Capitolo 24 - Parte 1
Il
buio sembrava essere arrivato prima del previsto quella sera. Per fortuna le
sfavillanti luci delle case e delle strade contribuivano a rendere quella
serata ancora molto lunga. Ticchettava distrattamente con la forchetta sul
piatto, allungando lo sguardo verso la porta finestra della cucina per scorgere
neanche sapeva lui cosa al di là del vetro. – Allora, com’era? –
La
voce del francese lo fece voltare e gli sorrise senza farci troppo caso. – Oh,
squisita. – Ma si rese subito conto che la distrazione lo aveva portato ad
eccedere troppo nella sincerità dei complimenti, quindi tentò di rimediare
goffamente. – Voglio dire, non male. Buona, sì. Direi buona. – Si tappò la
bocca con un’altra forchettata di pesce, sogliola per la precisione. Volendo
essere ancora più esatti, sogliola alla mugnaia.⁽¹⁾ Quindi, seduto com’era sul
marmo del ripiano della cucina, cominciò a dondolare le gambe nel vuoto
sperando di non essersi compromesso troppo. Francis, ben lungi dall’essere
ingannato, sorrise di fronte all’ennesimo tentativo di affievolire le sue abilità
e, sorseggiato un altro goccio di vino bianco, rispose baldanzoso. – Ti
ringrazio tanto, Arthur. – Ostentando una certa forzatura ironica nel tono,
tanto per fargli sapere che l’aveva beccato nel malriuscito auto salvataggio.
Poggiò entrambi i gomiti sul tavolo poco distante e continuò a mangiare a sua
volta. L’inglese preferì un repentino cambio di discorso. – Anche il vino è
buono. Sicuro davvero che lo posso prendere anch’io? – Domandò con insolito
garbo andando a sollevare il bicchiere al suo fianco, per osservarne il chiaro contenuto
alcolico all’interno sotto la luce artificiale della lampada a parete. – Certo!
Te l’ho detto, me l’ha dato mia madre per le feste, quindi se non lo usassi
oggi sarebbe sprecato, non trovi? E poi è così dolce, sarebbe un peccato non
berlo. –
–
Anche il risotto comunque era buono. – Aggiunse Arthur poco prima di scolarsi
il secondo bicchiere. L’altro giovane sorrise, trattenendo una provocazione
gratuita. – Erano ottimi gli scampi, quindi è venuto molto bene e.. – Continuò
osservando dall’alto al basso la figura dell’inglese seduto a gambe all’aria
sulla cucina. – ..vacci piano con quello, buongustaio. Potrebbe farti girare
troppo la testa. – Scosse la testa, come per mandare più facilmente giù quello
che aveva bevuto forse con troppa fretta, posando poi il bicchiere sul ripiano.
– È solo che di solito non bevo vino. – Si giustificò. – Me lo hai detto. Sei
più un tipo da birra o superalcolici, vero? – Domandò retorico il francese
ormai agli ultimi bocconi del piatto. Il suo interlocutore scrollò le spalle,
volgendo lo sguardo all’amico seduto. – Temo di sì. – Si limitò a rispondere
senza colpo ferire. – Lasciati lo spazio per il ratatouille, mi raccomando. Se
non assaggi quello mi offendo. – Concluse con un occhiolino. L’inglese sorrise
di nuovo -forse l’alcool lo stava distendendo un po’ troppo- e finendo l’ultimo
boccone di sogliola rispose mentre ancora masticava. – Tranquillo, ne ho
voglia. Assaggio tutto. – Francis poggiò la schiena all’indietro e sorrise
ampiamente. – Fantastico allora! Così magari riesco a farti mettere su
qualcosa. – Il ragazzo sembrò non capire il riferimento del francese e rimase a
fissarlo con aria di attesa. – Qualcosa cosa? – L’altro biondo alzò in un gesto
morbido le mani come se stesse riflettendo su una risposta. – Non so, un chilo
forse. O uno e mezzo. O magari due, direttamente. – La sua espressione era
pacifica e pertanto l’inglese sospirò un lamento innocuo mentre scendeva
lentamente dal ripiano, tornando con i piedi a terra. – Bah, non ho bisogno di
ingrassare. – Rispose conciso mentre portava il piatto e il bicchiere sul
tavolo, andandosi a sedere di fronte al compagno. – Ma se posso permettermi,
non eri messo tanto bene quando sono arrivato qui dentro. Diciamo che la tua
alimentazione mancava…di qualche elemento, ecco. – Arthur, stranamente ben
disposto al dialogo e con le difese ancora abbassate, decise di interagire. –
Ah sì? E in base a cosa lo diresti? – Domandò poggiando il mento sul palmo di
una mano. – Bé, il tuo frigo era uno spettacolo avvilente. – Trattenne una
risata tra i denti e, senza aspettarselo, il francese poté godere della vista
di una spontanea risata da parte dell’inglese. Sembrava così rilassato; un po’
strano se pensava al fatto che solo alcune ore prima aveva salutato Alfred in
aeroporto. O magari era proprio per quello. – Ahah, sì bé…non è che mi andasse
di impegnarmi poi tanto nel fare la spesa, sai. Tantomeno nel cucinare. – Si
portò una mano alla frangetta, sistemandosi qualche ciuffo. – Per questo ci
sono io, allora! – Esclamò battendo entrambi i palmi sul tavolo e ammiccando con
un altro occhiolino, alzandosi poi per andare a prendere l’altra portata. – Ratatouille!⁽²⁾
- Esclamò come se stesse presentando un ospite importante. Afferrò saldamente
l’ampia ciotola di coccio che aveva lasciato coperta da parte, poggiandola poi
al centro del tavolo e scoperchiandola. Servì per primo Arthur, assegnandogli
un’abbondante porzione, quindi si occupò di sé e infine poté finalmente sedersi
al suo posto. Non poté fare a meno di lanciare qualche occhiata furtiva al
ragazzo per sondarne reazioni ed espressioni facciali. Sembrava andasse bene.
–
Ci saranno i fuochi a mezzanotte. E da qui sentiremo anche il coro e
l’orchestra a New Cross. – Disse l’inglese dopo qualche minuto di silenzio. –
Oh, magnifico. Potremmo uscire e andare a vedere quindi? – Domandò con garbo
Francis, non volendo forzare la volontà dell’altro. Arthur rispose positivo,
con un sostenuto: – Certo. –
C’era
qualcosa che non quadrava del tutto al francese, in effetti. Non che gli dispiacesse
osservare un po’ di distensione negli atteggiamenti del coinquilino e, forse
azzardando, anche un timido buonumore; non era quello. Ma percepiva una certa
mancanza di spontaneità nel suo umore. Aveva l’impressione che stesse cercando
di imporsi un’impacciata contentezza che tuttavia sembrava così distante dai
suoi veri pensieri. Magari stava cercando di sostituire sentimenti più bui con
uno stato d’animo diverso e più sereno. O forse non voleva semplicemente dare a
vedere che disprezzava quel capodanno indubbiamente inconsueto, anzi estraneo.
La fulminante sensazione di essere di troppo e di non essere gradito gli fece
interrompere il pasto per alcuni lunghi istanti, trascinandolo in un limbo
pensieroso dal quale lo trasse fuori lo stesso inglese.
–
Francis? – La sua voce riecheggiò nei timpani del francese, facendolo cadere
dalle nuvole. – Oui?⁽³⁾ –
–
Non ti addormentare per favore, ti vorrei lucido almeno fino al countdown. –
Aggiunse il ragazzo che ormai aveva quasi finito il suo piatto. Sembrava stranamente
vorace quella sera. Francis rise con un leggero imbarazzo che non riuscì a
celare; in genere non si distraeva fino a quel punto tra i propri pensieri; non
quando era in compagnia almeno. – Oh no, no. Ero solo sovrappensiero, scusami.
Spero ti piacciano le verdure a proposito. – Rispose tornando finalmente a
mangiare. – Le ho gradite, ti ringrazio. – Il francese sorrise di nuovo,
pensando che trovasse davvero degli accorgimenti minuziosi pur di non fargli un
complimento. Alzò il volto, facendo roteare a lungo lo sguardo nella cucina,
saltando da un’angolazione all’altra come se stesse cercando di ingannare il
tempo. Poi i suoi occhi incontrarono l’orologio a parete.
–
Sono già le nove. – Commentò ad alta voce.
L’inglese
poggiò la forchetta sul tovagliolo, sospirando dopo la sua prova di velocità
con il ratatuoille; si distese sullo schienale, strizzando a malapena gli
occhi. – Il concerto inizia alle undici, ma non dobbiamo per forza andarlo a
sentire. Possiamo uscire per il conto alla rovescia finale e sentirci il
concerto in sottofondo e vedere quel che si riesce dei fuochi. Che ne dici? –
Propose abbastanza sicuro che il francese non avrebbe soprasseduto. – Dico che
è un ottimo programma! Nel frattempo potremmo giocare a carte o vedere qualcosa
in tv se ti va, oppure.. – Arthur non lo lasciò completare, interrompendolo con
un deciso:
–
Perfetto. – Alzò poi le braccia verso l’alto, stirandosi la schiena; prese il
proprio piatto e bicchiere e li portò al lavandino, dove iniziò a lavarli.
Francis, ancora seduto di fronte al proprio Ratatouille da finire, cercò di
fermarlo. – Ehi lascia, faccio io. – E si sarebbe anche alzato se solo la
minaccia di Arthur non l’avesse raggiunto. – Vedi di restare lì buono e seduto.
Posso benissimo lavare i piatti della mia cucina. – Rispose usando
un’intonazione che non accettava repliche. L’altro sorrise, obbedendo al
comando. Finì senza fretta la sua porzione mentre di tanto in tanto lanciava
innocue occhiate all’amico che tanto si stava operando per dare una pulita a
stoviglie e cucina. Infine si alzò anch’egli per assisterlo nelle ultime
faccende e riporre in frigo gli avanzi. A mangiare il resto ci avrebbero
pensato dopo la mezzanotte se ne avessero avuto ancora voglia; i festeggiamenti
si preannunciavano densi: fuochi d’artificio, musica, persino un coro. Ad
essere sincero Francis pensava sarebbe andata molto peggio quella vigilia e
invece si stava ricredendo, soprattutto grazie all’inaspettato buon umore di
Arthur; che poi fosse sincero o forzato rimaneva un mistero persino per lui.
Quella
sera gli sembrò la prima volta in cui pur ritrovandosi soli insieme per più di
tre ore fossero riusciti a non entrare in conflitto. Non vi erano occhiate di
avversione inespressa né battutine caustiche sull’altro. Poteva dire che anzi
stava andando tutto fin troppo bene. Continuava a pensare fermamente che sotto
sotto Arthur Kirkland fosse una persona molto più piacevole e apprezzabile di
quel che volesse dare a vedere. Stranamente, la cosa lo onorava e galvanizzava
allo stesso tempo, creando un coagulo di entusiasmo che probabilmente avrebbe
fatto meglio a tenere a bada. Provava un sottile compiacimento ad essere
testimone, e nelle giornate fortunate a volte autore, di quegli sguardi docili
dell’altro. Si dice che la fortuna sia una ruota; e come tale, costantemente
gira. Doveva proprio essere il suo turno fortunato allora.
Nel
completare l’opera di sparecchiamento e messa in ordine si fecero le dieci.
Nessuno dei due aveva in mente grandi piani per la serata, ritrovandosi in accordo
nel privilegiare attività quali carte e giochi di società, magari accompagnati
con della buona musica e qualche ristretta puntata. Presero le carte e
giocarono tutti i giochi che entrambi conoscevano, riuscendo a guadagnare
qualcosa con un pizzico di fortuna -chi più chi meno. L’inglese fu certo più
sfortunato, mentre il maggiore allenamento del francese con le carte gli
assicurò maggiore quantità di vittoria e anche di spiccioli. Il tempo scorse
via come acqua dal rubinetto e ormai nessuno dei due avrebbe potuto ricordare
quante partite avessero effettivamente fatto. Poker, dama, scacchi, bingo,
burraco, persino una partitella a Cluedo erano riusciti a farsi. Il clima non
poteva essere più sereno: scherzavano e ridevano come se quella fosse un’altra delle
tante altre serate di gioco che avevano condiviso insieme. Persino sulla scelta
della musica erano riusciti a venirsi incontro: niente melanconia, niente
musica impegnata, niente atmosfera natalizia; puro rock progressista contornato
da un po’ di new wave. Avvicinandosi poi la mezzanotte avevano invece
cominciato a virare verso il post-rock, non preoccupandosi più di tanto ad
alzare di qualche tacca il volume delle casse. Insomma, era pur sempre
capodanno.
–
Dammi quei cinquanta pennies.⁽⁴⁾ – Fece Arthur con uno sguardo che
cercava di rendere serio e torvo. Seduto a gambe incrociate sul divano, curvò
la schiena verso il francese allungando un braccio verso di lui che terminava
con un bel palmo aperto. – Come? – Esclamò con stupore il francese con ancora
le carte dell’ultima partita in mano. – Su, forza, quest’ultima l’ho vinta io.
Dammi quei pennies. – Continuò l’inglese sforzandosi per essere credibile nella
sua cieca determinazione. – Eh no mio caro, ti ricordo che per due partite non
hai avuto gli spicci sufficienti per ripagarmi delle mie vittorie. Quindi
dovremmo considerare questi pence come una saldatura del debito. – Arthur
aggrottò le sopracciglia, avanzando con quel palmo aperto verso l’amico. –
Andiamo razza di taccagno, sono solo settanta pennies! – Si lamentò non potendo
fare a meno di sorridere. E il francese sorrise di rimando, facendosi indietro
con la schiena. – Nah, nah, nah, niente da fare bello mio. Quel che è vinto è
vinto. – Poi fece una pausa, divertendosi a far tintinnare i pennies nel suo
pungo ben saldo. – Nessuna pietà. – Aggiunse con un’espressione e un tono
cinematografici, tanto per prendere in giro il più sfortunato. Arthur sbuffò e
mise su un’espressione delusa, poggiando la schiena sul bracciolo del divano. –
Spilorcio. –
–
Sì, è un appellativo comune che in genere danno ai giocatori più fortunati. –
Rispose Francis con un ammicco. – Ho perso solo tre partite in più di te. –
Commentò senza astio nella voce, lanciando senza cura le carte della sua ultima
mano sul cuscino del divano. – Davvero? Chissà perché io ne avevo segnate
almeno dieci… – Commentò l’altro lasciando la frase volutamente in sospeso. –
Avrai contato male. – Disse mettendo su un’espressione buffa che cercava di divagare sull’argomento.
–
Chissà, può darsi. – Francis scrollò le spalle in un atteggiamento di
amichevole complicità, poi si liberò di una sincera risata che tratteneva da
troppo tempo e aggiunse: – Okay, okay Mr. Kirkland, mancano meno di venti
minuti all’anno nuovo. Cosa vuole fare? – Domandò divertendosi a dargli del
lei. L’inglese diede un’occhiata al suo orologio da polso per avere conferma
dell’orario. – Penso che potremmo prepararci per uscire, caro il mio rospo. – E
qui un sorriso mai stato così ampio si dipinse sulle sue labbra. – Ehi! Era da
un sacco che non mi chiamavi così! Non è carino, proprio alla vigilia di un
nuovo anno. – Protestò senza grande serietà il francese, neanche lontanamente
offeso. Il suo spasso era così evidente che Arthur non perse neanche tempo
prezioso ad ascoltare le finte lamentele: recuperò le scarpe, si alzò dal
divano senza preoccuparsi di mettere a posto le carte e afferrò il cellulare
sul tavolino di fronte al divano. Avvicinandosi all’ingresso ne osservò lo
schermo; c’era un messaggio da parte di Alfred. Lo lesse con attenzione, ma
senza temporeggiare. Non che ci fosse molto da impensierirsi: il ragazzone era
arrivato a destinazione, saluti vari da parte di Matthew e ovviamente auguri
per i festeggiamenti del nuovo anno. Piegò le labbra da un lato, pensando che
avrebbe dovuto fargli piacere quell’interessamento, ma nonostante tutto non
riusciva a definirsi entusiasta. Fu il primo messaggio da parte di Alfred che
lasciò in memoria dopo tanti mesi.
Afferrò
il giubbotto, già con i pensieri altrove rispetto al Canada e al suo amico,
rivolgendosi ora al francese. – Allora andiamo? Se non ti sbrighi perderemo i
fuochi. – Francis mandò giù l’ultimo sorso di tropical che si era preparato
prima, per bagnarsi la gola durante le partite. Si avvicinò a grandi passi all’inglese,
raggiungendolo e prendendo il giaccone a sua volta. – Eccomi, eccomi. Non vedo
l’ora di vedere questi fuochi britannici. – Commentò ironico, stupendosi del
fatto che l’altro avesse ignorato la provocazione liquidandola con un sospiro.
Fuori
era freddo. Un freddo così non lo ricordava nemmeno quando lui e la madre erano
stati invitati a festeggiare il Capodanno a Saint-Malo,⁽⁵⁾ ospitati da un’amica.
Sentiva le lame del gelo conficcarsi nelle guance scoperte, mentre col mento
cercava rifugio nella sciarpa di lana. Il viale era inaspettatamente pieno di
gente: bambini, ragazzi e famiglie che camminavano lungo i marciapiedi, altri
che si erano direttamente accampati sulla strada per aspettare lo spettacolo
pirotecnico, altri ancora con il naso all’insù e la fotocamera alla mano pronti
per riprendere il primo lancio. Riusciva a distinguere abbastanza bene anche la
musica che veniva suonata a New Cross, accompagnata da splendide voci, dolci e perfettamente
sincrone.
–
Accidenti, è pieno di gente qui! – Esclamò Francis. – Sì. È un quartiere
popolare, sarebbe improbabile che qualcuno di qui si comprasse il biglietto per
il concerto all’aperto di New Cross. Anche se l’audio non è eccezionale, tanto
vale ascoltarlo a distanza. E poi i fuochi si vedono niente male da qui, siamo
fortunati. –
Arthur
chiuse casa e avanzò per il vialetto raggiungendo il francese e mettendosi le
mani infreddolite nelle tasche. – Farai gli auguri a tua madre? – La domanda
gli venne spontanea, ma non ne identificò il motivo. Per un attimo si vergognò
di avergliela fatta. – A Parigi sono già nell’anno nuovo, le ho mandato un
messaggio poco fa, quando eri in bagno. Dopo la chiamerò. – Rispose allegro.
L’inglese si rassicurò del fatto che la sua domanda non avesse scomodato né
infastidito il suo interlocutore e rispose pertanto con un sorrisetto di
circostanza. – E tu non chiamerai i tuoi? – Domandò di rimando il biondino col
pizzetto.
Pessimo
azzardo, pensò subito dopo il parigino. Quasi dimenticava che Arthur non
sprigionava grande entusiasmo a parlare della propria famiglia. Peccato se ne
ricordò solo a frittata già fatta; cercò di trattenere il nervosismo causato
dalla terribile gaffe e si precipitò per tentare un recupero. – Cioè, scusa. Lo
so che non sono affari miei. Mi era solo sorta spontanea come dom- – Il ragazzo
lo interruppe con una smorfia pacifica. – Non fa niente. In realtà non c’è
niente di male a chiederlo. – E subito dopo aggiunse con un sospiro: –
Sicuramente chiamerò i miei, dopo la mezzanotte. A meno che non siano loro a
chiamare prima me, cosa assai più probabile. – Con ancora le mani in tasca
l’inglese saltellava con lo sguardo dal francese alla folla e viceversa. I
ragazzini del suo quartiere erano più rumorosi del solito in quella serata.
Come dar loro torto. Fece spallucce, rinnovando un’occhiata neutra verso
l’amico per spezzare quell’imbarazzo ingiustificato. – Tu hai comprato qualche
aggeggio? – Domandò con interesse.
L’altro
sembrò non capire lì per lì. – ..aggeggio?
– Ripeté con tono demarcativo. – Sì
insomma, qualche piccolo fuoco d’artificio, stellina,
scoppiettini vari, no? –
Fece qualche passo verso di lui. – Hai niente? – Francis
aprì la bocca assumendo
un’espressione di stupore, avendo capito solo ora a cosa si
riferisse.
–
Aaah, quelli dici! No, mi spiace; non ho comprato nulla del genere. – Concluse
con un tono leggermente rammaricato. L’inglese non sembrò soffrirne. – Poco
male. – Disse conciso tirando appena su col naso. Si gelava proprio.
Soprattutto rimanendo fermi in piedi come pali ad osservare il resto intorno a
sé. I due ragazzi rimasero lì in mezzo alla strada immobili, in silenzio, a
guardarsi intorno e poi a guardarsi l’un l’altro, probabilmente non avendo idea
di cosa aggiungere per riprendere una conversazione. Fu il più giovane che
alcuni secondi dopo riprese a parlare. – A cosa avevi pensato? – Domandò
osservando bene negli occhi l’altro, con aria di rimprovero. Il francese
rispose con sincera ingenuità. – Excuse moi?⁽⁶⁾ – L’inglese sembrò non
gradire quell’atteggiamento. – Avevi pensato a cose strane, non è così? – Lo
incalzò con maggiore insistenza. – Mh, ad essere sincero…faccio fatica a
seguirti. – Arthur alzò gli occhi al cielo, scuotendo per un attimo le mani
nelle tasche. – Sì, come no. Figurati se non hai pensato ad altre cose con quel
“aggeggi”. – Il francese collegò immediatamente, esclamando tutta la sua
sorpresa. – Ooh! Ti riferivi a quelli?
– Domandò sottolineando col tono l’ultima parola. La cosa cominciava ad essere
divertente, e ancora più divertente era il fatto che la nota maliziosa non
fosse partita da lui. – Buffo, non ci avevo neanche lontanamente pensato, sai?
Non è che sotto la tua pudicizia vittoriana si nasconde un perverso? – Domandò
senza preoccuparsi di essere pungente. – Un’altra parola e finisci male. Giuro.
– Il tono questa volta era più minaccioso. – Ma non ho cominciato io, sei tu
che hai pensato a strani aggeggi. –
Continuò il francese, sempre enfatizzando la parola colpevole di ambiguità. –
La vuoi finire? Cercavo solo di anticiparti, visto che la tua porcaggine si
spreca! – Francis scoppiò a ridere, per nulla scalfito dagli insulti ancora
piuttosto gentili dell’amico.
– Ahahah! Oddio Arthur, non è che la mia
compagnia ti ha contagiato? In questo caso potremmo cominciare a condividere
molte più esperienze! – Le sue risate
erano talmente forti e spassionate che cominciò a piegarsi in avanti con la
schiena, mentre il volto dell’inglese si riempiva di imbarazzo e rabbia,
probabilmente anche preoccupato che chiunque vicino a loro potesse sentirli.
Tirò fuori dalle tasche le mani e cominciò ad agitarsi, guardandosi un po’ a
destra un po’ a sinistra, trattenendosi dal colpire l’idiota dritto sul mento.
– Okay, adesso sai che faccio? Cerco un petardo, di quelli belli grossi, e ti
ci faccio saltare la testa, che dici? Così la smetti di fare battute sconce e
di ridere come una scolaretta sguaiata! – Esclamò con forza, con tono di
rimprovero e in parte di disprezzo, già sentendo che le proprie guance
cominciavano a tingersi e ad accaldarsi -e stavolta non per il freddo.
–
Sì, ecco. – Cercò di rispondere trattenendo le risate. – Bello grosso mi sembra
l’ideale. – Quella proprio non riuscì a trattenerla. Era troppo perfetta come
battuta per non condividerla con chi, di fronte a una simile ironia doppio
sensista, sarebbe sicuramente andato su tutte le furie; e aveva fatto bene i
calcoli: Arthur sgranò gli occhi e si avvicinò quasi con un balzo a lui,
afferrandogli un avambraccio con forza e tirandoselo vicino per non farsi
sentire dal resto della folla. – La vuoi finire con queste stronzate? Sii
serio! –
–
Come faccio ad essere serio al sera di Capodanno? – Chiese retorico
sorridendogli, per nulla infastidito da quella presa tutt’altro che delicata.
Come già aveva assodato più volte, far innervosire l’inglese poteva risultare
una delle attività più piacevoli che avesse mai scoperto a Londra. Soprattutto
se di mezzo c’erano ambiguità scottanti di ambito sessuale.
–
Oh, perché invece gli altri giorni la tua integrità ti contraddistingue. – Il
francese sorrise ancora. Era più forte di lui: i battibecchi a suon di battute
sferzanti rappresentavano il nettare del suo diletto. – Ma tu dovresti
rilassarti, Arthur. – Disse pronunciando alla francese il suo nome. – E non
storpiarmi il nome, rospaccio. – Francis scrollò le spalle. – Anche tu storpi
il mio. – Lo sguardo dell’inglese si fece adesso esasperato. – Sei tu che hai
scelto l’Inghilterra per l’Erasmus, non rompere. –
–
Ma io adoro l’Inghilterra! – Disse a gran voce e con un sorriso forzatamente
vicino all’ebetismo. – Io invece ti detesto e vorrei spaccarti quella faccia da
idiota, va bene? – Era riuscito a spazientirlo, ma non ancora così tanto da
diventare violento anche fisicamente oltre che verbalmente.
–
Suvvia Arthur, non devi prendertela così; pensa che poteva capitarti di peggio.
– Commentò tutto allegro, allungando una mano sulla spalla dell’amico. – Cosa
esiste peggio di te? – Domandò con genuina incredulità. – Ahah, vieni che te lo
dico all’orecchio! – E strinse quindi la presa sulla sua spalla per farlo
avvicinare a sé, mentre col volto cercava di raggiungere l’orecchio dell’altro
il quale decisamente respinse l’approccio. Cercò di ritirarsi indietro,
evitando il più possibile di stargli vicino come se ne fosse disgustato.
–
Non ti avvicinare viscido lascivo! Stammi lontano, non toccar- – Poi un grosso
boato mise a tacere entrambi. I due ragazzi voltarono all’unisono i volti verso
il cielo, constatando che lo scoppio avvertito altro non era che il primo
segnale d’inizio dello spettacolo. Le scintille fumanti e lucenti del primo
lancio ancora vibravano nel cielo scuro, lasciando scemare nell’aria tante
piccole fiammelle di color ocra. Stava iniziando. Le urla di bambini e ragazzi
avevano già del tutto coperto gli ultimi riecheggiamenti dello sparo. La gente
cercava di radunarsi nei punti in cui la prospettiva era migliore, mentre altri
cominciarono ad accendere i propri piccoli razzi, luci, stelle. In lontananza,
nonostante il frastuono, si poteva ancora udire la melodia dei canti
tradizionali che l’orchestra suonava e il coro eseguiva. All’inglese sembrò di
riconoscere le note d’inizio di O Come All Ye Faithful⁽⁷⁾ ma era troppo distratto da
tutto il contesto per porvi maggiore attenzione. Francis colpì con una gomitata
il fianco dell’amico, esclamando: – Arthur, i fuochi! Iniziano! Dai mettiamoci
più in qua! – L’inglese trattenne un’imprecazione solo grazie alla vista di bambini
nelle vicinanze e prima che potesse rispondere con un’altra gomitata si sentì
trascinare per il giubbotto. – Okay, okay, ho capito! Fermiamoci qui, andrà
bene! – E cercò di puntare i piedi per arrestare la folle corsa del francese
chissà dove. Il ragazzo teneva il mento costantemente all’insù, come se non
volesse assolutamente perdere lo scoppio successivo. Sembrava emozionato come
uno di quei marmocchi. – Quello era d’apertura, giusto? Quindi dovrebbero
lasciar trascorrere qualche minuto prima che inizi il vero spettacolo. –
L’inglese lo ascoltava distrattamente, più concentrato a ricomporsi gli abiti
sgualciti dalla sua stretta; il suo sguardo era basso e privo di aspettative.
Rispose fiacco, facendo spallucce. – Sì, in genere fanno così. – Francis
abbassò finalmente gli occhi sull’amico. – Adesso inizierà la parte in cui i
cellulari di tutti squillano e vibrano in continuazione per via delle chiamate
e i messaggi di auguri. –
–
E la cosa ti entusiasma, vedo. – Commentò superficiale. – No, ma è divertente.
– Gli sorrise spensierato.
–
Intendo, osservare come in fondo facciamo tutti le stesse cose. – Il britannico
sembrava però difficile da abbindolare. – Io non ho alcun cellulare che
squillerà o vibrerà in continuazione. – E si rimise le mani in tasca. – Scommetto
di sì invece. Almeno un po’. – Il maggiore tornò con lo sguardo verso il cielo,
in attesa.
–
Tu scommetti un po’ troppo spesso per i miei gusti. – Restarono in silenzio per
alcuni secondi, finché Arthur non pensò che avrebbe voluto aggiungere altro in
risposta a quei fastidiosi commenti del francese, sempre così sicuri di sé,
come se ne sapesse davvero qualcosa di lui. Era un pensiero che lo infastidiva,
ma lo realizzava sempre in ritardo rispetto all’enunciazione che lo generava.
Schiuse pertanto le labbra per continuare a replicare e aggiungere obiezioni
impeccabili, ma il secondo scoppio nell’aria glielo impedì.
Stavolta
era verde e giallo e la forma ricordava quella di un fiore. Adesso lo
spettacolo stava davvero iniziando. Afferrò velocemente il cellulare dalla
tasca per osservarne l’ora e vide che mancava ancora un minuto alla mezzanotte.
La gente intorno a loro era euforica e da un gruppo di ragazzi in collegamento
tramite cellulare con il countdown televisivo partì la conta: cinquantanove,
cinquantotto, cinquantasette…
Tutti
si unirono, levando un coro non indifferente mentre i colori dei fuochi
continuavano a illuminare splendidamente il cielo. L’inglese ebbe la conferma
in quel momento che il canto intonato dal coro in quel momento era proprio O
Come All Ye Faithful. Sorrise nella direzione della musica: non era male che
potesse godere del sottofondo di uno dei suoi canti preferiti proprio durante
il countdown. Nella distrazione generale, notò che Francis si voltò verso di
lui dicendogli qualcosa, ma non riuscì a comprendere nemmeno una parola. Si
sporse col viso verso di lui, ma prima che potesse tendere l’orecchio
qualcos’altro monopolizzò la sua attenzione.
Sentì
muoversi qualcosa nella sua mano, anzi, vibrare. Si ricordò di star tenendo il
cellulare ancora nel palmo e quando rivolse lo sguardo all’apparecchio lo vide
illuminarsi e suonare. Sembrava una chiamata. Odiò profondamente il fatto di
riceverla in quel momento perché tutto ciò avrebbe solo assicurato la vittoria
al rospo francese che appena pochi secondi prima aveva lanciato un’altra delle
sue tante e sciocche scommesse. Detestava che avesse ragione, fosse anche per
una cosa così stupida e insignificante. Come si aspettava, Francis non esitò a
gloriarsi della propria supposta preveggenza. – Visto? Hai visto? Avevo
ragione, una chiamata! Ed esattamente a meno di un minuto da mezzanotte, wow!
Che fai, non rispondi? – Domandò con intrattenibile curiosità, peccando di
impertinenza. – Vuoi farti gli affari tuoi? Pensa a guardare i fuochi te. –
Rispose conciso l’inglese che, sempre più perplesso, si domandava chi potesse
essere visto che il display segnava un numero sconosciuto. Il biondo col
pizzetto rise, quasi fosse felice di essere la fonte di irritabilità maggiore
di quel ragazzo; ma infine tornò con lo sguardo verso l’alto, a godersi lo
spettacolo. Era un giovialone e si divertiva a esagerare, ma un maleducato mai.
Arthur
restò titubante per un altro paio di secondi rispetto alla scelta se rispondere
o meno. Poi pensò che se avesse scoperto che era solo qualcuno che aveva
sbagliato numero avrebbe avuto una bella rivincita sull’altro. Non avendo nulla
in più da perdere, decise quindi di vedere chi fosse e schiacciò il tasto verde
del cellulare per accettare la chiamata. Si portò l’altra mano all’orecchio per
poter riuscire a distinguere meglio la voce dall’altra parte del telefono. –
Pronto? – Domandò come di norma, abbassando lo sguardo verso il basso. Alcuni
bambini gli sgattaiolavano vicino alle gambe, mentre sull’asfalto della strada
poteva osservare i riflessi lucenti di tutti gli aggeggi che stavano sparando, facendo saltare o incendiare. Non era
proprio l’ambiente migliore per una chiamata, ma almeno sapeva non sarebbe
durata tanto.
–
…Arthur? – La voce che lo aveva chiamato per nome era gentile ma comunque dal
tono risoluto. Aveva un che di familiare, ma i rumori attorno a sé erano troppo
forti per poterla identificare con certezza. In realtà, non era neanche certo
di conoscere davvero quella voce. Cercò di tapparsi con maggiore forza
l’orecchio per isolarsi meglio e alzò la voce. – Sì? Pronto? Non la sento molto
bene, c’è un sacco di gente qui. Chi è? Mi sente? – Non sapeva dire se la linea
fosse caduta o meno visto che non distingueva alcun suono dall’altro capo del
telefono; solo gli schiamazzi e gli scoppi dei fuochi arrivavano chiari alle
sue orecchie.
–
Pronto? È ancora lì? Pronto? – Cercò di insistere, nel caso all’altro fossero
sfuggite le sue parole di prima. Il francese lanciò un’occhiata sottile all’amico
che sembrava sempre più in difficoltà. Sorrise, trovandolo buffo. – Arthur. –
Riapparve improvvisamente la misteriosa voce. Il giovane stava per riprendere
la conversazione con un’altra domanda, ma l’altro aggiunse repentino: – Arthur,
sono Barclay. –
Un’altra
esplosione nel cielo andò a corrispondere al suono sordo del cuore dell’inglese
che probabilmente aveva saltato un battito per la shockante sorpresa. Sbatté
gli occhi, cercando di aggrapparsi prima alla ragione piuttosto che
all’emotività. Non poteva essere lui. Non poteva essere lui per la semplice
ragione che Barclay Kirkland non l’avrebbe mai chiamato. Forse era uno scherzo
idiota dei gemelli. Elaborò questa e un’altra magra lista di possibilità, ma
tutto ciò che riuscì a balbettare al telefono fu un mesto: – Come? –
–
Sono io Arthur. Sono Barclay. – Ripeté la voce maschile. Le sue speranze
venivano ora sempre meno: aveva avuto l’impressione iniziale che quella voce
gli fosse familiare, e riascoltandola adesso ancor di più, ma era impossibile
fosse davvero suo fratello. Più se lo ripeteva più i dubbi lo assalivano.
Esattamente come una verità che non vuole essere ascoltata, respingeva
quell’ipotesi nel terrore che potesse corrispondere alla realtà. Le sue labbra
non si muovevano così come neppure il suo corpo; era paralizzato come un
bambino spaventato. Riusciva adesso solo a distinguere qualche nota dolce del
canto in sottofondo e qualche scoppio di piroette attorno a sé. Il peso del
proprio respiro gli sembrò improvvisamente insostenibile. – Barclay? – Ancora
una volta, nulla di quello che gli era passato per la testa scese fino alle sue
labbra, limitandosi a dei tremanti monosillabi.
Quel
nome però non poté non destare l’attenzione del francese a fianco che, per
quanto intento ad osservare lo spettacolo in cielo, non si era distratto più di
tanto. Si voltò quasi completamente verso l’amico, osservando la strana piega che
aveva assunto la sua schiena e tutto il corpo: sembrava stesse per rinchiudersi
come un riccio su se stesso, col capo basso e le spalle in avanti, nascondendo
lo sguardo con fermezza. Non che ne sapesse molto dei suoi fratelli visto che
Arthur si era mostrato più inviolabile di una cassaforte nel merito, ma quelle
rare volte che avevano accennato l’argomento il nome del fratello maggiore,
Barclay per l’appunto, era sempre saltato fuori. Restò ad osservarlo, cercando
di non mostrarsi inopportuno, mentre pensava a come avrebbe dovuto comportarsi
nel momento in cui avesse concluso la telefonata. Nel frattempo Arthur rimase
sospeso nel tempo di quei lunghi secondi nei quali attendeva una risposta da
parte di chi, quasi sicuramente ormai, era davvero suo fratello.
–
Lo so che è strano. In realtà, è strano anche per me. Ma dovevo farlo. – Il
ragazzo si prese una pausa.
–
Immagino che prima di tutto dovrei farti gli auguri. – Aggiunse con un tono
leggermente ironico che sapeva di imbarazzo. Il minore tuttavia non riusciva a
rispondere, continuava solo a sentire un gran dolore all’altezza del torace che
come fiamme si espandeva velocemente verso il collo e verso tutti gli arti. Ma
grazie al cielo, Barclay aveva previsto questa possibilità, per cui non aspettò
alcuna particolare reazione da parte del fratello. – Mi ritengo molto fortunato
ad averti ancora in linea. Avresti potuto attaccarmi in faccia, l’avrei capito.
– Un’altra pausa. – Arthur, mamma e papà ti hanno spiegato le mie intenzioni in
queste ultime settimane, non è vero? – Il ragazzo cominciò ad accusare i primi
sintomi di stanchezza emotiva: gambe deboli, gola secca e dolente, occhi
arrossati e gonfi; elaborare un suono di senso compiuto gli risultò un compito
immane. – Mi hanno…parlato di te, ma… – Non aggiunse altro; sia perché avrebbe
dovuto concentrare insieme nuove energie per proseguire nello stringato
dialogo, sia perché non aveva idea di cosa obiettare o sostenere. In primis,
per il fatto che non aveva nemmeno l’idea del motivo di quella chiamata. Tutto
era allo stesso tempo confuso e incredibile. – Bé, era vero. Io ho davvero
intenzione di…rivederti, ecco. Ho cercato di incontrarti diverse volte in
questi ultimi tempi, chiedendo l’appoggio di mamma e papà perché sapevo che
altrimenti non ti saresti fidato. Ma capisco che tu non ne abbia voglia. È solo
che mi dispiace, vorrei provare a mettere a posto le cose adesso. Posso farlo.
Posso farlo, ora. Se tu vuoi, io vorrei che provassimo a rivederci. Magari non
subito se non ti va, okay. Però, vorrei… – La voce del ragazzo appariva meno
sicura rispetto a prima; adesso era completamente in balia della grazia del
fratello, che avrebbe dovuto decidere se rispondergli o attaccargli il telefono
in faccia.
Arthur
era sempre più in difficoltà. A tratti faceva ancora fatica a credere che fosse
Barclay a parlare, per quanto ormai fosse ben assodato dalle circostanze. Si
voltò su di un fianco, per dare le spalle al francese che sempre meno riusciva
a osservare i fuochi nel cielo piuttosto che l’amico accanto a sé. Mugugnò
qualcosa, una specie di rantolo incerto. La verità è che non aveva la minima
idea di cosa dire. Era del tutto impreparato. Mai avrebbe immaginato una
situazione più irreale di quella, ma era accaduta; anzi, stava accadendo. Se solo
ripensava a tutte le volte in cui avrebbe voluto tornare indietro, cancellare
quel giorno in cui aveva irrimediabilmente sbagliato -come tanti altri giorni-
o a quante volte aveva sognato di svegliarsi a casa propria, scendere in cucina
e trovare lì anche il maggiore dei suoi fratelli…In quel momento ogni suo
pensiero gli sembrò così stupido e infantile che provò una gran vergogna, alla
quale però non poteva non sottrarre anche una forte dose di incredula felicità
e di rabbia.
Felicità,
perché non avrebbe mai creduto di poter ricevere più in vita sua una chiamata
da parte di quel fratello che aveva amato più degli altri; e rabbia, in parte
verso lo stesso Barclay, in parte verso se stesso. Avrebbe dovuto rispondere.
Per quanto incapace avrebbe dovuto dare una risposta a Barclay che per la prima
volta in quasi otto anni aveva deciso, apparentemente di sua volontà, di
contattarlo, di parlare con lui, di pregarlo per una seconda possibilità.
Rimbombavano
come tuoni quegli scoppi in alto, nel cielo nero come il mare di pece nel quale
si sentiva sprofondare sempre di più. A ogni esplosione si armonizzava un balzo
del suo cuore nella cassa toracica, come un’unione armonica di percussioni.
Doveva parlare. Doveva dire qualcosa.
–
Credi che…potresti pensarci un po’ su? – Il maggiore venne di nuovo in soccorso
del minore, suggerendogli risposte brevi che non lo avrebbero messo in
difficoltà. Arthur si decise a balbettare una risposta. – S-sì. È solo che…io
non…me lo aspettavo. – Si guardava intorno spaesato, pensando che non esistesse
peggior contrasto che quello di essere circondati da persone cariche di
infinita gioia quando nel proprio animo regna invece la malinconia. Sbatté le
palpebre più volte nel tentativo di schiarirsi la vista; sentiva gli occhi e la
testa appesantiti e le urla dei ragazzi gli giungevano così sfumate e lontane,
come se si trovasse rinchiuso in un’ampolla di vetro, isolato da ogni cosa.
–
Lo so. Lo so bene, Arthur. Ma ti giuro che è vero. Sono sincero. Mi dispiace
per come ho lasciato finire le cose. La realtà è che avrei tanto di cui
parlarti, tanto da spiegarti. Ma non posso farlo adesso, capisci? A dire il
vero neanche voglio: sono cose che preferisco spiegarti di persona. Non volevo
disturbarti proprio adesso, ma ho pensato che sarebbe stato più facile. Mi
spiace trattenerti oltre, penso già di averti rovinato abbastanza l’umore. –
Concluse con una risatina amara dopo quel tentativo di fare dell’ironia. Fu
quello il momento in cui Arthur cominciò ad avvertire un forte bisogno di
gridare. Tutto era fin troppo impegnativo per lui e sentiva che lo stress lo piegava
sempre di più. Era in grado di diventare così fragile quando si trattava di
Barclay. Quando accadeva tornava esattamente il bambino che era quando il suo
legame col fratello sembrava essere l’unico al mondo, il più prezioso. Ma
disprezzava quella debolezza. Quella stessa che gli stava facendo gonfiare gli
occhi e il torace di una tristezza che sperava di aver dimenticato. Come
avrebbe potuto spiegare al telefono al fratello che i suoi sentimenti si
aggrovigliavano in una metastasi di gioia, rabbia e dolore? Come poteva fargli
capire che era così felice delle sue parole da trasformare quella gioia in un
doloroso sentimento di nostalgia?
Soffocò
un gemito afflitto, cercando di rispondere quel che bastava per poter
concludere la telefonata. Non avrebbe resistito ancora a lungo. – Ho…capito. –
Si limitò a pronunciare, mentre concentrato com’era a fissare l’asfalto non si
era nemmeno accorto che il francese, proprio dietro sé, lo stava ormai guardando
fisso da tempo, con sguardo piuttosto preoccupato. Barclay gli sussurrò le
ultime parole con un tono talmente disteso che per un attimo gli sembrò di
immaginare le sue labbra sorridere mentre pronunciava quelle frasi. – Okay
Arthur. Siamo a posto allora. Ci pensi un po’ e mi fai sapere? Il mio numero è
questo. Io aspetterò. – Un altro scoppio provocò un battito di ciglia
involontario dell’inglese. Barclay attese alcuni secondi in silenzio, dopodiché
si avviò a guidare la conclusione di quella telefonata. – Okay. – Ripeté
ancora. – Bene, dai. Ti lascio festeggiare allora. – Il ragazzo tirò su col
naso, lasciando poi che la mano con cui fino a quel momento si era coperto
l’orecchio scivolasse adesso lungo il suo fianco, come un peso morto. – Va
bene. – Riuscì a mugugnare dopo aver deglutito. – E auguri di buon anno. –
Aggiunse di fretta il maggiore, ricordandosi solo in quel momento che ci fosse
un countdown in corso. Arthur soffiò una esile risata spontanea, lasciando che
del vapore uscisse dalle sue labbra congelate. – Sì. – Non riuscì ad aggiungere
altro, tantomeno a ricambiare gli auguri. Si odiò in quel momento. Era davvero
patetico. – Vado allora. Ricorda che…nel caso lo volessi, tu puoi chiamarmi
quando vuoi. Per qualsiasi cosa, intendo. Davvero. A me…farebbe piacere. – Annuì
tra sé, sentendo le forze dell’autocontrollo abbandonarlo sempre di più. Sorrise
al nulla di fronte a sé e mugugnò di nuovo. – Mh mh. – La sua prestazione era
seriamente da cestinare. Il fratello si decise infine a concludere quella
chiamata. – Ciao Arthur. – Sussurrò in tono di sospensione, forse perché gli
venne il dubbio di poter aggiungere qualcosa. Ma per una volta fu il minore a riempire
quel vuoto comunicativo con un piuttosto formale: – Ciao Barclay. –
Non
aspettò un secondo di più. Staccò il cellulare dal lobo e lo tenne sul palmo,
di fronte ai suoi occhi osservandone lo schermo, ipnotizzato. Non sapeva
neanche perché lo stesse fissando. Forse per convincersi a realizzare che
quella conversazione fosse davvero avvenuta, che avesse davvero parlato con
Barclay, suo fratello, o magari per non dover incontrare troppo presto lo
sguardo indagatore del francese a cui onestamente pensò solo in quel frangente di
rielaborazione mentale. Tirò un’altra volta su col naso, lasciando che i suoi
sensi tornassero a poco a poco reattivi: le urla e gli schiamazzi, così come
gli scoppi luminosi nel cielo e le note del canto natalizio, tornavano a
rappresentare dei suoni sempre più presenti e definiti; l’odore di umido gli rinnovò
improvvisamente la concentrazione, mentre i suoi occhi ruotarono nel tentativo
di focalizzare nuovamente lo scenario nel quale suo malgrado era immerso. Alzò
lo sguardo al cielo, a osservare i colori che illuminavano la serata.
Continuavano, dentro di sé, a scontrarsi gioia e malessere, in una lotta
spietata che non sperimentava per la prima volta; il risultato era
inevitabilmente doloroso.
Francis
si affiancò all’amico, decidendo di rischiare e farsi avanti: – Arthur? – Fece
con timidezza, per non sembrare invasivo. L’inglese riportò molto lentamente lo
sguardo ad altezza d’uomo, abbandonando la contemplazione dei colori di quel
cielo poco stellato. Sbatté le palpebre diverse volte, più che altro nel
tentativo di riuscire a calmare il bruciore agli occhi che saliva e che gli
faceva temere per il peggio. – Sto bene. Io…sto bene, sto bene… – Balbettò con
voce tremante e sguardo sfuggente. Non riusciva a impedire che le mani gli
tremassero e per un attimo ebbe la sensazione che il cellulare gli stesse per
sfuggire dalla debole presa. Francis attese a lungo prima di tentare con
un’altra domanda: preferì prima osservare le sue reazioni, per riuscire a
comprenderne lo stato d’animo. Tutto quello che poteva dire era che sembrasse
sconvolto, agitato, ferito, o forse tutte le cose insieme. Quello che gli
sfuggiva ovviamente era il perché, ma sul momento non se la sentì di
domandarglielo. Stava già valutando ipotesi alternative come sdrammatizzare,
far finta che non fosse successo niente, o anche distrarlo con qualche battuta
scema; e invece fu proprio lo stesso Arthur a riprendere il discorso e a
soddisfare la curiosità inespressa del francese.
–
Era Barclay. Era mio fratello. Lui ha… – Si interruppe, sentendosi sempre più
insicuro ed esposto in quella flagrante debolezza. La sua voce tremava anche
più delle sue mani. Fu questione di un attimo: Arthur Kirkland si ritrovò a
crollare completamente davanti agli occhi di Francis Bonnefoy.
Scoppiò
in lacrime con la stessa facilità dei suoi attacchi d’ira. L’amico ne rimase
completamente spiazzato: sussultò tra le spalle sgranando gli occhi senza
riuscire a credere a quello che stava accadendo. L’inglese versava copiose
lacrime dagli occhi in un pianto tutto sommato silenzioso, ma non per questo
meno violento. Non essendo Francis un ingenuo, quelle poche parole dell’amico
gli erano bastate per farsi una vaga idea di cosa avesse potuto scatenare quel
pianto: aveva parlato di suo fratello, Barclay, il maggiore che ricordava gli
avesse dato più problemi degli altri; così come ricordava che non lo sentiva da
molto tempo, avendo tagliato del tutto i ponti con lui. Non aveva idea di cosa lo
avesse spinto a chiamarlo quella sera, ma certo aveva avuto un effetto
piuttosto devastante sul britannico. Oramai non gli importava saperne di più,
anzi ne sapeva già abbastanza. Aveva ben altro su cui concentrarsi. Si avvicinò
ancora, quel tanto necessario a colmare quasi totalmente la distanza tra i loro
corpi, non cercando di incontrare gli occhi del ragazzo che erano schivi,
bassi, serrati nel tentativo forse di trattenersi. Gli sorrise con
un’espressione mesta, poggiando con cautela una mano sulla sua spalla e
sussurrandogli vicino. – Ehi, non preoccuparti. Piangi pure. – La mano del
biondo col pizzetto cominciò a frizionare prima la spalla e poi la schiena del
ragazzo, tentando di trasmettergli conforto e soprattutto la sicurezza di non
essere sottoposto a un giudizio severo per aver manifestato così
improvvisamente una debolezza infantile. – Ti farà bene, vedrai. Piangi. Lascia
che passi. – Aggiunse con voce ovattata, ben sapendo che con tutti i rumori che
li circondavano il rischio di non essere sentito era concreto. Eppure quelle
parole giunsero al ragazzo, sempre più piegato su se stesso, sempre più misero
in quella irrefrenabile implosione di sofferenza che lo faceva sentire così a
rischio e vulnerabile. La sua mente si era svuotata: come acqua risucchiata dal
lavandino. Se prima nella sua testa si accavallavano continue immagini e
pensieri caotici, adesso era esattamente l’opposto: non riusciva a pensare a nulla,
non riusciva a focalizzare. Completamente perso in uno sfogo emotivo che
probabilmente aveva rimandato per troppo tempo, riusciva solo a piangere;
singhiozzava come un bambino che ha ricevuto la prima sberla dai genitori,
inerme e incapace di reagire, minuto e sprovvisto di quell’aura di arcigna sicurezza
di sé che adesso lo aveva completamente abbandonato.
Si
strinse maggiormente nelle spalle, senza dire niente, riuscendo solo a lasciare
che le lacrime continuassero a scendere ininterrotte lungo le sue guance
infuocate, con la testa ancora bassa che sentiva sempre più come un macigno.
Senza accorgersene, il suo corpo reclinò su quello dell’altro, finendo col
poggiare la fronte sulla spalla del francese, cercando di affondare la sua
disperazione in quel tessuto pesante e morbido che era il suo giaccone. Una
mano titubante afferrò un piccolo lembo della sua giacca, aggrappandosi con una
timida forza. Aveva il serio timore che sarebbe crollato a terra se non si
fosse appoggiato a lui. Nulla poteva risultare più incomprensibile in quel
momento. Non vi era spazio per niente nella sua mente. Il pianto era la sua
sola possibilità di comunicazione attuale.
Francis,
da parte sua, non perse tempo nel dubbio e non appena si rese conto che l’altro
stava cercando sostegno, cinse la mano con maggiore ampiezza intorno alla
schiena del ragazzo, sorreggendolo, mentre anche l’altro braccio si muoveva
verso di lui. Ne risultò infine una specie di abbraccio, con le braccia del
maggiore che si muovevano intorno al minore. Non sapeva se considerare questo
momento come eccezionale, ma dovendo essere sincero con se stesso, giunse alla
conclusione che avrebbe preferito non vedere Arthur in quelle condizioni. Era così
poco familiare quella parte di lui. Si rattristò infinitamente di quell’esito
inaspettato. Le lacrime erano uno spettacolo che non aveva mai gradito, sia
negli uomini che nelle donne. Non vi era nulla di più amaro di un pianto
disperato, di quelli che fanno perdere di vista ogni speranza.
Strinse
con una maggiore forza le braccia intorno al ragazzo, continuando nei suoi
cauti tentativi di conforto. Arthur sembrava aver trovato un rifugio
permanente: continuava nei suoi singhiozzi sommessi che gli scuotevano le
spalle, senza l’apparente intenzione di spostarsi da lì ancora per molto.
Nessuno sembrava interessarsi alla scena; d’altronde, perché avrebbero dovuto?
Tutto continuava allo stesso modo di come era iniziato: i bambini si
rincorrevano, urlavano, i fuochi scoppiavano in aria con rombi e mille colori
diversi, la gente gridava, cantava, si abbracciava, le voci del coro
continuavano sulle ultime note potenti di Oh Come All Ye Faithful, la musica
saliva d’intensità con un climax struggente. In effetti, nessun’altra atmosfera
avrebbe potuto essere più perfetta per la gioia quanto per il dolore. Non
esistono i momenti per essere tristi o quelli per essere felici; esistono solo
i momenti per essere se stessi, e forse Arthur Kirkland aveva finalmente scelto
di essere se stesso per quella serata, abbandonando per qualche minuto una patina
superficiale di pungente diffidenza e faceta eloquenza. Al francese sarebbe
andato bene uguale. Lasciò che il ragazzo si aggrappasse a lui, che piangesse
ancora, finché avesse voluto, come avesse voluto. Ne avrebbe giovato, di questo
era più che certo. Nessuna terapia funziona meglio di un sano sfogo; ne sarebbe
uscito sollevato, indubbiamente. Il tempo delle domande sarebbe forse venuto o
forse no. Nulla al momento era più lontano dai suoi pensieri e più estraneo
alle sue attenzioni.
Non
parlò. Nessuno dei due lo fece; non era necessario. I fuochi nel cielo
continuavano a esplodere luminosi, festosi, unici protagonisti di quella
serata. Quello, senza dubbio, sarebbe stato il più bizzarro dei Capodanno che
entrambi avrebbero mai ricordato; la fine di un anno che si conclude in un mare
tormentato di lacrime e rabbia, stupore e rimpianto, gioia e dolore. Un
Capodanno a cui rimaneva solo la speranza di aggrapparsi all’eventualità di un
conforto, come stavano facendo le mani dell’inglese. Un Capodanno a cui rimaneva
solo la possibilità di una silenziosa redenzione, come invece stavano facendo
le braccia di Francis.
Per
un momento solo, per quei soli pochi istanti, le due giovani figure isolate
dalla folla sembrarono aver trovato per la prima volta qualcosa in comune da
poter condividere in silenzio, senza sguardi, lì dove le parole diventano
superflue e ingannevoli.
⁽¹⁾ “A la meuniere”, in francese.
⁽²⁾ Piatto
tradizionale provenzale a base di verdura stufata.
⁽³⁾ “Sì”,
in francese.
⁽⁴⁾
Plurale di penny, la denominazione di minor valore delle monete nel Regno
Unito.
⁽⁵⁾ Comune
francese della regione della Bretagna.
⁽⁶⁾
“Scusa?”, in francese.
⁽⁷⁾
Traduzione inglese del canto natalizio “Adeste Fideles” http://www.youtube.com/watch?v=0cE1_9aXh-8
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Salve
a tutti. Volevo solo annunciare a chi è interessato che con questo capitolo
(diviso in due parti) direi che siamo circa al giro di boa. In realtà, oltre a
questo volevo aggiungere un mio piccolo e personale appunto: mi dispiace per
questi ultimi capitoli, perché davvero non sono soddisfatta di come siano
usciti, penso si noterà. Spero di poter riprendere con maggiore animo e
soprattutto con maggiore qualità questo progetto. Anche se non sembra, ci tengo
molto.
Quindi
niente, queste non sono altro che inutili considerazioni dell’autrice a fine
pagina; volevo solo condividere questo pensiero visto che di solito sono sempre
la prima ad accorgersi quando quello che scrivo non è soddisfacente. Per chi non
ci trova nulla di diverso non so che dire, meglio per lui/lei forse, ma in
compenso questo prolungato scivolone c’è; lo so.
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