Little Talks We Never Had

di MrEvilside
(/viewuser.php?uid=62852)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Little Talks We Never Had
 
I’ll be coming home
Just to be alone
Cause I know you’re not there
And I know that you don’t care
-Home, Three Days Grace
 
Lo zainetto rosso sbatteva sulle sue piccole spalle mentre si faceva strada a forza di spinte e gomitate tra gli altri bambini che affollavano l’atrio della scuola elementare. Quasi lo fece cadere, urtando contro un ragazzino particolarmente robusto, ma riuscì ad afferrare le cinghie prima che scivolassero giù e si trovò di colpo fuori dall’edificio, accerchiato da una folla di madri e padri venuti a prendere i figli alla fine del loro primo giorno di scuola.
Sorrideva nel guardarsi intorno, in cerca di suo padre; a mano a mano che il suo sguardo scivolava su tanti volti e li scopriva sconosciuti, però, il sorriso perdeva corpo, fino a che scorse un uomo che cercava di attirare la sua attenzione con la mano, accanto a una costosa auto nera.
Allora il suo sorriso assunse l’aspetto di una smorfia.
«Jarvis?» esalò in un sospiro quando l’ebbe raggiunto. «Dov’è papà?»
I bambini di sei anni non dovrebbero sospirare, non ancora. Il sospiro è vessillo di rassegnazione, e nessun bambino merita di essere rassegnato a soli sei anni.
Il maggiordomo aprì la portiera posteriore della vettura e si fece da parte. «I signori Stark sono molto occupati, signorino» spiegò in tono gentile, venato di una comprensione che scavava delle rughe nel suo volto anziano. «Mi è stato chiesto di riportarla a casa. Loro torneranno non appena si libereranno dai loro impegni».
Tony si arrampicò sul sedile senza una parola, prese nota delle informazioni ricevute con un unico, rapido cenno del capo, poi si sfilò lo zaino e appoggiò le mani sul bracciolo della portiera, gli occhi affissi su un punto lontano fuori dal finestrino.
Jarvis non parlò lungo il tragitto fino a casa e il bambino gli fu grato per questo: il maggiordomo non gli diceva mai vedrà che la prossima volta verranno e lui non doveva mai fingere di apprezzare quei futili sforzi.
I bambini di sei anni non dovrebbero avere già perso fiducia nei propri genitori. Dovrebbero ancora essere convinti che loro siano invincibili e che non mentano mai.
Tony conosceva bene il silenzio che regnava a villa Stark ogni volta che tornava da scuola.
Per una volta si era permesso di sperare che esso sarebbe stato sostituito dalle voci dei suoi genitori che gli facevano domande sul suo primo giorno di scuola, ma, pur essendo stato deluso di nuovo, provava solo un vago senso di fastidio, non tristezza, perché era abituato a essere deluso, abituato a tornare e non trovare nessuno, abituato ad avere un padre e una madre troppo impegnati per lui – ed era questa la cosa peggiore.
I bambini di sei anni non dovrebbero essere abituati a essere soli.
 
 
Villa Stark era ancora più silenziosa del solito, quel giorno.
Tony stringeva lo zaino in una mano e fissava l’atrio vuoto, ricordando vagamente un bambino di sei anni che faceva la stessa cosa e si confortava figurandosi una stanza colma delle presenze dei suoi genitori.
Lui invece non aveva più neppure la consolazione che il silenzio e la solitudine che albergavano la casa sarebbero stati alleviati da Jarvis, morto con loro nell’incidente.
Le dita serrate sulla cinghia dello zaino lasciarono la presa di colpo e il tonfo provocato dall’urto con il pavimento risuonò assordante nell’edificio vuoto. Tony attraversò i corridoi fino alla sua stanza, afferrò una penna e un foglio di carta e cominciò a stendere un progetto.
Erano tanti anni che non avvertiva più quella delusione che ora gli stava spaccando il cuore e doveva soffocarla concentrandosi su qualcos’altro, altrimenti ne sarebbe stato ingoiato.
Eppure gli adolescenti, alla sua età, dovrebbero averlo ancora intatto, il cuore.
 
 
«Desidera darmi un nome, signore?»
Tony tamburellò le dita sul ripiano del tavolo da lavoro, riflettendo sulla richiesta. Vagliò la possibilità di usare “Howard” o “Maria”, ma quei nomi erano accompagnati dai ricordi di una casa vuota e della consapevolezza di non valere la pena di ignorare il lavoro, anche solo una volta.
Esitò un lungo istante, poi annuì. «Sì. Ti chiamerò Jarvis».




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1362650