When
Angels deserve to die
Un Angelo, la prima volta che la vidi – un Angelo.
Io non avevo mai creduto agli angeli, né ai diavoli.
Né a dio né agli dei.
Io credevo nell’Uomo e nella sua volontà di
potenza.
Credevo anche che non tutti gli uomini fossero uomini allo stesso modo:
semplicemente, accade che alcuni lo siano più degli altri.
Credevo nel dominio dell’uomo sull’uomo.
Governatori e Governati. Io appartenevo alla prima casta.
Io credevo a ciò che le mie mani potevano toccare,
afferrare, imprigionare nella loro stretta, possedere. Credevo a
ciò che i miei occhi scrutavano, indagavano, penetravano,
facevano proprio.
Non credevo agli angeli.
Poi i miei occhi me ne mostrarono uno: Toh, mi dissero, guarda –
e io guardai. E il ghigno mi scivolò via dalla faccia,
perché non avevo mai visto nulla di così bello e
irreale, al limite della sofferenza.
Non credevo agli angeli.
Finchè le mie mani non ne sentirono uno, sulla pelle: Ecco, mi dissero, ora sai cosa si prova a toccare
un angelo. E non mi stancai di toccarla per molto,
moltissimo tempo. Sarei potuto invecchiare secoli e secoli e attendere
con tranquilla indifferenza la Morte, purchè
nell’attesa mi fosse stato concesso di continuare a toccarla.
Avevo sempre proclamato che non esiste dio, se non nell’uomo;
che ogni uomo è dio di se stesso.
«Se vuoi
trovare dio, non cercarlo da qualche parte lì fuori; non si
nasconde nei simulacri e negli idoli dorati, nell’incenso
bruciato sugli altari e nei sacrifici, nei canti e nelle preghiere
inascoltate se non dagli uccelli. Guarda dentro di te e lo troverai.»
Ed ecco sopraggiungere il terremoto che aveva scosso le fondamenta del
mio spirito, la bufera che aveva reso pericolanti le mie inossidabili
convinzioni.
Io avevo visto e toccato dio; lo avevo avuto tra i miei occhi e le mie
mani – una
sua creatura, che equivaleva alla deità in persona.
Dovevo dunque ricredermi? Dovevo inginocchiarmi e adorare la
rappresentazione della sua grandezza, accettare la prova della sua
esistenza, riconoscere un Principio più alto
dell’Uomo e rinunciare all’attuazione dei miei
progetti?
A lungo vagai nella landa dell’incertezza, spazzato dal vento
del dubbio, nell’oscurità più totale.
Per la prima volta, la Ragione mi deludeva. La mia Fede
nell’intelletto umano – l’unica mia vera
fede – veniva meno. Ero tradito dal mio stesso Scopo.
Se lei non era un Angelo – cosa di cui cercavo
disperatamente, con rabbiosa caparbietà, di convincermi
– allora gli Angeli non esistono.
Non avevo mai sperimentato nulla pari alla sua timida bontà;
la sua innocenza non aveva età, la sua fiducia sconfinata
era così assoluta da lasciare attoniti.
Era una goccia di cera rappresa, scivolata giù dalla candela
della somma conoscenza; una lacrima piovuta dal Paradiso a smuovere lo
stagno buio dei miei tetri pensieri: era bastata una goccia a
sconvolgere in profondità i miei piani; con la violenza di
un maremoto si era abbattuta sulle rive, schiantando gli argini,
riversando intorno un inferno dilagante.
Per la prima volta mi dibattevo nel dubbio, e nell’incertezza
annegavo.
Si era sgretolata all’improvviso la roccaforte –
che credevo salda e inespugnabile – su cui mi ero elevato, a
dominare la solitudine del mare che mi circondava, specchio della mia
grandezza unica, a guardare dall’alto i miei simili,
così inferiori, sballottati dalle acque, senza
volontà, in attesa di un barcaiolo pietoso che li
trascinasse a riva.
E ora avevo scoperto che quel baluardo in cui mi ero trincerato,
facendomene scudo di orgoglio e motivo di vanto, era solo uno scoglio e
una tempesta più forte delle altre lo aveva travolto.
Io ero stato abbattuto. Io che mi ritenevo invincibile, inarrivabile,
invulnerabile.
La marea aveva lottato contro la mia fiamma distruttiva, ma non
c’era stata battaglia: l’aveva sommersa di un manto
liscio e fremente.
Un gran fumo si era levato dalle macerie del mio io.
Per un po’, dell’aspra lotta, del mio dilaniarmi
interiore, del morso del dubbio, del digrignare dell’orgoglio
sconfitto, non era rimasto che un velo di fumo, teso su una calma
oceanica e sconosciuta che si era insinuata nei miei sensi. Non li
aveva anestetizzati, no
– sentivo
ancora.
Era solo un diverso modo di sentire: più pacato, meno
arrabbiato; più lucido, meno offuscato dall’odio.
Per la prima volta mi arrischiavo a sfiorare una nuova prospettiva di
vita.
Non ero più il Chirurgo del mondo, deputato a mondarlo delle
sue imperfezioni, a resecare il marcio, a restituire
all’Umanità un corpo di nuovo perfettamente
funzionante. Ero adesso il paziente disteso sul tavolo operatorio,
illuminato dalla luce impietosa di un essere ignoto e terribile, il
sommo Aguzzino di cui mi rifiutavo di riconoscere
l’esistenza, pronto a lasciarmi aprire ed esporre organo per
organo, rovistare all’interno, farmi rattoppare dopo
l’eviscerazione.
Ero dall’altra parte, ora: non più con i
Governatori, ma con i Governati.
Mi ero sbagliato, dovevo riconoscerlo; il mio orgoglio doveva tacere.
Mi ero sbagliato: gli Angeli esistono. E se esistono gli Angeli esiste
anche dio –
e quel dio non
sono io.
Eppure lo vedevo riflesso nei suoi occhi di luce, ogni volta che mi
guardava. Attraverso di lei intravedevo quella beatitudine che sarebbe
sempre stata fuori dalla mia portata.
Lei mi rivelava a me stesso in quella luce divina da me tanto agognata;
guardandomi con i suoi occhi vedevo il compiersi del processo in atto,
il concretizzarsi del mio ideale, l’ultimarsi della creazione
del mio archetipo.
Solo nel suo sguardo mi realizzavo come la divinità che
ambivo ad essere. Una divinità immanente, terrestre, che non
aveva nulla di celestiale, o di metafisico, o di ultraterreno. Una umana
divinità.
Non l’ho mai amata.
Lei è stata solo una giornata di sole, limpida, meravigliosa
e perfetta, in una vita di tempeste.
Una bianca conchiglia del cristallo più fragile, luccicante
sulla battigia per qualche minuto, prima di essere risucchiata al largo
dalla risacca furiosa.
È stata solo una parentesi –
piacevole, insolita, travolgente parentesi della mia esistenza, niente
più.
Anche se non fosse morta, non avrebbe avuto alcun posto nella mia
vista. Non c’era spazio per lei, pur se di spazio
ne occupava così poco.
Se fossi stato capace di amarla, sarei potuto diventare un uomo
migliore. Non potevo correre il rischio.
Sarei potuto venire a più miti consigli; sarei stato meno
drastico nelle mie decisioni, meno inclemente nei miei giudizi, meno
cieco nelle mie azioni, meno egoista nei miei sentimenti.
Da lei mi sarei imbevuto di pietà, comprensione, dolcezza.
Avrei smesso di voler desiderare di guidare gli uomini, mi sarei
limitato a indicare loro il cammino con una mano. Da uomo
d’azione sarei diventato uomo di pensiero, un predicatore, un
umile filosofo, un passivo interprete della vita.
Mi sarei spogliato dell’armatura del guerriero, del creatore
di nuovi valori.
Meditare e discutere senza alzare un dito è roba da filosofi
e ai filosofi io la lascio, così credevo. Solo gli inetti
ragionano e blaterano, solo coloro che non sono capaci d'altro. I veri
uomini agiscono; rovesciano regimi per instaurarne altri, espugnano
fortezze per rinforzarle, abbattono despoti per sottrarre loro lo
scettro.
Gli straccioni che si reputano “pensatori”
ammorbano l’aria delle loro ciance pestilenziali, avvelenano
le orecchie, instillano accidia nei cuori. Tessono dorate trame di
parole infiorate, imprigionando il mondo in una parafrasi mediocre,
invitando all’accettazione, esaltando la
passività, lodando la remissività. Tu devi! strillano,
dunque piegati al tuo
dovere.
Le loro parole sono vuote; non si rendono conto che non
c’è poesia nella storia: di qui la ridicola recita
della loro parafrasi.
La storia è fatta di guerre per il potere, lotte di classe,
conflitti di interessi; la storia è scritta in una prosa
arida e scarna che da tempo ha ceduto il superfluo, il retorico, gli
eufemismi, i fiori della poesia. E’ di una crudezza che
offende quasi nella sua banalità, nella sua logica ferrea
intinta nel sangue di innocenti.
Ma non esistono innocenti, se uno solo, o dieci, o mille sono
sacrificati per il bene di tanti, di tutti.
Ad alcuni tocca questa sorte; è una triste
necessità, perché sia realizzato
l’Ideale.
Non esiste il sacrificio, è un’invenzione di
quegli odiosi sofisti. Se fosse per loro, dovremmo ritirarci in un
angolo, cospargerci il capo di cenere e pregare il Cielo che ci scansi
da ogni male e, mentre questo ci piove addosso o colpisce i nostri
vicini, restare a guardare, continuare a pregare e non fare nulla.
Avrei dovuto rinunciare al mio Scopo, se l’avessi amata.
Avrei dovuto mescolarmi alla fila di uomini senza pregi né
difetti di nota, avrei iniziato a inchinarmi con gli altri, a pensare
come gli altri; la mia individualità sarebbe stata
soffocata, il mio ego ucciso, la mia natura violentata, quel millesimo
di geni che mi rendeva diverso da ogni altro non avrebbe contato
più nulla. La mia voce sarebbe stata soverchiata dalla folla
urlante.
Nella massa acefala e informe il mio nome sarebbe stato solo un nome, e
io uno fra tanti. Non potevo permetterlo.
La guardavo, insistentemente
continuavo a guardarla, rimuginando tra me e me questi pensieri, avido
di carpire il segreto dietro la sincerità, impaziente di
cogliere la malizia dietro l’innocenza. Avrei così
avuto un pretesto per ribellarmi –
ma non ce l’avevo.
La guardavo e vedevo un germoglio tenerissimo che cresceva a stento,
bruciato precocemente dalla vampa di un sole spietato prima
che potesse schiudere i suoi boccioli.
Mi incuriosiva; mi attirava. Mi chiedevo come fosse possibile che un
essere così debole, così esposto agli insulti, al
danno, privo di scorza, senza strumenti di difesa né di
offesa, potesse sopravvivere in un mondo di lupi, in terra di nessuno.
Ho sempre disprezzato i deboli, e lei era la creatura più
debole su cui avessi mai posato lo sguardo. In genere non li vedevo
nemmeno, non mi curavo di loro, passavo oltre. Ma quella volta in cui i
miei occhi la sfiorarono, riconoscendo in lei la prova palese della sua
debolezza e fecero per andar via, scoprii di non poterlo fare, di
essere mio malgrado incollato e vincolato a quella creatura.
Già allora avrebbe dovuto sembrarmi strano
quell’attaccamento immotivato, avrei dovuto scavare nel mio
animo, indagare più a fondo il mio cuore, interrogarmi su
cosa mi attirasse in quell’esserino che mai avrei potuto
stimare, ma solo soggiogare.
Questo, era proprio questo
ad affascinarmi? Il desiderio di esercitare un potere assoluto su una
creatura così indifesa, la peggiore delle perversioni
conosciute, quella della vanità, dell’ego che si
accresce con il dominio altrui? Attingere al suo spirito innocente per
irrobustire il mio? Come può il forte ricavare forza dal
debole, se non dalla sua sottomissione? O forse volevo impregnarla di
me, vedere lo specchio luminoso dei suoi occhi cangiarsi in grigio
sporco e poi in nero maledetto, diventando torbido riflesso del mio?
Non avevo ancora un piano preciso su di lei; le mie intenzioni erano
ancora soltanto fumo e ombre vaghe e agitate, ma davo per scontato che
ne sarei uscito vincitore.
Sì, ero certo di poter far mio quel piccolo Angelo che avevo
considerato così innocuo; invece era stata lei a farmi suo,
senza fare assolutamente nulla. Semplicemente guardandomi e tacendo,
giorno dopo giorno.
Il suo sguardo e il suo silenzio avevano la costanza alacre della
formica; erano lo stillare dell’acqua sulla roccia, sabbia
che fruscia aldilà del vetro della clessidra. Con
inesorabile pazienza era arrivata fino a me; dopo aver roso alla base
il pilastro della mia persona, tutto il resto era crollato come un
gigantesco domino, rivelandomi per quello che ero: un Golia dai piedi
d’argilla.
Mi ero ritrovato la gola stretta in catene morbide come seta, tessute
di luce. Dove esse tiravano, io andavo; quando le sentivo scrollarsi,
mi alzavo e seguivo il loro tintinnio. Seguivo la sua voce sottile come
un filo, chiara come un mattino d’argento e nel suono terso
della sua risata riascoltavo l’eco di quel Principio sovrano,
da me rinnegato, che sentivo ora guardarmi dall’alto con un
sopracciglio beffardamente inarcato, compiaciuto della mia improvvisa
capitolazione.
Quando mi ero costretto ad ammettere che lei costituiva per me un
pericolo di gran lunga maggiore di quello che ero io per lei,
l’Angelo si era mutato in Demonio.
Lei era il richiamo della rovina, la vertigine del vuoto che attira
verso il nulla, l’unica tentazione alla quale non dovevo
cedere – la
tentazione del Bene, quell’entità estratta che
recava in sé il sapore di tante cose per me eternamente e
consapevolmente perdute: fratellanza, amicizia, comprensione, perdono,
compassione.
Da quando mi ero ridotto così? Perché
l’avevo capito così tardi?
Mi vergognavo di me stesso. Mi giudicavo ferocemente e mi condannavo
senza appello.
Mi ero mostrato più debole di una debole; non ero stato
all’altezza del mio nobile Scopo.
La luce abbagliante di quegli occhioni mi aveva accecato e fatto
perdere di vista il mio obiettivo. Per questo, mi odiavo e digrignavo i
denti, desiderando farmi male.
Mi ero ridotto a ciò che mai sarei dovuto essere. Avevo
perso me stesso dietro l’illusione di qualcosa che non
corrispondeva al vero.
Dunque ero perduto? No, era giunto il momento di ritornare sulla strada
che mi ero tracciato; abbandonare l'inconsistenza della fede, tornare
alla sicurezza della Ragione. Riportare l’Uomo sul suo
piedistallo, restituirgli la dignità. Rovesciare
l’effigie dell’impostore; spezzare le catene –
morbide e tentatrici,
sussurravano dolci cantilene che inducevano a un docile sonno, a una
accidiosa inerzia.
Dovevo lottare, non cedere. Dovevo riaccendere la fiamma che era in me.
Dovetti fare quello che feci, non ho remore ad ammetterlo – dovetti.
Per me stesso e per il Bene Superiore.
Non poteva esserci nulla, nulla,
a frapporsi tra me e il mio Scopo; nessun ostacolo sulla mia ascesa tra
tenebre e fiamme.
Lei doveva morire, non c’era altra soluzione. Doveva morire.
La sua morte era inscritta in un Piano più grande. Che fosse
innocente, poco importava.
Non avevo mai avuto intenzione di colpire Albus.
Il mio amico perdeva tutta la sua saggezza e il suo acume e la sua
perspicacia, quando si trattava di me. Non riusciva a essere obiettivo
nel giudicarmi. Come sua sorella era stata per me, io ero per lui il
raggio che lo abbagliava: non riusciva a sostenere il mio sguardo
troppo a lungo.
Per questo non è mai riuscito a capirmi davvero. Non
è mai arrivato fino in fondo al mio cuore. Non ha mai capito
niente.
Lo amavo di un sentimento così grande e possessivo da
vergognarmene e torturarmi costantemente, ma amavo di un amore ancora
più tenace e superbo e malato lo Scopo. In quanti modi
può amare un uomo? Tanti e uno solo. Ma non dovevo concedere
all’amore per un singolo uomo di sopraffare lo Scopo. Lo
Scopo, prima di tutto. La Missione che mi ero imposto. Il Bene
Superiore.
Non avevo mai avuto intenzione di colpire Aberforth.
Mi era indifferente – una
lumaca attaccata alla punta della mia scarpa. Era rozzo,
insignificante, straordinariamente privo di interesse e di
qualità, rispetto al geniale fratello. Un essere poco
evoluto, dal semplice sentire, primitivo, da pensieri brevi e lineari,
come quelli di un bambino. Dalle ire violente.
Mi divertiva essere spesso l’oggetto delle sue ire. Mi
odiava. Mi detestava di quel rancore tenace e ostinato che si attacca
come una patina e non si scolla più; quell’astio
ottuso che non ammette ragioni, che incattivisce col tempo, come vino
che invecchia in una buia cantina muffita.
Eccome se aveva ragione di odiarmi, anche più di una. Gli
avevo portato via il fratello, e di questo poco gli calava. Ma gli
avevo portato via anche la sorella, e questo non poteva perdonarmelo.
Godevo nell’avvertire i suoi occhietti pieni di livore
trafiggermi, quando credeva che non me ne accorgessi; seguiva
immancabilmente una porta sbattuta con rabbia e il mio riso beffardo
sotto i baffi. Sapevo di essere in una posizione privilegiata,
inattaccabile. E il fatto che un tale insetto mi vedesse come suo
nemico, suo rivale, mi divertiva in modo riprovevole. Sapevo che era
del tutto impotente: ero io suo padrone incontrastato,
perché tenevo per le palle quel suo fratello troppo buono e
troppo intelligente e, con l’altra mano, ero incatenato a
doppio filo con lacci dorati con cui la dolce, ingenua, pazza Ariana
giocherellava distratta, tra le dita sottili e fragili. Quelle dita che
sembravano così delicate quando le stringevo tra le mie che
temevo sempre di farle male. Ma lei non protestava, non diceva nulla.
Sorrideva con i suoi denti ancora di latte e tornava ad offrirmi la
mano. Sempre, me la offriva.
Quando invece stringevo con troppa forza le dita di Albus, lui me lo
diceva.
«Gellert»
diceva piano, e basta. Coglievo il monito. A volte, indispettito, lo
facevo apposta a disubbidirgli e stringevo con ancora più
forza, per sentir sfuggire alla sua bocca un "Gellert" dal sapore
diverso, stavolta, non più di ammonimento ma di supplica. Un
sapore che mi piaceva.
Erano così simili, lui e sua sorella, che mi pareva di
trovarmi intrappolato in un gioco di specchi, prigioniero tra due
riflessi eternamente somiglianti che non cessavano mai di riversarsi
l’uno nell’altro. Gli stessi occhi, gli stessi
colori. La stessa mitezza.
Albus non si è mai accorto di me e di Ariana. Non si
accorgeva mai della sorella.
Non che non le volesse bene. Aveva troppa paura della sua salute
cagionevole, della sua stranezza. Paura che un giorno quella pazzia e
quella stranezza gliel’avrebbero portata via per sempre.
Io, che l’ho conosciuto più profondamente di
chiunque altro, so che Albus la guardava il meno possibile
perché, ogni volta che lo faceva, – me lo avrebbe
confidato lui –, vedeva nel visino scarno della bambina
l’immagine della Morte. E preferiva chiudere gli occhi di
fronte ad essa, almeno temporaneamente.
Vigliacco.
Vile, vigliacco Albus. Sei stato così coraggioso in tante
cose, e così codardo davanti ad altre. Sei stato un uomo, ti
sei rifiutato di diventare un dio. Dentro di te, non hai mai creduto di
poterlo diventare davvero. Hai fatto marcia indietro prima
dell’irrimediabile punto di non ritorno verso cui io ti
spingevo, con sempre maggiore insistenza.
Mi hai tradito anche tu, Albus, come hai tradito tua sorella: le hai
rifiutato la mano, lasciando che sprofondasse nel buio –
nel buio che
ero io.
Avresti dovuto difenderla, ma tu non vedevi niente, quando si trattava
di me. Percepivi la voragine oscura del mio cuore e ti mantenevi
sull’orlo per non precipitare; camminavi al mio fianco
contornando continuamente, ossessivamente, il limite del precipizio.
Quale testimonianza maggiore della tua fedeltà, del tuo
amore, che offrirmi la possibilità, la scusa, di darti una
piccola spinta e precipitarti nel buio per sempre?
Ma io sono sempre stato più esigente, più
sofisticato di questo, Albus. Ecco perché non mi sono
accontentato di te, e ho voluto anche Ariana. Il piccolo Angelo.
Lei era il mio piccolo esperimento, la mia personale resa dei conti col
Bene, con dio, con la menzogna... chiamalo come vuoi.
Aberforth se n’era accorto.
Anche per quello mi odiava. Quello era solo uno dei tanti motivi per
cui ce l’aveva con me, ma era sicuramente il maggiore. Mi
odiava ma non parlava, per non turbarti. Quanto sono ingenue le persone
rozze e sempliciotte; com’è facile prevedere le
mosse degli onesti, degli uomini medi! Sapevo che non ne avrebbe mai
fatto parola. Avevo le spalle coperte. Ero al sicuro.
Alla resa dei conti, Ariana era stata abbandonata da tutta, ma proprio
tutta la sua famiglia. Entrambi i fratelli erano stati incapaci di
proteggerla. Paradossalmente, solo io ero rimasto al suo fianco.
Il mio piccolo Angelo. La mia giornata di sole. Il diavolo innocente.
La mia maledizione. Il pericolo della debolezza. Il rischio del Bene.
Avevo sempre, fin dall’inizio, avuto intenzione di colpire lei.
Quando era caduta, mi ero sentito in pace –
in pace,
sì; era morta. Il suo era solo un altro degli innumerevoli
corpi calpestati e superati nella marcia
dell’umanità verso il proprio perfezionamento.
Era morta; dunque gli Angeli non esistevano, proprio come avevo sempre
sostenuto.
E se non esistevano gli Angeli, non esisteva neppure dio – un
vero dio non avrebbe abbandonato delle sue creature, le avrebbe salvate
– e neppure il diavolo. Esistono solo uomini che fanno male
ad altri uomini.
Le mie convinzioni erano intatte. Avevo superato la prova; mi ero
riconciliato con me stesso.
Avevo sempre saputo, dentro di me, di avere ragione. Era solo questione
di tempo, prima di smascherare la subdola menzogna dalla quale, per un
po’, mi ero lasciato irretire e cullare –
senza crederci davvero, se non per un folle attimo di sbandamento. Ero
rinsavito in tempo; mi ero reso conto che era tutto finto e falso e non
sarebbe durato.
Ora che avevo rimosso trastulli e distrazioni, dubbi e tentazioni,
potevo tornare a dedicarmi, con cuore più limpido e
convinzione ancora più salda, al mio vero Obiettivo.
Gli Angeli non esistono.
Father into your hands
I commend my
spirit
Why have you
forsaken me in your eyes
forsaken me in
your thoughts
forsaken me in
your heart
forsaken me
Trust in my
self-righteous suicide
Why cry when
Angels deserve to die
Sistem of a Down, Chop Suey
Fine
|