« A-allontanati, non... non sei reale! »
Shuu grida e la paura lo spinge spalle al muro.
L'ombra rantola ai piedi del letto, allunga rivoli d'inchiostro asciutto e macchia le coperte, inspessendo il buio che spegne una ventina di candele, mangiando la cera colata nei piatti che si riduce a sbuffi di fumo che puzzano di bruciato.
Deforme, la macchia immaginaria si arrampica sulle sue gambe e dita adunche - mani di bimba - lasciano strisce rosse sulle sua pelle, affondando le unghie in una carezza che porta i morti a diventare incubo vivo fuori da un mondo che invece appartiene al sogno.
Il fantasma muto di sua sorella gli piange addosso, tenendo la fronte premuta contro le sue ginocchia e il corpo di nebbia steso vicino a lui.
Blasfema gli racconta che il calcio è venuto a prenderlo e lo ucciderà, perché lui sceglie - governa, decide, fa da padrone - e la prima cosa che gli porterà via saranno le sue gambe senza cui potrà più calciare una palla.
Per ultimo si mangerà la sua carne e non rimarranno altro che ossa vuote da buttare perché bucate dai vermi; lei, come compenso per essersi scomodata dall'abisso, vuole i suoi occhi e perciò li ridisegna con il pollice, spingendo sulle palpebre chiuse da cui vuole estrarli scavando un buco nelle orbite presto vuote.
Morirà perché è così che deve finire, dopotutto è colpa sua se si è dovuta sacrificare - se non è potuta crescere forte al suo fianco. Shuu ha tradito il calcio comprando una partita e adesso vogliono entrambi vendicarsi di ciò che non è stato e non sarà mai.
Chiedendole perdono, mentre si allunga verso di lei, all'improvviso una piaga di lampi le squarcia la bocca e il suo viso si scheggia svanendogli tra le mani.
« Svegliati Shuu. »
Quando apre gli occhi, mai accortosi che fossero chiusi, nella stanza è mattina e sua sorella non c'è mai stata, è solo Hakuryuu che gli asciuga il sudore dalle tempie, tenendogli ferme le ginocchia perché gli ha tirato calci per tutta la notte.
« Stavi solo facendo un incubo. »
E allora l'altro gli stringe i fianchi e affonda il naso nel suo bianco colore, una tintura levigata in quel bagliore argentino che plasma anche il fuoco.
Solo lì il calcio ha la quiete del giorno, il calore del sole e l'oscurità che porta in grembo se ne resta zitta. Arrabbiata per una manciata di ore finirà di lamentarsi finché non sarà di nuovo sera e poi, finita la pausa, di nuovo, le paure ricominceranno aspettando solo un altro domani.