Nemesis
(I
don’t think I)
deserve selflessness
What would it
take
For things to be quiet, quiet like the
snow?
I know this isn’t much, but I know I
could, I could be better.
-Louder Than Thunder, The Devil
Wears Prada
La spiaggia era un deserto di conchiglie e scogli lacerato dai
flutti bianchicci di schiuma. Tony passeggiava sul bagnasciuga,
contemplando le onde, che talvolta giungevano a sfiorargli i piedi e
poi si ritiravano in un ciclo infinito e armonioso, e il sole a picco
sul mare, in procinto di tramontare e svanire inghiottito da quella
superficie spumeggiante.
Guardava il mare e il cielo e il sole, e si chiedeva quando era
stata l’ultima volta che li aveva visti davvero e non
attraverso
gli occhi del Mercante di Morte.
Se non fosse stato per Yinsen, non avrebbe mai più avuto
occasione di ammirare un simile panorama. Adesso doveva farlo anche
per lui, che invece non poteva più, doveva fare
sì che il suo
sacrificio fosse servito a qualcosa e non soltanto perché al
mondo
fosse restituito il suo più irresponsabile commerciante di
distruzione.
Non sprecare la tua vita.
Era così assorto nei propri pensieri che non si rese conto
della
presenza di qualcun altro finché non rischiò di
inciampare sulle
sue gambe – gambe lunghe, lunghe come ne aveva viste ben
poche,
prese nota un angolo della sua mente, e Tony Stark poteva vantarsi di
averne viste un numero notevole.
Imprecò, barcollando in avanti, ma riuscì a non
cadere e,
riguadagnato l’equilibrio, abbassò lo sguardo
sull’inaspettato
ostacolo, che lo fissava con le sopracciglia inarcate e la bocca
tirata in una linea irritata, se non persino moderatamente furiosa.
«Ehi». Non lo aveva mai incontrato prima: era un
uomo giovane,
non poteva avere più di una trentina d’anni, aveva
i capelli neri,
allisciati all’indietro con cura, e due sorprendenti occhi
verdi
che sembravano in grado di penetrare fin nell’anima
– e non
soltanto a un livello metaforico che non prevedesse il dolore fisico,
in quella precisa circostanza. Tony si schiarì la gola e si
sforzò
di non farsi mettere in soggezione da quel verde e quella collera.
«Scusa, amico, non avevo fatto caso a te. Bella serata,
eh?»
Lo sconosciuto lo fulminò con lo sguardo prima di spostare
la
propria attenzione sul mare, senza accennare a voler replicare. Tony
si era quasi arreso al fatto che non gli avrebbe rivolto la parola,
quando lo udì mormorare: «Lasciami in
pace».
Non si voltò di nuovo verso di lui né aggiunse
altro, nemmeno
nel momento in cui, anziché obbedire, Tony lo
studiò con calma,
osservando le occhiaie e la rigidità della sua espressione.
Probabilmente l’altro aveva deciso di ignorarlo nella
speranza
che prima o dopo si allontanasse di propria spontanea
volontà. Forse
con altri avrebbe funzionato; non con lui.
Tony si lasciò cadere sulla sabbia a poca distanza da lui
con un
pesante sospiro. «Perché quella faccia?»
domandò in tono
discorsivo. «Sei venuto qui a suicidarti?»
Quella domanda parve fare breccia nella maschera
d’indifferenza
dello sconosciuto, che batté più volte le
palpebre, perplesso. «No,
non ho alcuna intenzione di togliermi la vita. Avevo bisogno di
riflettere».
«Wow» fischiò Tony.
«Cos’era questo, Shakespeare?»
L’altro sembrò ancora più confuso.
«Che cosa?»
«Ma sì, la citazione. Non ho alcuna
intenzione di togliermi
la vita. È Amleto?»
Lo sconosciuto corrugò la fronte e gli rifilò
un’occhiata
seccata. «Preferirei essere lasciato solo»
osservò, brusco. «Non
sono interessato a intrattenere una conversazione con te».
«Dai, non ti scaldare». Tony lo blandì
con uno dei suoi sorrisi
affascinanti alla Tony Stark, che però doveva essere un
tantino
difettoso, perché il suo interlocutore non parve affatto
affascinato. Infastidito, piuttosto. «Mi domandavo solo chi
fossi.
Voglio dire, è una spiaggia per gente famosa, questa, e non
ti ho
mai visto in giro. Sei uno nuovo? Magari un ereditiere? Oppure un
imprenditore che ha fatto bingo? O solo un giocatore di poker molto
fortunato?»
L’altro lo squadrò dall’alto in basso
come nessun altro osava
fare con lui – come ne fosse in grado quando erano entrambi
seduti,
era un mistero. «Non credo che la mia vita ti riguardi in
qualche
modo».
Tony aveva lo sconcertante sospetto che quell’uomo non avesse
idea di chi lui fosse. Lui, che appariva più spesso in
pubblico e
sulle riviste di quanto non facesse ai consigli di amministrazione:
la sua faccia era ovunque, il suo nome osannato o maledetto in tutti
gli Stati Uniti. Persino negli altri universi era possibile che
avessero sentito parlare di lui, eppure quello sconosciuto lo
scrutava rabbuiato non perché era Tony Stark e produceva
armi, ma
solo perché stava minando il suo spazio personale e la sua
pazienza.
Per la prima volta nella sua vita, Tony era considerato un uomo
qualsiasi, non il figlio di Howard Stark, non l’erede geniale
delle
Stark Industries, non il Da Vinci contemporaneo. Solo Tony, una
persona alquanto invadente che aveva l’inquietante passatempo
di
tormentare sconosciuti sulla spiaggia.
«Okay, niente domande, sono fatti tuoi»
scrollò le spalle,
sconfitto dall’ermetismo del suo interlocutore.
Tentò un sorriso
d’incoraggiamento. «Come ti chiami?»
L’altro lo considerò con un’occhiata
esasperata, poi sospirò
e lo assecondò, lapidario: «Luke».
«Bene, Luke» disse Tony, allungandogli una mano.
«Io sono Tony
Stark».
Nessuno l’aveva mai guardato con tanta mancanza
d’interesse
dopo che aveva pronunciato quel nome. Luke fissò il suo
braccio
teso, poi il suo volto e alla fine gli prese la mano e la strinse
come se gli stesse facendo una magnanima concessione.
La lasciò andare quasi subito, lanciò
un’occhiata nostalgica
al mare e sbuffò: «Suppongo tu non abbia
intenzione di lasciarmi in
pace».
Tony non aveva alcun motivo di importunarlo, se non che era
divertente vederlo esasperato, ma non voleva andarsene. Era il primo
a riservargli un trattamento simile: dopo l’Afghanistan, dopo
quello che era successo a Yinsen, dopo la prima armatura e la scia di
morte che si era lasciato dietro, aveva bisogno di quella sensazione
d’anonimato come un drogato in astinenza ha bisogno della
cocaina.
«Beh, voglio essere sicuro che non ti suicidi»
obiettò con una
scrollata di spalle. «E poi sembri uno che non parla con la
gente da
secoli. Sei acido. Magari hai bisogno di sfogarti. La tua ragazza ti
ha lasciato?»
Luke inarcò le sopracciglia e non rispose.
«Ehi, dai, non ricominciare. Scusa, non volevo insinuare che
qualcuno avesse osato mollarti» si affrettò a
rettificare Tony,
alzando gli occhi al cielo. «Facciamo così: se non
vuoi rispondere
a una domanda, mandami a ‘fanculo, okay? Però non
stare zitto, è
controproducente e mi sento un idiota a parlare da solo».
L’altro socchiuse gli occhi e lo valutò con uno
sguardo
indagatore, sospettoso. «Perché sei
così interessato alla mia
vita, Stark?»
C’era qualcosa di pericoloso, in quella voce, qualcosa che
gli
diede i brividi, qualcosa che gli ricordò in maniera fin
troppo
vivida il capo dei Dieci Anelli che minacciava Yinsen di fargli
inghiottire un carbone ardente.
«Non è che abbia niente di meglio da fare. Magari
sono io che ho
bisogno di parlare con qualcuno».
Fece una pausa e realizzò ciò che aveva appena
confessato: era
stato così veloce nell’elaborare
quell’ipotesi che il filtro tra
bocca e cervello non era riuscito a stargli dietro. Si maledisse tra
sé, ma ormai non aveva alcun senso ritrarre la propria
affermazione.
«Voglio dire, mi avrai visto in TV. Mi sono successe
parecchie cose,
ultimamente. Tutti pensano che io sia pazzo, quando per una volta ho
l’impressione di aver avuto una buona idea. Persino i miei
amici mi
guardano come se fossi folle, ora, non voglio dire che sia del tutto
sbagliato, in fondo tutte le menti geniali sono un tantino fuori
fase, però…»
«Taci» sibilò Luke, una mano sollevata a
sorreggere il capo,
quasi che le chiacchiere di Tony pesassero sul suo cervello. Distolse
gli occhi da lui e li affisse sulla distesa azzurra di fronte a loro.
Tony quasi sussultò quando lo udì riprendere la
parola, convinto
com’era che la conversazione sarebbe morta se non fosse stato
lui a
ravvivarla.
«Non sei l’unico. Anche la mia famiglia pensa che
io sia un
visionario». Digrignò i denti, esalò un
sospiro, perso in immagini
che Tony non aveva la possibilità di vedere, in ricordi che
non gli
appartenevano. «Voglio solo rimettere a posto le cose, ma
nessuno di
loro lo capisce».
«Figurati, mio padre è morto senza nemmeno fare lo
sforzo»
commentò Tony in tono amareggiato.
Provava una certa solidarietà nei confronti di Luke,
simpatizzava
fin troppo con i suoi sentimenti e seppe che anche il suo
interlocutore riusciva a immedesimarsi in lui quando si volse a
osservarlo con un’intensità nuova, diversa, non
come si guarda un
estraneo irritante, ma nemmeno come si guarda un amico.
Di colpo, Luke scattò in piedi, si lisciò le
pieghe degli abiti
e abbassò lo sguardo su di lui, il volto inespressivo.
«Devo
andare».
Il cambiamento era stato così repentino che Tony
batté diverse
volte le palpebre, inebetito, prima di replicare: «Uh,
okay…
Allora vado anch’io. Se…»
Senza darsi la pena di ascoltarlo, l’altro si stava
già
allontanando a grandi passi e Tony fu costretto a un’andatura
affrettata per tenergli dietro. Maledette gambe infinite.
«Ehi!»
sbottò, offeso, quando riuscì ad affiancarlo.
«Volevo solo dire
che, se torni, ci possiamo rivedere. Non sei male, a volte potresti
quasi passare per simpatico».
Luke infilò le mani in tasca e sbuffò
sonoramente. «Ti rendi
conto che per la gran parte del tempo sei tu a parlare,
vero?»
«Forse è quello di cui ho bisogno. Qualcuno che
ascolti. Sai, mi
dicono sempre che parlo molto, quindi non ho necessariamente bisogno
che lo faccia qualcun altro, ma starmi a sentire da solo è
un po’
triste, e magari mi fa bene essere ascoltato. Anche perché
non è
che mi sembri proprio logorroico».
«Vali per tre, Stark, posso concedermi di non essere
logorroico»
obiettò Luke, ironico. «Pensi di seguirmi fino a
casa oppure ho
finalmente il piacere di salutarti?»
«Ah, giusto… Oh, l’ultima domanda:
perché quei vestiti?»
Occhieggiò con eloquenza il completo elegante.
«Non li definirei i
più adatti a una giornata al mare».
L’altro inarcò entrambe le sopracciglia.
«Così parlò colui
che indossava i pantaloni di Hermès».
Tecnicamente Tony aveva solo pantaloni firmati oppure jeans
sfrangiati e bucati che utilizzava in laboratorio, ma non lo disse;
sollevò invece le mani in segno di resa e
annunciò: «Okay, okay,
mi dichiaro sconfitto e ti lascio in pace. Ci vediamo».
Luke parve esitare, lo soppesò con uno sguardo penetrante,
poi si
strinse nelle spalle. «Sì».
Il giorno successivo, Tony lo ritrovò nello stesso punto in
cui
l’aveva visto la prima volta – o almeno ebbe questa
impressione
quando lo avvistò, seduto sulla sabbia con indosso un paio
di jeans
e una camicia bianca. Sorrise appena, divertito, nel far scorrere
brevemente lo sguardo sui propri vestiti, anch’essi
più sobri di
quelli del giorno precedente, vecchi jeans sgualciti e macchiati
d’olio e una canotta nera che gli fasciava il petto e copriva
il
lucore del reattore arc.
«Niente smoking?» si informò, divertito,
nello stravaccarsi
pesantemente accanto a lui.
Luke gli scoccò un’occhiata
d’avvertimento. «Bada, Stark,
non ho alcuna intenzione di farmi prendere in giro da te».
Tony scrollò le spalle. «Troppo tardi. Come va?
Ancora manie
suicide?»
L’altro non reagì, ma Tony ebbe
l’impressione che, fosse
stato più emotivo, avrebbe esalato un sospiro sconfortato.
Luke
invece scrutava il mare, mormorando: «Mi vedo costretto a
ripeterti
che non ho mai pensato di uccidermi. Ho bisogno di pensare e il
panorama mi aiuta a schiarirmi la mente».
Tony annuì, in fondo era la stessa ragione per cui anche lui
stava passeggiando sulla spiaggia, la sera prima. «Che
problemi
hai?» volle sapere in tono discorsivo, quasi stesse
introducendo un
argomento di poco conto.
Nonostante i suoi sforzi, Luke s’irrigidì come una
statua di
marmo e per lungo tempo tacque.
Quando infine decise di rivolgergli di nuovo la parola, la sua
voce era bassa, tesa. «Credevo fossi tu ad aver bisogno di
sfogarti».
«Non puoi aspettarti che non sia curioso» si difese
Tony,
ragionevole. «E poi, scusa se te lo faccio notare, ma sei
così
complessato che è impossibile non chiedersi perché.
Forse
aprirti ti farà anche sentire meglio».
«Non credo» sibilò Luke tra i denti e
Tony intuì che sarebbe
stato irremovibile, perciò alzò le spalle per
lasciar cadere il
discorso.
«Come vuoi. Allora comincio io. Oggi è stata
un’altra giornata
terribile, i giornalisti non mi lasciano in pace un secondo, mi tocca
seppellirmi in laboratorio per trovare un po’ di
pace…»
Luke non lo interruppe mai né distolse
l’attenzione dal mare,
ma Tony era certo che non si perdesse una sola parola del suo
monologo, fosse anche solo perché aveva una voce
particolarmente
difficile da ignorare.
A poco a poco, la tensione che serrava Tony in una morsa di ferro
si allentò, mentre tutta la rabbia, tutto il sospetto e
tutta la
solitudine che lo attanagliavano lo abbandonavano insieme alle parole
che fluivano senza freni dalla sua bocca.
Non andò oltre le preoccupazioni circa quello che stava
succedendo alle Stark Industries in quel periodo, ma, se anche era
curioso, Luke non gli fece alcuna pressione, non una sola domanda.
Alla fine, Tony esalò un sospiro, prosciugato della propria
logorrea forse per la prima volta nella vita. Era la prima volta per
molte cose, di recente. «Beh, è stato…
liberatorio. Grazie».
Era strano parlare di fatti che chiunque in possesso di una
televisione o anche soltanto di un giornale avrebbe potuto citargli a
memoria con qualcuno che pareva non avere idea di che cosa stesse
raccontando. Luke assorbiva ogni aneddoto come una spugna, ma Tony
non riusciva a immaginare che cosa gli passasse per la testa mentre
incamerava tutte quelle informazioni.
Anche adesso, non avrebbe saputo ipotizzare cosa vi fosse dietro
l’intensità pungente con cui lo stava fissando, a
meno che il suo
interlocutore non avesse voluto renderglielo noto. Finalmente scelse
di farlo e disse: «Parlami ancora della tua tecnologia. Hai
smesso
di costruire armi: che cosa progetti ora?»
Era la domanda più banale che avrebbe potuto porgli
– bastava
seguire i suoi ragionamenti neo-filantropici per poche frasi per
arrivare a quel dubbio – ma anche l’unica cui non
poteva dare
risposta.
Non l’aveva detto neppure a Pepper e, sebbene si sentisse in
debito con Luke, in un certo senso, per avergli prestato
l’attenzione
di cui aveva bisogno e che nessun altro sembrava volergli dare,
ultimamente, in fondo lo conosceva solo dal giorno prima. Non era
ancora diventato così stupido.
«Scusa, amico, ma questo è riservato».
Le sopracciglia di Luke scattarono all’insù.
«Riservato?»
«Già». Tony scrollò le spalle
con fare di scusa. «Sai com’è,
i paparazzi, la stampa… Vorrei avere un po’ di
respiro. Ti
conosco appena, come faccio a sapere che non sei un reporter sfigato
impaziente di mettere i miei segreti online per attirare
l’attenzione, non so, del Daily Bugle?»
Luke non sorrise. Non che lo facesse spesso, ma in quel caso
particolare era molto irritato. Non solo: guardando nei suoi occhi
verdi, Tony intravvide qualcosa di selvaggio che gli fece venire i
brividi e che non sapeva perché avesse collegato a un
innocuo
giovane uomo in jeans e camicia seduto sulla spiaggia con lui.
Quella sera fece delle ricerche su internet, ma non conosceva il
suo cognome né possedeva un indirizzo che potesse offrirgli
un punto
di partenza.
Non aveva niente, nessuna testimonianza dei suoi incontri con Luke
se non il ricordo del suo sguardo penetrante, della voce affilata.
Era uno spettro.
Com’era prevedibile, non scoprì nulla, dopo
un’ora
infruttuosa lasciò perdere e si dedicò ai
repulsori della nuova
armatura.
Annotò mentalmente che, quando il giorno dopo avesse visto
Luke,
avrebbe dovuto impegnarsi per strappargli almeno un cognome, un dato
qualsiasi che fungesse da base su cui costruire la sua
identità.
La sera successiva, però, lui non era sulla spiaggia al
solito
orario.
Tony lo aspettò per un’ora, poi fece ritorno alla
villa. Lo
trovò seduto sul sofà in soggiorno, i gomiti
sullo schienale e le
gambe accavallate con grazia.
Stupefatto, Tony farfugliò un poco intelligibile:
«Ehi, ma
come…? Come hai fatto a…? Jarvis?»
«Non so cosa dirle, signore. Nessun ingresso
è stato forzato
e nessuna telecamera manomessa. Sembra che il signore sia sempre
stato qui».
Luke aspettò che il breve scambio con l’AI si
concludesse per
intervenire: «Ho riflettuto su ciò che mi hai
detto. Comprendo che
tu non possa ancora fidarti di me, dal momento che non ti ho rivelato
nulla sul mio conto. Ho pensato a uno scambio equo: informazioni per
informazioni».
Tony non si mosse, guardingo.
Quell’uomo era più pericoloso di quanto avesse
sospettato: era
persino riuscito a sabotare il sistema operativo di Jarvis per celare
il proprio arrivo. Com’era possibile che non ne avesse mai
sentito
parlare? Un uomo capace di violare il firewall dell’AI
avrebbe
senza dubbio attirato l’attenzione dei media. Poteva
immaginare con
facilità il titolo di prima pagina: Tony Stark
incontra la sua
nemesi.
Chi era quell’uomo?
Poiché si trovava in una posizione di netto svantaggio,
decise di
reggere il gioco. «Okay. Quindi è il tuo turno,
visto che ieri ho
parlato per tutto il tempo…» fece notare con
cautela,
avvicinandosi di qualche passo.
Luke annuì. Ogni suo gesto era solenne, regale; Tony
conosceva
persone raffinate, ma nessuna dava l’impressione di essere un
sovrano come quell’uomo.
«È giusto» acconsentì questi.
«Permettimi allora di
correggermi, anzitutto. Non mi chiamo Luke. Sono conosciuto in molti
modi, ma il mio nome di battesimo è Loki».
Beh, pensò Tony, che Luke non
fosse il suo vero nome
era ovvio, a questo punto.
Il problema era che si chiamava Loki. Loki. Come
uno degli
dei norvegesi di cui leggeva da bambino nei libri di fiabe. Non ne
aveva mai posseduti molti, aveva sempre preferito la meccanica, ma
anche lui aveva un minimo di cultura base su Thor, Loki e compagnia
nordica. Davvero si aspettava che credesse a una cosa del genere?
Forse era instabile. Forse Luke o Loki o chiunque fosse soffriva
di un qualche disturbo che lo spingeva a convincersi di essere
qualcun altro, tipo un dio delle favole. Aveva sentito dire che
cercare di farlo ragionare avrebbe peggiorato le cose e che era molto
meglio assecondarlo e non minare il suo equilibrio, già di
per sé
precario.
«Okay» fece, in mancanza di qualcosa di meglio da
replicare, nel
rendersi conto che Loki si aspettava una risposta. «Piacere
di
conoscerti?»
Il presunto dio esalò uno sbuffo sonoro. «Non
guardarmi come se
fossi pazzo, Stark. Come avrei potuto entrare nella dimora meglio
protetta dei vostri Stati Uniti, se non con la magia?»
È anche convinto di essere magico. Tony
non sapeva se
scoppiare in una risata isterica o provare a stendere il suo
interlocutore. La risata gli avrebbe reso poco onore. Magnifico.
Dal momento che era stato Loki a introdurre l’argomento,
giudicò
che fosse abbastanza prudente non tergiversare e tentò di
persuaderlo con la razionalità: «Jarvis non
è perfetto. Un hacker
davvero bravo potrebbe sperare di riuscirci. Devi essere una specie
di genio… Magari è per questo che sei anche un
po’ sbroccato».
Non era il modo migliore di far rinsavire qualcuno, riconobbe
Tony, ma come al solito il filtro tra bocca e cervello stava
lì per
bellezza. Era paradossale che le sue invenzioni funzionassero
così
bene, quando lui era tanto difettoso.
Loki sospirò, Tony batté le palpebre. Loki
scomparve.
Ripresosi dal fissare a occhi sgranati il punto in cui fino a un
attimo prima si era trovato il presunto dio, Tony si mise in cerca di
un qualche dispositivo olografico che avrebbe spiegato il motivo per
cui Loki non aveva dovuto forzare la serratura: perché, fin
dall’inizio, non era mai stato davvero lì.
Per quanto frugasse, però, non c’era nulla.
Doveva trattarsi di una tecnologia straordinaria, considerò
Tony,
meravigliato quanto entusiasta di aver trovato qualcuno che davvero
potesse porsi al suo livello.
«Non perdere tempo» risuonò la voce di
Loki dietro di lui.
Tony si voltò di scatto e lo vide a pochi passi di distanza,
in
piedi, le braccia conserte al petto e l’espressione annoiata.
L’entusiasmo si convertì in qualcosa di molto
simile alla paura,
quando dentro di lui si annidò il sospetto che non fosse un
ologramma. «Come diavolo…?»
«Sono un mago» lo interruppe il dio.
«Posso fare questo e
altro».
Mosse un passo avanti e Tony quasi inciampò nel
sofà nel
tentativo di indietreggiare, preso alla sprovvista.
«Jarvis…»
iniziò, ma Loki corrugò la fronte in
un’espressione minacciosa e
chiuse la mano a pugno.
La fine della frase gli morì in gola, come se un serpente
gli si
fosse attorcigliato attorno al collo. Aveva l’impressione di
soffocare, eppure non c’era niente a serrargli la gola. Era
orribile, più di qualsiasi cosa gli avessero fatto in
Afghanistan:
la consapevolezza di non avere alcun controllo su quella tortura, che
sarebbe morto senza neppure sapere come, era schiacciante.
Finì all’improvviso, lasciandolo senza fiato. Il
volto di Loki
era una maschera glaciale mentre Tony inspirava quanta più
aria
possibile e passava una mano sul petto, sul reattore arc, come per
sincerarsi che fosse ancora tutto laddove doveva essere.
«Non ho alcun interesse nel farti del male»
osservò il suo
ospite in tono neutro. «Se però hai intenzione di
chiamare
qualcuno, sarò costretto. Sto cercando di essere onesto con
te,
Stark, come tu lo sei stato con me fin dal principio. Non abusare
della mia gentilezza».
Tony dovette mordersi un labbro per trattenere la risatina
isterica che poco prima aveva bocciato come idea ridicola.
«Gentilezza, sicuro» sputò, velenoso.
«Tutti i miei amici mentono
e provano a strangolarmi con la magia, grazie tante».
«Volevo solo impedirti di commettere un errore».
C’era una
sottile, subdola nota di divertimento nella sua voce. «Forse
ho
sbagliato a dosare la potenza dell’incantesimo. A ogni modo,
io non
sono tuo amico».
Divertimento, ma non crudeltà, considerò Tony.
Con quello che
gli aveva appena visto fare, non dubitava che Loki avrebbe potuto
distruggerlo come si appallottola un foglio di carta.
Se non l’aveva già fatto, il minimo che poteva
offrirgli in
cambio era una possibilità.
«E le bugie?»
Questa volta Loki fece una lunga pausa prima di rispondere e Tony
temette che avrebbe finito col rifiutarsi, ma poi il dio
replicò:
«Per proteggere me stesso. Solo da poco mi sono reso conto
che tu
non mi conosci e che non ho nulla da temere». Tony si
domandò se
dovesse ritenerlo un complimento o un insulto, ma non lo interruppe.
I lineamenti del dio si contrassero, come se quanto stava per
aggiungere lo infastidisse profondamente. «Ti chiedo
scusa».
Tony era diviso tra il desiderio di scoppiare a ridere, adesso di
cuore, per l’espressione di Loki, quasi che scusarsi gli
provocasse
dei conati di vomito, ed esercitare la sua vena sarcastica. Scelse la
seconda.
«Peccato che non siamo amici, ho sempre voluto un dio come
BFF.
Gli altri miliardari che si credono geni morirebbero
d’invidia»
sogghignò, suscitando un sorriso complice da parte di Loki.
Il dio.
Come avrebbe fatto ad abituarsi a chiamarlo così?
«Comunque, magia,
eh? Figo. Però non capisco perché tu mi abbia
detto la verità. È
per quella storia del mio progetto? Potresti scoprire di che si
tratta schioccando le dita, no?»
«Sarebbe semplice, è vero» ammise Loki.
La sua affermazione punse Tony nell’orgoglio: capiva la magia
e
tutto, ma un minimo di considerazione per il suo ego sarebbe stata
apprezzata. Non lo chiamavano il miglior sistema
d’allarme del
secolo per bellezza.
Il dio però non si soffermò sulla sua espressione
ferita:
sembrava assorto, preda di un qualche ragionamento che Tony non
poteva afferrare. Aveva avuto quello sguardo perso altre volte,
mentre Tony raccontava, era andato in posti che a lui invece
rimanevano preclusi.
Alla fine si riscosse e riprese: «Tuttavia, come ti ho detto,
tu
non sai nulla di me, non mi giudichi, proprio perché non mi
conosci.
Non sei come gli altri. Ho ponderato ciò che hai detto circa
la
necessità che qualcuno ti ascolti. Sono arrivato alla
conclusione
che forse anche io ne ho bisogno, e voglio che sia tu. Per questo ti
ho detto la verità: desideravo che tu ti fidassi di me, che
parlassi
e in cambio mi lasciassi parlare. Avrei potuto costruire per
“Luke”
una storia molto simile alla mia, è vero, ma non sarebbe
stato lo
stesso».
Il dio non lo stava guardando direttamente, né Tony lo
forzò a
farlo. Non si sarebbe mai aspettato che uno come lui fosse disposto a
fidarsi a tal punto, non riusciva a immaginare una ragione
così
immensa che avrebbe potuto fargli bramare di confidarsi con qualcuno.
Non che fosse esperto di psicologia divina, a ogni modo.
Non l’avrebbe ammesso, ma una parte di quanto Loki aveva
affermato lo metteva a disagio: era chiaro che il dio era convinto
che altri – in possesso di conoscenze che a lui mancavano
–
l’avrebbero considerato indegno d’essere anche solo
ascoltato.
Tony si chiedeva di cosa si trattasse e se anche lui si sarebbe
trovato d’accordo con questi altri,
qualora fosse entrato in
possesso di simili informazioni.
Eppure Loki si era scoperto per lui, non aveva mentito né
gli
aveva fatto del male. Non poteva voltargli le spalle sulla base di
supposizioni, così come non avrebbe abbandonato un progetto
perché
statisticamente aveva poche possibilità di avere successo.
«Okay». Si sedette sul divano e batté
con la mano sul posto
accanto al proprio, per esortarlo a imitarlo. «Vuoi qualcosa
da
bere?»
Loki si accomodò a una certa distanza da lui, come faceva
sempre.
«No» ribatté.
Solo no, non no, grazie, come
chi sia abituato a
farsi servire. Tony cominciava finalmente a collegare le
informazioni, dal suo atteggiamento algido ed elegante al suo modo di
parlare. Considerato che Loki era un principe, se non ricordava male,
ogni cosa assumeva un senso.
Attese che fosse il dio a prendere la parola, ma lui non aggiunse
altro. Scrutava il vuoto, accigliato, ancora incerto se aprirsi o
meno anche dopo che gli aveva rivelato la propria identità.
Non doveva essere preoccupato che lui lo raccontasse a terzi
–
d’altra parte non poteva biasimarlo, aveva visto di cosa era
capace
e gente così non aveva bisogno di preoccuparsi di nessuno.
Stava per schiarirsi la gola e incoraggiarlo in qualche maniera,
quando la voce profonda di Loki troncò il gesto –
che in ogni caso
non avrebbe avuto un buon esito, dal momento che incoraggiare
non era proprio ciò che gli riusciva meglio – sul
nascere: «Sono
divenuto re. Odino è ora vittima dell’Odinsleep e,
in assenza di
Thor, sono stato incoronato come reggente. Tuttavia non so che
farmene del mio trono». Si passò una mano sul
volto, e per un
secondo Tony intravvide un viso rugoso, devastato dalla spossatezza
di milioni di anni di vita, al posto del suo bel volto giovanile. Poi
Loki raddrizzò le spalle e sollevò il mento,
orgoglioso. «Non era
così che doveva andare. Odino ha rovinato tutto
ciò che avevo così
accuratamente pianificato».
Tony si sentiva positivamente confuso e aveva la sgradevole
impressione di aver perso qualche passaggio. «Sì,
ecco, sarebbe
carino se mi raccontassi un minimo di antefatto. Sai, per capire una
sillaba di quello che dici».
Gli occhi del dio bruciavano quando si posarono di nuovo su di
lui, Tony rabbrividì sotto quello sguardo così
intenso. «Credevo
che Odino fosse mio padre, volevo che lui mi ritenesse degno, come
riteneva degno Thor. Poi ho scoperto che in realtà sono la
progenie
mostruosa di un re decaduto, uno sgravio che non ha nulla a che fare
con il mondo glorioso in cui sono stato allevato. Non so più
chi
sono». Sembrava così stanco. «Non so che
cosa devo fare, Tony
Stark».
Tony non era mai stato bravo a confortare le persone. A voler
essere precisi, non era mai stato bravo con le persone in generale.
Sfogarsi era molto più facile che ascoltare un altro,
perché
quello si aspettava parole di consolazione che lui non era in grado
di offrire. Non era neppure molto abile nell’immedesimarsi in
qualcun altro.
Quella volta, invece, capiva senza difficoltà ciò
che Loki
provava.
Però era così grande, così tanto che
non trovava alcuna frase
abbastanza appropriata per aiutarlo o anche solo fargli capire che
lui capiva.
Ripensò a quando era in Afghanistan, a Yinsen che gli
chiedeva se
avesse una famiglia. All’epoca, rigirare la domanda e
ascoltare il
racconto di quello sconosciuto, che per lui non significava niente,
ma che, come lui, aveva perso tutto ed era sull’orlo del
baratro,
l’aveva colmato di sollievo.
«Io costruisco armi» cominciò in tono
incerto. Quella storia
del conforto era complicata. «Ero convinto di fare affari
solo con
l’esercito americano, di aiutare la mia patria a difendersi.
Sai,
quelle stronzate che ci si dice per autoconvincersi di fare la cosa
giusta. In realtà c’è qualcuno che
vende le mie armi ai
terroristi. Sono stato in una delle loro basi per tre mesi,
perché
volevano che costruissi per loro uno dei miei missili. Per liberarmi,
ho ideato un’armatura di cui attualmente sto sviluppando un
nuovo
modello. Voglio chiudere il reparto bellico delle Stark Industries.
Finalmente voglio prendermi le mie responsabilità, fare
qualcosa di
buono, qualcosa di cui non debba autoconvincermi…»
Scosse il capo,
incredulo. «… e nessuno vuole
ascoltare».
Tacque, stupito.
Non aveva mai confidato a nessuno i propri dubbi più
profondi:
non a Pep, non a Rhodey, nemmeno a Obie. Una settimana prima non
avrebbe mai sospettato che si sarebbe ritrovato a farlo con un dio
norvegese adottato.
Loki diede segno di aver seguito il suo discorso con un cenno del
capo.
Non appariva più sereno, ma d’altra parte il
più delle volte
era impenetrabile, Tony non se ne sorprese.
Non dissero nulla. Il silenzio aveva un sapore amaro, Tony si
stancò presto di quel gusto agrodolce.
«Perché sei venuto a raccontarlo proprio a me?
Voglio dire,
sulla Terra ci sono sei miliardi di persone che ti conoscono solo
tramite le leggende e mi era parso di intuire che non ti stavo troppo
simpatico. Perché io?»
Loki lo scrutò con uno sguardo indefinibile, ponderando con
cura
la propria risposta. «Tu sei stato il primo a guardarmi non
come il
figlio di Odino, oppure di Laufey. Non ti importava che io fossi
degno o meno».
Così come lui non aveva pensato che Tony fosse il Mercante
di
Morte.
«Forse…» Indugiò, le labbra
contratte e la fronte aggrottata.
«Potrei essere tuo amico».
Lui stesso non suonava sicuro di quanto aveva appena proposto
–
se poi era una proposta – ma non aggiunse altro,
né ritrattò.
Rasentava il ridicolo: Tony Stark, il più grande inventore
del
suo tempo, che aveva un mago alieno per amico. Pepper si sarebbe
licenziata per esaurimento nervoso, se fosse venuta a saperlo.
Riusciva persino a immaginare la sua arringa. Posso tollerare
che
lei vada a letto con una donna diversa ogni notte, ma non questo,
Tony.
Quella fantasia generò un sorriso. «Ehi, ero serio
quando ho
detto che sarebbe stata una figata avere un dio come BFF».
Gli
rifilò un’occhiata divertita cui Loki
replicò con un cipiglio
confuso, palesemente perplesso circa il significato di
“BFF”.
«Miglior amico per sempre, voglio dire. Posso invitarti al
prossimo
noioso convegno per inventori?»
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*Shakespeare è il drammaturgo preferito di Tom Hiddleston, attore che interpreta Loki nei film **Il Daily Bugle
è il quotidiano per cui lavora Peter Parker, alias Spider-Man
***"Odinsleep" è il termine inglese con cui viene indicato il
sonno in cui sprofonda Odino ogni anno (nel fumetto) e ogni x tempo
indeterminato (nel film)
Long-fiction in due capitoli (oppure due capitoli più un
breve epilogo) che conto di terminare nel giro di due o tre settimane,
mentre lavoro al secondo capitolo de Burn it to the ground.
La settimana scorsa hanno mandato Iron
Man su Italia 1 e, rivedendolo dopo tanto tempo, sono
stata ispirata per scrivere questa cosa (?), che combina (spero in
maniera efficace) gli eventi di Iron
Man, Thor
e anche di Journey Into
Mystery, più precisamente dell'arco che tratta
di kid!Loki (però quest'ultimo riferimento sarà
presente solo alla fine del secondo capitolo o dell'eventuale epilogo e
non è assolutamente necessario essere avidi lettori del
fumetto per capire il resto della trama). Per farla breve, i miei
soliti cross-over volti al solo scopo di scrivere dell'IronFrost (slash
o pre-slash che sia) di cui tutti farebbero volentieri a meno.
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