Titolo:
Ladro d'amore
Autore:
Nico
Rating:
Per tutti
Genere: Michael & Maria, AU, S3 Post BTM,
Michael's POV
Telefilm
di appartenenza: Roswell
-*-*-*-
Tutto
ebbe inizio il giorno in cui lei decise che la nostra storia non
poteva continuare.
“Forse
è perchè ti amo troppo. Per stare con te ho perso
me
stessa, ho bisogno di ritrovare un equilibrio che prescinda da noi
due”, mi
aveva spiegato.
La
guardai in faccia senza capire quello che mi stava dicendo. Tutto,
nella mia testa, mi suggeriva che quello che sentivo, le sue parole
dette tra le lacrime, non volevano davvero dire quello che sembrava
volessero dire. Era solo una speranza infondata, però, non
c'era stata alcuna ambiguità in esse.
“E'
finita per sempre?”, le avevo domandato, tentando
di
controllare il tremito della mia voce. Ero sospeso nel vuoto,
dannazione, ma l'ultima cosa che volevo era crollare di fronte a lei!
“Non
lo so”, aveva risposto, ma voltandomi le spalle
solo un attimo
dopo, senza lasciarmi il tempo di dire nient'altro, era sparita nella
notte.
Era
sparita dalla mia vita.
In
realtà, a pensarci bene, tutto ebbe inizio quando mi resi
conto che ero davvero solo, che non c'era più speranza che
lei
cambiasse idea, e che la sua decisione di lasciarmi non era stato
solo il capriccio di un momento.
Ascoltai
per ore e ore il rumore delle onde del mare, per ore e ore le sentii
infrangersi sugli scogli, trasformando il divano di casa mia in una
culla avvolgente,
rilassante e confortevole.
Fallii
miseramente, e mi ritrovai
sommerso da carte di snack , calzini sporchi incastrati fra i
cuscini, e una quantità indefinita di briciole tutt'attorno.
Spensi
lo stereo, e a quel punto
il rumore della risacca cessò, e tutto quello che riuscii a
sentire fu solo il vuoto che lei aveva lasciato nel mio cuore.
Ma
potevo, io, Michael Guerin,
farmi ridurre così da una donna? No, non da una donna
qualunque. Ma da Maria De Luca si, senza dubbio.
Maria De
Luca aveva fatto di tutto
per avermi, mi era stata alle costole come un segugio quando io ero
troppo stupido per capire i miei errori e continuavo a fuggire da
lei, mentre invece, la cosa più saggia che avrei potuto fare
sarebbe stata correrle incontro a braccia aperte.
Poi
qualcosa era successo,
qualcosa che ancora non riuscivo ad afferrare, e ciò che
credevo essere diventata la vita perfetta, ciò che
finalmente
credevo essere l'amore perfetto, mi si era rivoltato contro.
Ma aveva
detto di amarmi, no?
Aveva detto di amarmi fin troppo, forse!
Per
questo motivo, dopo due
settimane di ininterrotto sciabordio delle onde, e dopo essere giunto
alla conclusione che l'effetto calmante che garantivano sulla
copertina del CD era solo una grande truffa, mi alzai, e con le ossa
un po' ammaccate a causa della prolungata mancanza di movimento, uscii
con l'unico scopo di cercarla e scoprire se, per caso, era
riuscita a ridimensionare questo stramaledettissimo troppo amore e a
ricondurlo all'interno di quei soliti binari che le permettevano di
stare con me, anziché piantarmi nel bel mezzo di un parco
giochi come un idiota.
Andai a
casa sua con una certa
riluttanza, riuscii a suonare il campanello e scoprii che le mie
fatiche erano state inutili, perchè lei non c'era.
Max, il
mio migliore amico, aveva
deciso gentilmente di informarmi che da quando ero stato piantato,
lei aveva un nuovo lavoro che la appassionava moltissimo, a
dimostrazione del fatto che era proprio la mia presenza nella sua
vita che le tarpava le ali. Cantava in un locale. Ma chi gli aveva
chiesto niente!
Non
aveva però abbandonato
la precedente occupazione, quindi decisi di andare a controllare se,
per puro caso, aveva il turno al Crashdown.
Sbirciai
dal vetro, e vedendo
Isabel e Max seduti al solito tavolo battei in ritirata. Non avevo
alcuna voglia di sentirmi i loro compassionevoli occhi puntati
addosso mentre non potevo fare a meno di guardare la donna che amavo
passarmi davanti, e salutarmi con quel sorriso di circostanza che era
solita indirizzare al Signor Nessuno.
Non
ero pronto ad essere il Signor Nessuno, e nemmeno il Signor Siamo
Solo Amici. Piuttosto mi sarei ficcato un tizzone
rovente
in gola!
Rimasi
nei paraggi, comunque,
sbirciando di tanto in tanto all'interno per controllare che lei
fosse lì, e quando finalmente la vidi uscire dalle cucine il
mio cuore accelerò talmente tanto, pompandomi una tale
quantità di sangue al cervello, che la mia vista, per
qualche
secondo, si oscurò.
Avrei
voluto restare cieco, però,
perchè quando cominciai a vedere di nuovo lei era
abbracciata
ad un altro uomo, proprio lì, in mezzo al locale. Rideva
scompigliandogli i capelli, e sembrava felice. Molto più
felice di come la ricordassi.
Volevo
che lo fosse, si supponeva
che questo fosse quello che le persone innamorate desiderano per
coloro cui tengono. Ma non con lui, maledizione, ne con nessun altro!
Improvvisamente
sentii il bisogno impellente di farmi del male e di attizzare quel
rancore che
sentivo
crescere dentro di me ad una velocità impressionante,
così
entrai.
La
guardai dritta negli occhi
mentre ancora stava abbracciando il tizio sconosciuto, e la sua
espressione cambiò. Divenne improvvisamente seria, e si
staccò
da lui.
Restammo
immobili, senza vedere
nient'altro che noi stessi, come se tutto il resto, tutti i clienti,
le cose e le persone che ci stavano attorno fossero scomparse.
Erano
due settimane esatte che non
ci vedevamo e adesso che l'avevo proprio lì, davanti a me,
ero
talmente scombussolato che avevo voglia di piangere.
Tutto
il mio mondo era crollato, ma le macerie fumavano ancora. E quel poco
che rimaneva di intatto eravamo noi, ma la distruzione che ci lambiva
era attraente, calda: era impossibile stabilire quanto ancora avrei
resistito. Avrei voluto andarle incontro, dare un bel pugno nel naso
a quel babbeo che aveva osato toccarla, e abbracciarla per non
lasciarla scappare, per farle capire che qualunque cosa dicesse, la
verità era che lei era mia e di nessun altro.
C'era
quella stessa fiamma nei
suoi occhi, seppure nascosta sotto il disagio evidente che provava
non riusciva a nasconderla. Non a me.
“Maria,
ti senti bene?”, disse la voce del ragazzo.
L'incantesimo
si spezzò
all'istante, lasciandomi svuotato. Lei distolse lo sguardo e gli
sorrise gentilmente. “Si, sto benissimo, non
preoccuparti”,
rispose.
“Sono
felice per te, perchè io ho solo un gran bisogno di
vomitare”,
avrei voluto dirle, ma continuai a rimanere lì impalato,
mentre, come avevo previsto, sentivo chiaramente gli sguardi di Max e
Isabel che mi imploravano di uscire dal letargo.
“Ciao
Michael”, mormorò Maria. “Se ti siedi
vengo subito a
prendere la tua ordinazione”.
Tentai
di salutarla, ma prima
avrei dovuto sputare quell'enorme nodo che mi chiudeva la gola, e in
quel momento non credevo che ne sarei stato capace.
Così
lanciai allo
sconosciuto, che ancora era lì a guardarci perplesso, uno
sguardo truce che sperai fosse degno del più spietato dei
killer, ma che avevo la malaugurata impressione fosse invece solo una
patetica smorfia di dolore, e girandomi battei in ritirata.
“Michael,
aspetta...”, furono le ultime parole che sentii, e
provenivano da
lei, ma rimanere non era una possibilità.
Due
settimane erano passate, tutto
tempo inutile. Tutto tempo che avevo gettato crogiolandomi
nell'inerzia e nell'illusione che mi sarebbe servito ad adattarmi ad
una nuova vita, senza di lei, beandomi nella convinzione che quel
poco tempo sarebbe bastato per permettermi, almeno, di salutarla
senza sentire le ginocchia cedere.
Idiota!
Idiota! Idiota!
Come
potevo essere stato così
dannatamente stupido! In verità non avevo fatto altro che
aspettare senza scopo, sperando che quel tempo fosse servito a lei,
invece, che avrebbe capito che non aveva senso lasciare qualcuno che
diceva di amare troppo! Che era una cosa assurda e basta!
Mi resi
conto che ero io quello
assurdo, invece, e che fra qualche settimana, forse, mi sarei
vergognato di essere stato così codardo da non essere
riuscito
nemmeno a rimanere nella stessa stanza con lei, sapendo che proprio
lì c'era qualcuno che, probabilmente, desiderava
più di
me.
Ma in
quel momento mi sentii come
una pianta malata, ancora viva ma infestata da un parassita che la
stava uccidendo piano, lento ma inesorabile, che le stava succhiando
la linfa fino all'ultima goccia, finchè sarebbe rimasto solo
un involucro privo di contenuto.
Era lei,
il mio contenuto, e
l'avevo persa.
Camminai
per le strade di Roswell senza meta precisa, con l'unico intento di
non tornare a casa. Non avevo fatto nulla per cancellarla da
là,
avevo ancora molti suoi vestiti nell'armadio, che non era tornata a
prendere, e una gran quantità di creme e boccette nel bagno.
E
se avessi lasciato tutto così per sempre? Forse avrei potuto
cambiare appartamento e lasciare che fossero i nuovi inquilini a
liberarsi di tutto!
Non
aveva nemmeno più senso avere due lavori, adesso che non
avevo
più Maria.
Non
mi resi nemmeno conto che, ironia della sorte, o molto più
probabilmente grazie alla mia indole spiccatamente autolesionista, le
mie gambe mi avevano portato proprio al famigerato parco giochi dove
tutto era successo.
Mi
sedetti sulla stessa panchina, mi immaginai con lo stesso mazzo di
stupidi fiori tra le mani, e sentii il cuore sprofondare verso i
piedi. La vita faceva davvero schifo!
Una
risata argentina mi colpì all'improvviso, trapassando la
bruma
che mi circondava, e alzai lo sguardo, quasi infastidito dal fatto
che, mentre io mi sentivo così sconfitto, qualcuno potesse
invece gioire a quel modo.
Era
un bambino. Un bambino che stava in piedi in cima allo scivolo come
fosse il re del mondo e nulla di male potesse toccarlo
finchè
stava lassù. Ma nulla di male lo aspettava una volta
arrivato
in basso, solo le braccia tese di sua madre che attendeva paziente
che si decidesse a scivolare giù.
Avevano
davvero un'espressione serena, e la luce del pomeriggio giocava sui
loro volti come se volesse danzare in onore della loro gioia.
E
per un momento non mi sentii più così solo. Era
quello
che vedevo nei loro occhi a scaldarmi il cuore, riempiendomelo come
una rivelazione che non credevo di poter avere nel mio stato.
L'amore
non era scomparso, aveva solo deciso di prendersi una pausa. Per me
l'amore era Maria, ma per quella donna l'amore era il suo bambino, e
per lui l'amore era tutt'attorno, nello scivolo, nell'altalena e
nelle braccia di sua madre.
Io,
il mio, l'avevo perso. Potevo cercare di prendere un po' di quello
degli altri.
Mi
alzai, e con una nuova curiosità cominciai a guardarmi
attorno. Non ero affatto solo come credevo, il giardino era pieno di
gente che camminava, che chiacchierava, che leggeva sdraiata sul
prato o che, semplicemente, pensava.
Avevo
bisogno di un po' della loro vita, ora che la mia era così
vuota, ma non sapevo come fare a rubarla.
Trascorsi
circa un'ora in quel posto, poi mi decisi a tornare a casa. Avevo
fame, perchè a dispetto di tutto, almeno questo, tra i miei
bisogni primari, non mi aveva tradito. Pensai di andare a cucinarmi
un piatto di maccheroni ma poi ricordai che proprio qualche giorno
prima avevo gettato lo scolapasta nell'immondizia
e che non ne avevo ancora comperato uno nuovo.
Non
avevo nulla da fare, non c'era
momento migliore di quello per lo shopping. Arrivai davanti al
negozio di casalinghi, ma proprio mentre stavo per entrare notai la
vetrina a fianco e rimasi incantato a guardarla.
Possibile
che... possibile che
fosse proprio lì la risposta alle mie domande?
Entrai e
cominciai a guardarmi
attorno con curiosità. Non avevo la più pallida
idea di
cosa cercavo, tutto quello che sapevo era che forse, lì
l'avrei trovato.
“Posso
aiutarla?”, disse il commesso. Mi voltai a guardarlo, e lui
mi
sorrise. Era un uomo sulla cinquantina, magro, con una luce
intelligente negli occhi.
“Cercavo
una macchina fotografica”, dissi, anche se immediatamente mi
parve
una risposta piuttosto stupida, considerato il fatto che quello era
un negozio che vendeva quasi esclusivamente macchine fotografiche.
L'uomo
mi sorrise divertito. “E'
nel posto giusto, allora! Che tipo di macchina cerca?”
Ottima
domanda! “Non saprei.
Deve fare delle belle foto, però.”
Lui mi
squadrò un momento,
poi aprì una vetrina con la chiave ed estrasse un paio di
apparecchi fotografici, appoggiandoli sul bancone.
“Questa”,
disse, indicando la prima, “è una NikonCoolpixP3,
con mirino
ottico 3 x e mirino digitale 4 x. Ha una buonissima definizione,
circa 8 megapixel. Viene 300 dollari”.
Annuii
senza avere la minima idea
di quello che aveva detto. “E quella?”, chiesi,
indicando l'altra
macchina che aveva tirato fuori.
“Questa
è più professionale. OlympusE400, mirino
elettronico e
una risoluzione di 10.8 megapixel. Viene 650 dollari. Ma credo che
per lei potrebbe bastare una macchina come questa”, disse,
indicando la prima che mi aveva mostrato.
“Questa...la
Olympus...è migliore, vero?”, gli domandai, anche
se, a
giudicare dal prezzo, almeno in teoria avrebbe dovuto esserlo.
“Certo,
ma di solito la acquistano fotografi più esperti”,
mi
rispose.
“Perfetto,
allora la prendo”, dissi, alla faccia dei buoni propositi di
risparmio.
L'uomo
mi guardò perplesso.
“E' sicuro? Posso farle vedere anche altre compatte, se
vuole, ce
ne sono...”
“No,
voglio questa”, dissi, risoluto.
Una
decina di minuti più
tardi me ne tornai a casa con la mia nuova macchina fotografica,
senza avere la minima idea di come usarla.
Guardare
dentro l'obiettivo,
premere un tasto, vedere sullo schermo il risultato. Sembrava facile!
Cominciai a ricredermi verso le quattro del mattino, quando ormai
avevo letto con attenzione più della metà del
manuale
di istruzioni.
Uscii di
casa verso le sei, con
gli occhi gonfi e un nuovo scopo.
Tutto
era silenzioso, e i colori
dell'alba stavano cominciando a lasciare il campo ad una giornata
luminosa.
Il primo
soggetto che immortalai
fu uno spazzino che sollevava la scopa svogliato e canticchiava un
motivo con le cuffie del suo lettore Mp3 nelle orecchie.
Mi
domandai se anche io avevo
quegli stessi occhi sognanti, persi chissà dove nella
moltitudine di pensieri che mi si accavallavano in testa, ogni volta
che giravo un hamburger al Crashdown.
Adesso,
tutti i miei pensieri
andavano a Maria. Forse anche prima erano per lei, ma non me ne
rendevo conto.
Camminai,
camminai senza posa,
immortalando uccelli posati sui cornicioni, un gatto in agguato su un
albero e un uomo che portava a spasso il cane.
Cominciai,
giorno dopo giorno, ad
uscire in orari diversi per andare nei posti più disparati.
Col passare del tempo mi resi conto che erano i visi della gente
quelli che mi attraevano davvero, e passavo ore e ore davanti allo
schermo del computer, cercando di carpire ogni minima espressione,
tentando di leggere nelle rughe di ognuno uno stato d'animo, un
pensiero, un desiderio o una speranza.
Decisi
che era arrivato il momento
di liquidare il mio lavoro da cuoco, era quello alla Metachem che
avrei mantenuto, così andai al Crashdown.
Entrai
dal retro, come facevo
sempre quando dovevo iniziare un turno, e vidi Maria nell'ufficio del
signor Parker. La porta era socchiusa, così mi avvicinai
senza
che loro potessero vedermi.
“Quella
talent scout, Dominique, mi ha chiesto di incidere un demo”,
diceva
lei, e sentivo la gioia forte e chiara nella sua voce.
“Ma
è magnifico Maria!”, aveva risposto Jeff. Doveva
essere
davvero felice per lei, la considerava quasi come una figlia.
“Già,
magnifico. Solo che...solo che dovrò andare a New York per
un
periodo, quindi...”.
Non
sentii più nulla di
quello che si dissero poi, solo un nome continuava a rimbombarmi
nella testa. New York...New York...New York...
Non mi
resi nemmeno conto che
erano usciti, finchè la voce di Maria mi riscosse.
“Michael”,
mormorò.
Dio, era
da così tanto che
non la sentivo pronunciare il mio nome in quel modo...come se le
mancassi.
Non
potei fare a meno di scostarmi
bruscamente quando mi toccò il braccio. Non ero pronto, non
ancora. Vidi il dolore dipingersi sul suo volto, e capii di averla
ferita, ma non potevo fare altrimenti. Le mie, di ferite, erano
ancora troppo, troppo profonde per potermi preoccupare delle sue.
“Hai
il turno? Non me n'ero accorta”.
“Non
ho il turno, sono qui per licenziarmi”, le risposi, freddo.
Lei
spalancò gli occhi.
“Perchè?”
“Non
sono affari tuoi”.
Si
irrigidì, e gli occhi le
si inumidirono. Avrei voluto fotografarla adesso, avrei voluto avere
il tempo di studiare quella emozione impressa sul suo volto e di
domandarmi il perchè era stato così facile, per
me,
farla sentire in quella maniera, solo con una semplice risposta
sgarbata.
“E'
per causa mia, vero? Perchè non vuoi vedermi”,
tentò
di dire.
“Ecco
brava. Non voglio vederti, e non ho intenzione di restarmene qui ad
assistere alle effusioni tue e del tuo nuovo fidanzato”,
scattai,
astioso.
“Billy
non è il mio fidanzato, Michael. Credi che potrei avere
un'altra storia dopo così poco tempo che...”
“Puoi
fare quello che vuoi, per quel che mi riguarda. Ti saluto,
tornerò
a parlare con Jeff in un momento migliore”, dissi, e me ne
andai.
Non
riuscii a fare più di
tre passi fuori da quella porta. Avevo le gambe pesanti, e il cuore
era un macigno difficile da trasportare. Così rimasi seduto
per terra, nascosto dietro il bidone dell'immondizia, e aspettai,
aspettai nemmeno io sapevo cosa, finchè non la vidi uscire.
Allora mi alzai in fretta e la seguii in silenzio fino al parcheggio.
Fece
scattare la serratura della
macchina col telecomando, ma poi si appoggiò alla portiera,
e
col viso tra le mani cominciò a piangere.
Fu
allora che lo feci. Uno scatto,
poi due, tre, cogliendo ogni piccolo movimento.
Fu
allora, quando credevo che
tutto fosse finito, che tutto ebbe inizio.
Cominciai
a seguirla, cercando in
tutti i modi di non farmi scoprire. Sarebbe stato troppo imbarazzante
ammettere davanti a lei quello che stavo facendo, mi ero mostrato
già
troppo debole, era chiaro che quella forte, tra i due, era lei, non
c'era motivo di sottolinearlo ancora.
Potevo
stare solo. Potevo. Dovevo.
E
allora? Che cosa c'era di male
nel voler tenere con me una parte di lei? Rubavo momenti, rubavo
espressioni, proprio come le avevo rubate dal volto dell'altra gente
che era finita sotto l'occhio del mio obiettivo. Che mi presentassero
il conto!
Mi
appostai fuori dal Crashdown
aspettando che uscisse, avevo un'intera cartella sul computer che
conteneva solo immagini di lei in uniforme. Le guardavo, le studiavo
con cura maniacale, come non avevo mai fatto con nessun altro
soggetto.
Ma
dopotutto lei non era una
qualunque, poteva anche avermi lasciato, poteva avermi dimenticato,
poteva provare pena per me e per il modo in cui mi ero ridotto, e per
quanta rabbia tutto questo mi provocasse, non sarebbe mai stata una
qualunque.
Sorrideva
ai clienti, in alcune
foto, ma non veramente. Parlava con Liz, con Max o Isabel in altre,
era serena, apparentemente, ma... ma poi c'erano altre immagini,
quelle in cui era sola, quelle in cui la scintilla mancava nel suo
sguardo, e un'ombra le velava gli occhi.
Probabilmente
era solo stanca,
continuavo a ripetermelo, perchè se non l'avessi fatto,
allora
avrei dovuto correre da lei e costringerla a parlare e a confessare
quello che non andava.
Allora
mi nascosi nei pressi di
casa sua, altre volte, perchè se il lavoro la abbatteva
così,
la faceva apparire spenta, dovevo cercare di coglierla in momenti
diversi, momenti nei quali avrei potuto catturare la vera Maria,
quella che illuminava una stanza col suo sorriso solo entrandovi.
Arrivò
una donna, un
pomeriggio, una che non avevo mai visto prima. Entrò in casa
e
ci rimase per quasi un'ora, poi uscì, e lei e Maria si
strinsero la mano.
Eccolo
lì, quel lampo di
vita che cercavo. Eccolo finalmente, e in un attimo capii cosa stava
succedendo. Quella doveva essere la talent scout di cui l'avevo
sentita parlare, e quell'espressione raggiante apparteneva ad una
persona che stava spezzando le ultime catene che la legavano ad una
vita vecchia, alla quale aveva già chiesto tutto e che le
aveva già dato tutto quello che poteva.
Tornai a
casa e rimasi una notte
intera a guardare quell'immagine luminosa sullo schermo, a cercare di
mandare giù il fatto che io ero stato parte di quella
vecchia
vita, e che ero stato il primo anello che aveva voluto spezzare, il
più debole di tutta la catena.
Faceva
un male del diavolo, e
avrei voluto odiarla per questo, ma non ci riuscivo.
Avevo
sempre coltivato l'illusione
di essere una persona forte, indipendente, in grado di badare a se
stessa. Solo una parte di tutto questo era vera, però. Avevo
sempre coltivato un'illusione. Punto. Tutto il resto erano balle, o
almeno lo erano da molto tempo.
Ogni
giorno mi ripetevo che quella
sarebbe stata l'ultima foto, l'ultima immagine che le avrei rubato,
l'ultimo pezzo di vita che le avrei chiesto in prestito per colmare
il vuoto della mia, ma c'era sempre quello dopo, e quello dopo
ancora, e il mio tempo presto sarebbe scaduto.
Lei se
ne sarebbe andata, e io non
sarei ancora stato pronto a lasciarla.
Così,
una sera, feci
qualcosa in più che promettere. Giurai. A me stesso, ma
soprattutto a lei, che era ancora la cosa più importante per
me.
Le
giurai che quello sarebbe stato
il mio addio.
Andai al
locale dove sapevo
avrebbe cantato, e quando entrai feci attenzione a sistemarmi sul
fondo, dove speravo di rimanere nascosto per tutto il resto della
serata.
Lei non
era ancora sul palco, ma
tra i componenti della band che sistemavano gli strumenti notai quel
ragazzo che la stava abbracciando al Crashdown tempo fa. Quello che
la faceva sorridere al posto mio. Billy, mi pareva si chiamasse.
Il mio
primo istinto fu quello di
andare là sopra, strappargli la chitarra di mano e
sfasciargliela sulla testa, ma non feci niente, invece, rimasi nel
mio angolo e aspettai. Non avevo alcun diritto di fare nulla di
più
che quello.
Poi la
musica cominciò, e
Maria apparve, camminando lenta verso il centro della scena.
Era
così bella, così...
giusta. Quello era il suo posto, non una tavola calda né un
pidocchioso negozio nel quale avrebbe potuto lavorare come commessa.
Lei era
nata per essere una star,
per riempire la vita degli altri con la sua esuberanza, con
quell'eccesso di vita che la rendeva unica.
Così
alzai la macchina
fotografica, inserii il flash e cominciai a scattare.
E mentre
le note della musica
colmavano l'ambiente, e i toni della sua voce non facevano altro che
riportarmi alla mente i mille e mille istanti in cui l'avevo avuta
con me, tutte le volte che avevamo fatto l'amore, o tutte quelle in
cui l'avevo fatta arrabbiare o gioire, sentii qualcosa che cambiava
nel mio cuore.
Ad ogni
click la mia
consapevolezza cresceva, e mi ritrovai perfino a sorridere mentre
continuavo, stupito di quanto fosse facile, e di quanto farlo mi
facesse sentire meglio.
Ero
malato, ferito e abbandonato,
prima che lei decidesse di curarmi. Credevo di essere guarito del
tutto quando fui certo di averla, convinto che la mia vita fosse lei
e io fossi la sua, e non mi domandavo più se là
fuori,
da qualche parte, ci fosse ancora qualcosa in più di
Roswell,
New Mexico. Mi ero sentito distrutto, sconfitto e rifiutato, quando
lei aveva deciso che non ero abbastanza.
Ma
guardare il suo viso, vedere
tutta quella passione dipinta in ogni suo contorno, che riempiva ogni
tratto di colori sfavillanti, mi stava aprendo gli occhi.
Con
tutta la mia attenzione
concentrata sul piccolo schermo della macchina fotografica, mentre
l'obiettivo puntava su Maria, ebbi la netta impressione che anche i
suoi occhi fossero fissi su di me. Alzai lo sguardo e la vidi
guardare nella mia direzione. Mi venne da sorriderle, mi trattenni a
stento dal farle un cenno con la mano e me ne andai subito.
Avevo
visto tutto quello che c'era
da vedere, non c'era più motivo di stare lì.
Ancora
una volta, in una maniera
che non mi sarei mai aspettato, era stata lei ad aiutarmi a fare si
che quello che mi ero ripromesso diventasse realtà, e non
rimanessero invece solo parole vuote.
“Addio
Maria”, mormorai, il mio cuore era stretto, ma non era solo
dolore
quello che provavo.
La prima
cosa che feci quando
rientrai fu scaricare le foto sul computer, per rendermi conto se
quello che avevo visto in lei era vero, se riguardando quelle
immagini tra un po' di tempo, tanto tempo, probabilmente, sarei
riuscito ancora a vederla.
Cominciai
a saltare di cartella in
cartella, ritagliando tratti, profili, espressioni impresse sul suo
volto in tanti momenti diversi, sempre diverse, come era diversa lei
in ogni attimo della sua vita.
Ma le
foto che le avevo fatto
quella sera...
Una, in
particolare, mi colpiva.
Cantava tenendo gli occhi chiusi, la fronte aggrottata nello sforzo
di interiorizzare ogni singola frase, ogni parola che usciva dalla
sua bocca.
Sembrava
parlare di noi, quella
canzone, di quanto ci eravamo amati e di quanto era stato difficile
imparare a farlo. Di quanto era stato doloroso, poi, separarsi per
cercare di ritrovare ciò che nel tentativo era andato
perduto.
La propria unicità, e con essa la voglia di ricominciare.
Non
avevo stampato praticamente
nulla di tutto ciò che avevo fotografato in quel periodo, la
carta patinata costava davvero tanto, e la pazzia l'avevo
già
fatta quando avevo comperato la macchina. Ma quella dovevo averla,
volevo poterla tenere tra le mani, sarebbe stata più reale,
così, forse non mi sarebbe sembrato tutto solo un sogno.
Quando
suonò il campanello
guardai l'orologio stupito. Era quasi l'una di notte, non capivo chi
poteva essere a quell'ora. Max aveva smesso di dormire sul mio divano
da un po', ormai, ma se fosse stato lui l'avrei sbattuto fuori. Non
era la serata adatta, non avevo ancora esaurito il bisogno di stare
solo, per quanto la cosa potesse sembrare assurda detta da me, che
non avevo rapporti diretti con esseri umani ormai non sapevo
più
da quando.
Fu per
questo che quando me la
ritrovai davanti tutto ciò che riuscii a fare fu trattenere
il
fiato e guardarla con un'espressione da baccalà che avrei
immortalato volentieri per farmici sopra qualche risata nei momenti
bui.
Maria
non rise, però, mi
guardò e basta, per un lunghissimo, imbarazzante momento.
“Ehi”,
riuscii a dire, alla fine.
“Ehi...mi
fai entrare?”, disse lei.
Un
sì appariva la cosa più
semplice da dire, ma pronunciare quelle due lettere sembrava una
delle imprese più faticose che avessi mai affrontato in
tutta
la vita. Così me lo risparmiai e mi feci semplicemente di
lato, lasciandola passare.
Lei
entrò e si guardò
attorno, mascherando un mezzo sorriso.
“Scusa”,
dissi, raccattando vestiti gettati a caso sul divano e spostandoli
sulla sedia creando così un mucchio informe.
“C'è un
po' di disordine”.
“Vedo”,
ridacchiò lei, “non è cambiato molto,
qui”.
“Se
lo dici tu”, mormorai. Lei abbassò lo sguardo e si
sedette,
posando le braccia sulle ginocchia e stringendo le mani.
E di
nuovo quel silenzio. Perchè
era lì, maledizione! Proprio quando avevo trovato il
coraggio
di salutarla...
“Ti
ho visto al locale, stasera”, disse lei, piano.
“Oh.
Be', mi dispiace, io....non so perchè sono
venuto”, risposi,
mentendo sapendo di mentire.
“A
me no”.
Alzai la
testa di scatto. “No?”
Mi
sorrise e si spostò un
po' di lato lasciandomi lo spazio per sedermi accanto a lei, ma io
non mi mossi.
“Vieni
qui, ti prego”, mormorò.
“Io...devo
andare in bagno”, dissi in fretta, e scappai letteralmente,
chiudendomi nell'altra stanza.
Mi
guardai allo specchio e non riuscii a riconoscermi. Ero davvero io
quello? Purtroppo la risposta che mi diedi fu affermativa. Mi
sciacquai la faccia, afferrai un asciugamano, tamponai
le gocce e me lo misi dietro al collo.
Certo
non potevo restare chiuso lì
dentro per tutta la notte, e conoscendola, Maria non se ne sarebbe
andata. Non era quella che si poteva definire una ragazza che si
lascia ignorare!
Così
tornai in soggiorno e
la trovai ancora seduta sul divano, ma stringeva tra le mani la
fotografia che avevo stampato pochi minuti prima che arrivasse.
Dannazione!
Lei mi
guardò, e battendo
il posto accanto al suo col palmo della mano mi fece cenno di
sedermi. Di nuovo. E stavolta lo feci.
“L'hai
scattata stasera durante il concerto?”, mormorò,
continuando
a guardarla.
“Si”.
“E'...è
bella”.
“E'
come sei”, dissi io.
“Michael,
devo dirti una cosa”, proseguì lei. “Fra
poco partirò
per New York. Una talent scout mi ha sentita cantare e mi ha proposto
di incidere un demo”.
Sospirai.
Era inutile che fingessi
di essere stupito, mi conosceva troppo bene per crederci. “Lo
sapevo già. Il giorno che ci siamo incontrati al Crashdown
ti
ho sentita mentre parlavi con Jeff”.
Lei non
rispose, continuò
semplicemente a fissare la foto, come se stesse aspettando che io
finissi di parlare. Ma che cavolo voleva che le dicessi? Era la mia
benedizione quella che voleva? Grazie e tanti saluti? Perfetto!
“Buona
fortuna, allora”, dissi, tentando di non far trapelare troppa
amarezza. Durante quella serata avevo capito delle cose, ero riuscito
a raggiungere un compromesso con me stesso cui sarebbe stato
più
facile mantener fede se lei non fosse venuta, ma che valeva un altro
piccolo sforzo di volontà. Per tutti e due.
“Tutto
qui? Buona fortuna?”, disse lei, alzando la testa.
Avevo
sbagliato risposta? “Ti ho
sentita cantare, stasera. Sei davvero brava, quindi sì.
Buona
fortuna. Te la meriti”, annuii.
Si
alzò con un movimento
così repentino che mi spaventai a morte.
“Sai
che se vado a New York c'è la possibilità che
rimanga
là, se le cose andranno bene, vero?”
“Certo
che lo so”, risposi. Sentivo un nodo allo stomaco, ma non
capivo
dove voleva arrivare. Non c'era alcun bisogno che me lo ripetesse,
erano giorni e giorni che cercavo di fare i conti con quel pensiero.
“E
va tutto bene, per te?”
Mi alzai
anche io dal divano e mi
avvicinai a lei, che però continuava a darmi le spalle.
“Che
cosa vuoi da me, Maria? Spiegamelo, per favore, perchè non
riesco a capirlo!”
“Non
lo so cosa voglio! Non un buona fortuna,
però!”
“Vuoi
che ti auguri di fallire, allora? Perchè sarebbe molto
più
facile per me, te lo assicuro!”
Avevo
alzato parecchio il tono di
voce, ma stavo cominciando a perdere la pazienza.
Anche
lei, però, non
sembrava da meno. “Be', almeno saprei che te ne importa
qualcosa!
Saprei che non vuoi che io me ne vada!”
“Ti
devo ricordare che sei tu quella che mi ha lasciato? O hai bisogno
che ti rinfreschi la memoria?”
Stavo
gridando, ormai.
“Lo
so, maledizione! Lo so che sono io ad averti lasciato! E mi manchi!
Ogni stramaledettissimo giorno!”, esclamò lei.
Inspirai
profondamente per
ritrovare una parvenza di calma e tornai a sedermi, con la testa tra
le mani. Solo qualche giorno fa avrei fatto chissà cosa per
sentirla parlare così, avrei smosso mari e monti per farla
restare, ma adesso...
“Sei
pazzesca, veramente! Non puoi fare e disfare le cose a tuo
piacimento, te ne rendi conto?”
“Perchè
è troppo tardi? Perchè ti ho fatto stare troppo
male?
Perchè, Michael?!”
“Perchè
avevi ragione tu, Maria, e adesso non si può tornare
indietro”, le dissi. Dannato me e la mia maturità!
Stavo
molto meglio quando mi comportavo come un idiota!
“No!
Non avevo ragione! Ho sbagliato tutto, invece! Quando ti ho visto al
locale, stasera...ho capito, Michael! Il pubblico, cantare...non
aveva più senso niente, vedevo solo te. E poi te ne sei
andato, e mi sono sentita...non lo so...inutile!”
Scossi
il capo, incredulo. Come
era possibile che due persone potessero vedere la stessa cosa in
maniera così differente!
“Vieni
qui, per favore”, la chiamai. Lei si avvicinò
lenta, e io le
afferrai un polso forzandola a sedersi di nuovo accanto a me.
“Guarda”, le dissi. “Guarda questa foto.
Dimmi cosa vedi”.
Lei si
concentrò un momento
sull'immagine, poi, con gli occhi lucidi, guardò me.
“Vedo
una stupida che canta una canzone credendosi una diva”,
disse.
“Allora
ti dirò una cosa. Comprati un paio di occhiali,
perchè
non è quello che vedo io”, esclamai.
“Quello che vedo io è
una donna piena di passione, talmente viva che brillerebbe di luce
propria in una stanza buia! Quella che vedo io non è una
stupida. E' una donna che insegue il suo sogno”.
“Io
non lo so più qual'è il mio sogno”,
mormorò
lei, e una macchiolina più scura si allargò sui
suoi
jeans. Stava piangendo. “Forse quello non è
davvero il mio
sogno, forse è tutta un'illusione”.
“Può
darsi”, sussurrai, “ma non puoi saperlo,
adesso”.
“Ma
so che ti amo, Michael! Non ho mai smesso di amarti!”
Cristo,
probabilmente dovevo avere
Saturno contrario per dover affrontare una prova così dura!
“Era
bella la canzone che hai cantato stasera. L'ultima che ho ascoltato,
quando ti ho scattato questa foto”, continuai.
Lei mi
guardò confusa.
“Si... si, grazie. L'ho scritta qualche settimana
fa”.
“Lo
immaginavo”. Le sorrisi, e prendendole dolcemente il mento
tra le
dita la feci voltare verso di me. “Parla di qualcuno che
conosco?”
Anche
lei sorrise, ma
impercettibilmente, poi nuove lacrime le riempirono gli occhi.
“Dice
cretinate, è stupida come colei che l'ha scritta”.
Scossi
il capo, e col pollice le
accarezzai la guancia, asciugandola. “Dice la
verità, Maria.
Parla del nostro amore, delle difficoltà, della voglia di
stare insieme e di come abbiamo combattuto contro noi stessi per
poterlo fare. Parla del momento in cui abbiamo smesso di cercare
perchè pensavamo di aver già trovato tutto. Parla
del
dolore di rendersi conto che non può durare un amore che
assorbe e disintegra tutti i propri desideri, trasformandoli in
miraggi sempre più sbiaditi, e poi in rimpianti”.
“Io
non rimpiango niente, Michael. Niente! Rifarei tutto daccapo per
stare con te!”
“Anch'io
rifarei tutto d'accapo! Anzi, lo rifarei meglio, se potessi! Ma non
si può!”, esclamai. Era tutto così
difficile, così
dannatamente difficile!
“Posso
ancora tirarmi indietro! Dire a Dominique che mi sono sbagliata, che
non se ne fa niente!”
“No!
No che non puoi!”, sbottai, riscuotendola. “Tu devi
andare,
Maria! Ascolta la tua...la nostra canzone! C'è una speranza,
non la vedi?”
“Per
noi?”, mormorò, scossa.
“Si.
Per noi! Ma non se restiamo così! Non se lo stare insieme
deve
significare annullarsi, rinunciare. Tu non devi rinunciare! Io non
devo rinunciare!”
“E
se troveremo la nostra strada, ritroveremo anche noi stessi”,
mormorò lei.
Le
sorrisi e annuii. “E' così
che dice la canzone”.
Maria
prese le mie mani tra le
sue, e mi baciò le nocche. “Ok”,
sospirò.
“Ok”,
sospirai io. Non era rimasto molto da dire, ormai. Stavo male, ma ero
anche orgoglioso di me stesso. Mi alzai e la aiutai a fare lo stesso.
“E'
ora di salutarci, vero?”, disse lei.
“Credo
di si”, le risposi, mentre il groppo nella mia gola assumeva
proporzioni epiche.
Stringevo
ancora la foto tra le
mani ma lei la prese. “Posso tenerla? Voglio ricordarmi del
modo in
cui mi guardi”, disse piano.
“Certo.
E tua”. Ero sicuro che anche la cicatrice lasciata da quella
ferita, alla fine sarebbe guarita, ma ci sarebbe voluto molto tempo.
Aprii la
porta e lei uscì.
“Michael...”, mormorò, e un momento dopo
le sue labbra
erano sulle mie, e le sue mani mi accarezzavano le guance dolcemente.
Durò poco, lo spazio di un minuto, ma sarebbe stato quello
il
mio ricordo di lei.
Tutti e
due eravamo in quel bacio,
era pieno del nostro amore, di quello che avevamo significato e che
significavamo ancora l'uno per l'altra. C'era la paura dell'ignoto,
la paura di perdersi per la strada, la paura di non riconoscersi
più.
E poi
c'era la speranza. Quella
che sarebbe andato tutto bene, alla fine, e che una volta di nuovo
insieme sarebbe stato per sempre.
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