividerle. Troppo maturo.
Adulto.
Vecchio.
L’inestricabile, folle oscillare del tempo, che sembrava farsi beffe di lui.
Ed ora si trovava sull’isola dei bambini, mentre stava per baciare la ragazza
del suo migliore amico. Del centro del suo mondo.
Non sarei dovuta esistere.
Beh, non era la sola.
Delicatamente, come se un movimento brusco potesse mandarla in pezzi, appoggiò
le labbra sulle sue, umide di lacrime. Un bacio leggero, casto. Dolce. La
passione l’avrebbe distrutta.
E Naminé, Naminé aveva l’odore di Sora. Aveva gli occhi di Sora. Era nata dal
suo corpo.
Sora.
Sora.
Sora.
Sora.
La sentì aggrapparsi alla mano che aveva appoggiato sulla sua guancia, e la
lasciò andare all’improvviso, come se scottasse. Lei lo stava guardando con gli
occhi spalancati, come se persino quel leggerissimo contatto fosse stato troppo
intenso per essere sopportato. Poi Naminé abbassò lo sguardo, e scosse la testa.
«A chi stavi pensando, Riku?»
Lui tornò ad appoggiare il braccio sul ginocchio piegato, abbozzando un mezzo
sorriso.
«Potrei farti la stessa domanda.»
Lei accennò una breve risata, amara come veleno.
«Sono nata da Kairi e Sora. Sono venuta al mondo insieme a Roxas. Ho cercato di
sostituire mia madre nel cuore di mio padre, ed ho desiderato mio fratello.»
Alzò gli occhi all’improvviso. «E tu mi hai baciata perché nelle mie parole
sentivi l’eco dei tuoi pensieri. Sora non ti toccherà mai. Non ti abbraccerà
mai. Non ti bacerà mai. Non sono la sola che aspetterà in eterno qualcosa che
non potrà mai avere.»
Riku guardò il cielo che si arrossava, ad oriente, distinguendosi dalla
superficie piatta del mare.
«Allora spero che nel tuo palazzo di cristallo ci sia posto anche per me,
principessa.»
Naminé gli toccò i lisci capelli argento, trattenendo le punte tra le dita, e
Riku tornò a guardarla. I suoi occhi blu erano umidi e profondi come l’oceano.
«Aspetteremo insieme, sino a diventare polvere» disse lei, in tono di triste,
dolorosa rassegnazione.
«E lasceremo crescere i rovi.»
Naminé guardò a sua volta il cielo, come se avesse realizzato solo in quel
momento che l’alba era vicina.
«Devo tornare. Il corpo di Kairi ha bisogno di riposo, e non voglio che si
svegli… ora.»
Riku annuì, e Naminé abbandonò con riluttanza le ciocche argento che tratteneva
ancora tra le dita. Poi gli voltò le spalle e se ne andò, senza aggiungere
altro.
Rimasto solo, Riku guardò il sole sorgere lentamente dall’acqua come se stesse
nascendo, incendiando di fuoco liquido la superficie piatta del mare. Il cielo
si tinse di rosso, e di oro, e di porpora, e di giallo. E di luce.
Il mondo era finito. Era cambiato tutto, e non era cambiato niente. Come sempre.
Era soltanto passata un’altra notte.
Nothing’s what it seems to be,
I’m a replica, I'm a replica
Empty shell inside of me
I’m not myself, I’m a replica of
me…
__________________________________________
Note dell’autrice:
Questa fic è stata creata per il semplice e
nobile motivo che, 1) volevo inserire da qualche parte la mia personale visione
del rapporto RokuNami, emersa con particolare chiarezza durante una mail scritta
alla mia Nobody, Caska <3, mentre cercavo di spiegarle perché li amo pur essendo
una AkuRoku convinta, e 2) volevo scrivere qualcosa su Riku usando Replica
come theme. La nascita di Another Night è dovuta al fatto che questi due
elementi sono spuntati più o meno in contemporanea XD
AN è sostanzialmente una cosuccia scritta in un pomeriggio, due giorni prima di
partire per le vacanze, e rivista e pubblicata solamente adesso che sono
tornata. Però è troppo triste per non piacermi, e spero che piaccia anche a voi
;_;
Passiamo alle formalità necessarie è_é
La canzone citata all’inizio ed alla fine della fic è Replica dei Sonata
Arctica, una delle cose più amaramente Riku che abbia pescato in giro ;_;
La frase “Sora era la misura di tutte le cose” è una rielaborazione di una
massima di Protagora, un sofista molto noioso (come tutti i filosofi, del
resto), secondo cui “l’uomo è misura di tutte le cose”.
È tutto è_é Grazie in anticipo per eventuali commenti :*
Seli
|