Gilbert si
fermò sotto la finestra dell’abitazione
della nazione ungara, e cominciò a tirare pietre contro il
vetro. Chi se ne
importava se lo avrebbe rotto, inoltre in questo modo Elizabeta si
sarebbe
sicuramente irritata.
Infatti eccola
lì, dopo qualche minuto ad
aprire le ante e ad affacciarsi fuori con uno sguardo assassino a
contrarle il
viso. Prussia diede vita ad un ghigno vedendola in camicia da notte,
ancora nel
mondo dei sogni, tanto vivace seppure appena sveglia.
«Gilbert!»
sbraitò lei, vedendolo nel suo
giardino con un certo divertimento negli occhi. «Ti rendi
conto di che ore sono?!
Le 2 di notte, diamine!» gli ruggì. Il ghigno
sulle labbra del prussiano si
allargò, riconoscendo quel suo comportamento rozzo dei
secoli precedenti.
«Lo
so» rispose con semplicità, e ciò fece
irritare
ancora di più Elizabeta. Si divertì a sentirla
ringhiargli contro – «Una ragione
in più per non spuntare fuori dal nulla a casa di
qualcuno!» – e quando ne ebbe
abbastanza, le chiese: «Non è che stasera potrei
dormire da te? Non ho proprio
voglia di ritornare a casa mia, è troppo lontana.»
«Prego?!»
esclamò lei, quasi orripilata al
pensiero. Lui roteò gli occhi. «Andiamo, non
è che sia la prima volta che lo
faccio. Sono anche ferito, guarda.» Alzò la manica
del braccio che presentava
in quel momento una fasciatura riuscita male, macchiata del colore del
sangue.
Elizabeta fece
una smorfia. «L’avevo detto
che restare neutrali era meglio,» borbottò,
«e ad ogni modo, qualcosa del
genere dovresti riuscire a sopportarlo perfettamente. Sai bene che ti
ho visto
in condizioni peggiori, Gil.»
Lui
scrollò le spalle, al pensiero di tutte
quelle volte che l’amica lo aveva aiutato a disinfettare le
proprie ferite. Si
sentì lievemente imbarazzato. «Allora, mi fai
entrare o no?» domandò poi con
tono impaziente. La vide aggrottare le sopracciglia, sospettosa.
«Non ti farò
niente, giuro. E prometto di non farmi più vedere a
quest’ora d’ora in poi, va
bene così?» aggiunse, in un tono allegro ed
infantile.
Alla fioca luce
della lampada da strada, Gilbert
guardò un piccolo sorriso irrompere sul viso di Elizabeta,
leggermente divertita.
Alla fine diede uno sbuffo, «Aspetta un attimo, vengo ad
aprirti» disse, e
sparì nella semioscurità della propria camera.
Gilbert si
affrettò alla sua porta di casa,
con un sospiro di sollievo.
L’affezione
Per
due giorni li spiò, li vide rifiutare
qualsiasi cibo, bevanda e conforto, cercarsi come due ciechi che
avanzavano a
tentoni l’uno verso l’altra, li vide infelici
quando languivano separati, ma
ancora più infelici quando, una volta riuniti, tremavano
davanti all’orrore di
una prima aperta confessione.
— Il romanzo di
Tristano e Isotta
C’erano
le nazioni. E c’erano diverse strade.
Forse
era stato solo un incontro casuale, uno di quelli che erano destinati a
spegnersi nella memoria delle persone prima ancora che se ne accorgano.
Forse
non era stato programmato, era un errore di calcolo, uno futile, uno
insignificante, uno abbastanza piccolo da poter essere ignorato
tranquillamente.
Ma
accadde.
Le spade si erano scontrate, il rumore metallico si era levato in aria,
ed
accadde. Sguardo feroce, attento, allarmato, smeraldo. Sguardo
derisorio, presuntuoso,
superiore, rubino. Si promisero rivalità.
Furono
solo giorni e giorni dopo, quando le lame collisero ancora una volta,
che il
feroce “Io, Ungheria, non avrò pietà
per te” e l’orgoglioso “Inchinati davanti
al grandioso Ordine Teutonico” furono pronunciati, e
l’errore di calcolo
divenne qualcosa di più grosso, qualcosa da cui
difficilmente si poteva tornare
indietro.
Non
l’avevano saputo.
Poco
a
poco, silenziosamente, gli scontri erano diventati scherzi, la
ferocità chiacchiere,
la rivalità alleanza (in qualche modo), ed i momenti liberi
furono passati a
raccontarsi aneddoti di battaglie.
E
poi
venne il tempo in cui una sottile barriera si innalzò tra di
loro, quando il
disagio si sentì allo scoprire il vero sesso di Ungheria, e
Prussia non fece
altro che maledirsi per la propria “non
grandiosità” nel non capire che c’era
veramente qualcosa di sbagliato.
«Dimmi,
Ungheria, qual è il tuo vero nome?» le chiese,
titubante, la giovane nazione
dai capelli albini. L’altra lo guardò, e gli
rispose fiera: «Già, non te l’ho
mai detto. Elizabeta Hedervary, ora dimmi il tuo.»
Il
borbottato “Gilbert Beilschmidt” sancì
il silenzioso patto di
un’amicizia-inimicizia di cui nessuno dei due, da allora,
avrebbe potuto fare a
meno.
C’erano
diverse strade, e l’errore di calcolo li indusse a percorrere
la stessa.
C’era
il cambiamento. E c’erano le spalle rivolte verso
l’altro.
«Non
sembri per niente una ragazza» disse Gilbert, quando
trovò l’altra nazione intenta
a fasciarsi le ferite per l’ennesima volta. Quasi ci provava
gusto a sbatterle
quella verità in faccia, seppure ripensandoci, un
po’ d’imbarazzo lo provava.
«Non
che mi sia mai comportata da tale» rispose Elizabeta,
trattenendo un gemito di
dolore: l’Impero Ottomano le stava dando davvero del filo da
torcere. «Non
credo che ciò che sono veramente interessi a
qualcuno.»
Nella
testa della nazione dai capelli albini suonò un “A
me interesserebbe”, seguito
da un altro “altrimenti, se gli altri mi vedessero girare
attorno ad un
maschio, penserebbero che io sia gay”. E ancora,
“Ma sono sempre stato attorno
a ragazzi”, “Perché devo pensare ad
Elizabeta così?”, “Siamo stati compagni
per
secoli”, e—
«Mi
stai ascoltando?», la voce dell’altra
fermò il suo treno di pensieri. La fissò
per un momento. «Stavo solo pensando che probabilmente
nessuno ti vedrà mai
come una donna» ghignò Gilbert, prima di ricevere
un pugno nello stomaco da
parte dell’amica, furiosa: sapeva bene che le provocazioni
funzionavano ancora,
su di lei.
Riusciva
a sopportare meglio di quando era più giovane, ma
ciò non toglieva che
Elizabeta aveva una forza bruta comunque. Tossendo, il giovane
rappresentante
la Prussia le riferì in tono derisorio: «Vedi che
a te – cough – interessa?», e
non sentì alcun rimorso nel calcio che gli tirò
l’altra.
Rise,
e
non seppe perché. Forse stava semplicemente diventando folle.
Quando
si riprese dai colpi, notò che Elizabeta era irritata non
poco. Perché era
restata lì? Forse si sentiva in colpa? No, Ungheria non si
sarebbe mai sentita
in colpa. Non lei. Si era seduta accanto a lui, con sopracciglia unite
in
un’espressione corrucciata, facendo perdere lo sguardo
infastidito verso il
panorama ungherese che si estendeva sotto di loro – il
prussiano era solito ad
andare a trovarla quando non aveva niente di meglio da fare.
E
poi
si decise, vedendo quel fiore in mezzo a qualche tulipano che cresceva
su quel
prato incontaminato, sotto il sole splendente in una tiepida mattinata
di
maggio. Un acceso color rosa, che spiccava nell’erba verde, e
forse fu quello
ciò di cui Gilbert aveva bisogno. Anche se inconsciamente.
Lo
mise
in mezzo alle ciocche di capelli dell’amica, magari in quel
modo avrebbe potuto
cancellare quella fastidiosa sensazione dall’inconscio
– senso di colpa?
«Così
sembri quasi più femminile» borbottò,
sentendosi non poco impacciato, e se ne
andò via, evitando la reazione dell’ungara.
Sperava di non essere arrossito –
il grande Prussia non arrossiva mai, dopotutto!
Nessuno
dei due riuscì mai a proferir parola su
quell’argomento nei seguenti secoli,
sceglievano di tacere in un silenzio ignorante che rimanere in uno
terribilmente
imbarazzante.
Poi
vi
fu quel giorno in cui “Mi sposo con Austria”, e
l’abbozzo di un sorriso
rassegnato, e sul tavolo un bouquet di fiordalisi tanto simili a quello
di quel
giorno di tarda primavera, e un biglietto color crema inchiostrato di
una
scritta d’auguri, e il ricordo lontano di battute di caccia e
giorni sereni.
Dopodiché,
non vi rimase niente. Non una parola di motivazione, né una
richiesta di
spiegazione, ed entrambi si diedero per vinti.
Magari
non era semplicemente previsto. Così, l’ultima
cosa di cui furono consci furono
le spalle dell’altro.
C’era
l’aria
di novità. E c’era l’opposizione.
Non
si sentiva proprio a suo agio in quei
fronzoli. Quell’enorme abitazione era di gran lunga
più sfarzosa di quanto
avesse immaginato, e lei, che amava le cose semplici, si era ritrovata
nel
lusso della casa austriaca, ed invece di essere a capo di un esercito
era stata
costretta a fare i lavori domestici.
Ma
più che altro, doveva farlo. Quel matrimonio
serviva per il bene del suo popolo, e ciò sarebbe dovuto
valere la pena tutto,
anche sottomettersi ad un’altra nazione. Elizabeta metteva la
propria gente al
primo posto, cosicché possano vivere una vita serena e
gioiosa.
Solo
che certe volte le mancava ciò che faceva
prima. Non che combattere battaglie su battaglie fosse stata la sua
attività
favorita. Anzi, le piaceva la tranquillità e la musica della
nazione in cui
abitava ora, e Roderich era gentile nei suoi confronti –
anche se a volte si
comportava da paese dominante, e lei non poteva biasimarlo. Ma ad ogni
modo,
era mite e paziente con lei, e Ungheria non poteva far altro che
essergli
grata.
È
solo che, di tanto in tanto, le venivano in
mente tutti i giorni passati ad occuparsi degli affari interni e a
preparare
strategie di guerra; ricordava i giorni nella selvaggia aria aperta
circondata
da spade, balestre, maglie di cotta e cavalli ben addestrati
– richiamava alla
mente l’indipendenza di un tempo, senza essere costretta ad
indossare un
vestito ed un grembiule, facendo i lavori di casa da buona moglie.
Forse non
era abituata ad essere vista in tal modo, forse desiderava essere
trattata…
diversamente, tutto qui.
Ma
poi si ricordava che ciò che stava passando
era per le persone che credevano in lei, nella nazione ungara.
Così smetteva di
pensarci e si dirigeva verso l’ufficio di Roderich per
avvertirlo che la cena
era pronta.
L’unico particolare era che Prussia, da allora, era sempre
venuto nella sua
nuova abitazione a trovarla. In un certo senso, gliene era davvero
grata, ma
dall’altro lato l’amico d’infanzia non
faceva altro che cercare di umiliare il
marito, molte delle volte con scarso successo.
«Eliza»
la chiamò quel giorno, «ancora qui
dentro? Non ti stanchi?»
La
ragazza lo osservò entrare nel giardino guardandosi
attorno, pronto a scappare via nel caso un soldato austriaco fosse
stato nelle
vicinanze – dall’ultima volta che era venuto a
trovarla, Austria, irritato da
tutte le volte che Gilbert aveva provato a tendergli
un’imboscata, aveva
ordinato di cacciarlo via con la forza se si fosse fatto vedere in giro.
«Va
bene così» rispose la nazione ungara,
ritornando a stendere i panni. Gilbert la guardava e lei non gli faceva
caso,
oramai abituata a quello sguardo che, silenziosamente, la osservava
quando
andava a trovarla.
«Veramente?
Sei davvero felice così?» le chiese
ancora. Per la seconda volta, Ungheria smise di maneggiare le vesti e
lo fissò
con aria perplessa. «Oggi sei particolarmente in vena di far
domande, eh?»
«Ogni
volta che vengo qui a chiederti se ti va
di fare un duello o qualcosa del genere, rifiuti dicendo che quello
stupido
aristocratico non ti avrebbe lasciata andare»
constatò l’albino, incrociando le
braccia. Elizabeta avrebbe voluto ribattere al termine
“stupido aristocratico”,
ma l’amico la interruppe. «Stavo
pensando,» riprese, «forse dovrei dichiarare
guerra ad Austria. Magari distoglierà l’attenzione
da te, così tu potrai ribellarti
e riguadagnarti l’indipendenza.»
Gilbert
non aveva lo stesso sguardo di sempre.
I suoi seri occhi cremisi erano fissati su una Elizabeta sbigottita,
incredula.
Questa scrollò il capo distogliendo gli occhi da lui,
«Non ce n’è bisogno».
Possibile
che Prussia fosse preoccupato per
lei? «Inoltre, se mi separassi dall’Impero
Austriaco ora, non saprei come
affrontare i problemi che avrei con l’Impero Ottomano.
Ricordi come mi riducevo
quando… ero indipendente?» Trattenne il
“Quando eravamo noi due” perché, ne era
sicura, Gilbert l’avrebbe presa nel verso sbagliato. Anche se
era la verità.
«Posso
aiutarti io» se ne uscì spontaneamente
l’altro.
«Ma
non saresti impegnato con la guerra?»
Ci
fu un attimo di esitazione. Poi le disse: «Potrò
sempre tagliare un po’ di tempo per te.»
Elizabeta
lo guardò, con l’espressione sempre
più dubbiosa ed esitante. «Non dipende da
te» disse infine, sospirando e
rivolgendogli le spalle. Cercò di concentrarsi
nell’inusuale silenzio da parte
di Prussia che, sapendo che lei aveva ragione, smise di insistere. La
ragazza
si sentì un po’ in colpa: in fondo, Gilbert voleva
solo aiutarla.
«Magari
più in là» disse infine, cercando di
alleviare un po’ la tensione. Si voltò, e sorrise
all’infantile reazione
dell’amico, al quale s’illuminarono gli occhi nel
sentire che avrebbe potuto,
un giorno, pestare quella patetica nazione quale era
l’Austria.
Forse
avrebbe dovuto semplicemente dirgli che
sì, voleva essere indipendente,
lo
desiderava e tutto, ma avrebbe anche voluto restare al fianco di
Roderich.
Forse avrebbe dovuto dirgli che il vento non spirava più
dalla stessa parte e
che gli anni della gioventù erano passati e che le cose
erano cambiate.
Entrambi sapevano che era una ragazza. Le loro strade si erano divise
mesi fa. Si
aggrappò al grembiule.
Erano
opposti, ma sembrava non fossero destinati ad attrarsi.
C’era
la guerra. E c’erano loro.
I
soldati magiari marciavano a fianco a quelli tedeschi sulle faticose
strade
verso la loro meta, con il gelido inverno russo che si faceva sentire
minacciosamente. Già molti dei loro compagni li avevano
abbandonati per la
troppa fatica ed il freddo, ed i restanti non desideravano altro che
ritornare
alla propria patria, al caldo nelle proprie case.
Elizabeta,
dalle prime file, cercava di rassicurare i suoi uomini: sarebbero
sicuramente
ritornati a rivedere i loro familiari, bastava portare a termine quella
spedizione, per quanto faticosa potesse essere. Li spronava ad andare
avanti,
ma ciò non significava che non fosse preoccupata per loro.
Se solo avesse avuto
la forza di tutti i suoi soldati messi insieme, sarebbe sicuramente
andata da
sola senza coinvolgerli.
La
notte era la peggiore di tutte le condizioni. I loro accampamenti e
coperte su
coperte non riuscivano ancora a tenerli abbastanza al caldo, e la prima
neve si
era già vista. Notti insonni e mancanza di cibo adeguato
facevano perire uomini
su uomini, sia tedeschi che ungari.
Quella
sera, accanto ad un fuoco che stava per spegnersi e sotto un paio di
strati di
coperte, Gilbert ed Elizabeta si raccontavano storie, i loro compagni
che
cercavano di prendere sonno tremando al freddo che entrava negli
spifferi del
loro accampamento. Speravano che, in tal modo, avrebbero potuto
alleviare un
po’ la fatica, e sorridere innocentemente per un
po’ in quella disastrosa
situazione di guerra.
«Ora
che ci penso, credevo che sarebbe stato Ludwig a condurre questa
spedizione»
commentò la ragazza, osservando l’amico stringersi
ancora di più la stoffa
attorno al corpo. «In teoria sì,»
rispose l’altro, «ma mi sono offerto io
perché ritenevo che sarebbe stato meglio se lui rimanesse al
comando dei fronti.
Dopotutto, questa spedizione è solo uno dei pezzi del puzzle
per la vittoria»,
e ghignò al pensiero. Elizabeta sorrise.
«E
come
mai mi stai accompagnando proprio tu?» le chiese a sua volta
Gilbert. «Non ti
eri dichiarata neutrale?»
«Ordini
del capo, dopotutto, lui ha sempre appoggiato i piani
tedeschi» sospirò lei.
Non avrebbe davvero voluto, in verità, partecipare. Ma
c’era Gilbert con lei,
quindi sarebbe andato tutto bene. Sicuramente.
Dall’altra
parte, la nazione prussiana era, in un certo senso, lieto di avere
accanto
l’amica che aveva conosciuto per ormai secoli. Non che
volesse che lei entrasse
sul campo di battaglia. Ma sapeva calmarlo ed a fargli mantenere il
sangue
freddo, dal momento che il suo “magnifico ego”
necessitava di concentrazione per
riuscire a trionfare sui nemici.
«Questo
mi ricorda quella volta che hai chiesto il mio aiuto» sorrise
compiaciuto,
provocando la rabbia repressa dell’amica al pensiero.
«Hai dichiarato il
Burzenland un tuo territorio senza il mio permesso!» gli
sibilò, al quale il
vecchio Ordine Teutonico rispose: «Il tuo capo di allora me
l’aveva comunque
offerto».
«Quello
successe dopo che tu ti sei
prepotentemente preso un mio
territorio!» disse secca l’Ungheria, cercando di
tenere bassa la voce, poiché
molti dei loro uomini stavano finalmente prendendo sonno.
Guardò inferocita gli
occhi vermigli di Gilbert da cui trapelava superbia, che la sfidava in
un gioco
di sguardi a sua volta. «Suvvia, non dovresti essere
riconoscente a colui che
ti ha protetta allora?» la incalzò in tono
provocatorio.
«Oh,
ma
sta’ un po’ zitto» gli ruggì
sempre più irritata, decidendo di non reggere più
gli occhi della nazione a fianco a lei. L’altro si mise a
ridere, ma Elizabeta
fu lasciata lì a maledirlo in tutte le lingue che conosceva.
Perché mai aveva
pensato che si sarebbe sentita bene accanto ad uno come lui?
La
risata dell’amico si spense silenzioso, e forse, colpito da
un po’ di
malinconia, le disse: «E poi sei andata a vivere da
Austria».
Sebbene
non fosse stata una domanda, Elizabeta confermò con un
«Sì».
«Non
mi
hai mai chiesto l’aiuto per ribellarti a quel
damerino.»
«Alla
fine sono riuscita a riottenere l’indipendenza
comunque.»
«Poi
sei corsa in suo aiuto nella mia guerra contro di lui.»
«Non
potevo lasciare Roderich in tua balia.»
«Speravo
che mi avessi sostenuto quella volta.»
«Non
hai mai mandato una Maria Teresa da me a chiedere aiuto.»
«Ma
ora
sei qui.»
«Te
l’ho detto, ordini del capo.»
«Quindi,
se non fosse stato per lui, non saresti venuta?»
Gilbert
ricevette di nuovo lo sguardo di Elizabeta. La vide muoversi un
po’ goffa,
forse in imbarazzo, forse un po’ a disagio. «Non
è questo quello che intendevo»
gli rispose infine. Per un po’ stettero in silenzio
– solo il crepitio debole
del fuoco che lo riempiva – poi la ragazza gli sorrise.
«Ti avrei sostenuto
comunque. Dopotutto, sei mio amico.»
L’altro
rise. «Ita-chan mi ha prestato una copia della Divina
Commedia un paio di
settimane fa» riprese l’albino.
«C’è un passo che dice – si
schiarì la gola con
fare importante – “Nessun
maggior dolore
/ che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria”»
recitò con il suo accento
tedesco, che fece ridere la ragazza. Gilbert la ignorò,
anche se, doveva
ammetterlo, l’italiano era ridicolo se parlato da lui.
«Forse
dovremmo solo… non so. Scappare. Andare via, da qualche
parte.» I
suoi occhi scarlatti
cercarono lo sguardo smeraldino dell’amica, e quando lo
trovarono si persero in
esso, malinconico, come una nave poteva perdersi nel vasto oceano senza
una
bussola o una mappa. «Solo
noi due. Come ai vecchi tempi.» Perché gli
mancavano i giorni in cui erano solo Prussia e Ungheria e basta, e
nient’altro,
e solo quello.
«Hai
ragione» rispose con semplicità lei, lasciando
trasparire un lieve sorriso
dalle sue labbra.
«Dopo
questa guerra,» riprese l’albino,
«dovremmo andare ad una battuta di caccia
insieme ancora una volta.»
Elizabeta
annuì, e rise.
Entrambi
erano lieti di ciò che avevano in quel momento,
perché c’era troppo da perdere
e troppo da guadagnare.
C’era
la
fine. E c’erano i modi per spezzare un cuore.
Quel
giorno, appena sveglia, sentì una strana sensazione
incomberle nel petto. Era
stanca e ancora scossa dalla guerra, ma pian piano si stava
riprendendo. Ma era
diverso, era diverso e non sapeva perché.
Il
pomeriggio incontrò Russia. Nemmeno lui aveva una bella cera
(dopotutto, quale
nazione era mai uscito da una grande battaglia senza essere nemmeno un
po’
spossato?), ma dovevano ancora occuparsi di alcune pratiche e documenti
riguardanti i territori che, amaramente, la nazione ungara aveva dovuto
cedere
due settimane prima.
«Ivan»
disse lei, una volta che la riunione finì, «non
credi che oggi sia
particolarmente tranquillo?»
Non
le
rispose. Invece, stette a fissarla con uno sguardo bizzarro, quasi di
dispiacere, che per una volta non le fece paura. Ungheria lo
guardò a sua volta
perplessa. Per un momento stettero in silenzio, ma poi la voce di
Russia lo
spezzò all’improvviso.
«Ho
sentito Ludwig ieri,» le disse, «forse dovresti
fare un salto a casa sua.»
L’accompagnò
perché aveva delle faccende da sbrigare con il tedesco. Per
tutta la durata del
viaggio non parlarono, solo qualche altro commento sulla suddivisione
dei
territori e poi niente. Elizabeta riusciva perfettamente a cogliere
quella
tensione che non aveva mai sentito accanto all’Unione
Sovietica.
Quando
arrivarono a casa di Germania, altre auto erano parcheggiate in strada.
Ungheria non riuscì a capire di chi fossero,
poiché inesperta di macchine, ma
la risposta le fu data quando Ludwig aprì la porta a lei ed
a Ivan.
Sia
Francis che Antonio erano lì. Le rivolsero un debole
sorriso. Ancora una volta,
Ungheria fallì nel cogliere cosa c’era di
sbagliato nell’aria soffocante che
alleggiava nell’abitazione. Roderich ruppe il contatto visivo
appena lei tentò
di chiedergli spiegazioni attraverso lo sguardo.
Poi
ci
fu la parte peggiore. Feliciano, da gran piagnucolone che era,
l’abbracciò
stretta farfugliando espressioni incomprensibili tra le lacrime
– «Era qui,
stava bene, Eliza, se n’è andato,
perché, non piangere» – un singhiozzo
dopo
l’altro, e fu in quel momento che quell’orribile
sensazione le mise sottosopra
lo stomaco, le divorò prima le forze, poi la ragione, ed
infine il cuore.
Quando
finalmente l’Italia Settentrionale la lasciò andare,
fu la volta di,
sorprendentemente, Ludwig. A differenza di Feliciano, lui le diede un
abbraccio
debole e poco stretto, come se avesse paura che, da un momento
all’altro, lei
potesse collassare in mille pezzi. «Eliza» disse,
aggrappandosi al nome.
«Elizabeta.»
Era
vulnerabile e lei, colpita dall’improvvisa realizzazione, non
fece altro che
deglutire e chiudere gli occhi. Avrebbe dovuto saperlo. In fondo, da
giorni non
vedeva l’amico d’infanzia, e le poche volte in cui
si erano incrociati per caso
lui non aveva fatto altro che lanciarle uno sguardo che, solo in quel
momento,
Elizabeta seppe interpretare come un “Mi dispiace”
sussurrato tra un “Sto
bene”, “Tra poco sarà tutto
finito”, “Ritornerò fantastico come
sempre”. Una
frase lasciata ad invecchiare tristemente come una poesia nascosta tra
degli
appunti scritti con noncuranza e fogli di documenti importanti nel
cassetto. Un
ultimo ricordo di un’infanzia e adolescenza ormai lontana da
quell’epoca.
Forse
quello
sguardo era semplicemente un’affezione inserita nel momento
sbagliato e al
posto sbagliato, magari era persino rivolto alla persona sbagliata.
Oppure non
era nemmeno un’affezione.
«Non
ho
potuto farci niente» sospirò Germania.
«Avrei davvero voluto che restasse.»
«Lo
so,»
disse Ungheria, «lo so. Nessuno desiderava che finisse
così, non crucciarti.»
Stava cercando di rassicurare l’amico, ma tanto sapeva che
l’unica che avrebbe
voluto avere una forte spalla su cui piangere era lei.
C’erano
milioni di modi per spezzare un cuore, e Gilbert aveva scelto proprio
quello.
Ti
sei ritrovato alla mia porta, proprio
come tutte quelle volte passate, indossi la tua scusa migliore, ma io
ero lì a
guardarti andar via. E tutte le volte che ti ho fatto entrare, solo per
farti
andare di nuovo, sparire quando ritorni, tutto migliora. […]
Questa è l’ultima
volta, non ti farò più del male.
— The last time, Taylor Swift ft. Gary
Lightbody
«No,
Gilbert, non posso. Sono occupata.»
Ungheria
guardò seria l’amico d’infanzia,
che sbuffò sonoramente alla sua risposta. «Tu sei sempre occupata, diamine!» si
lamentò Prussia, «Non
dovresti ignorare il fantastico me. Lo sai che odio
aspettare!»
«Oh,
piantala. Sai bene che è colpa tua. Se
non avessi dichiarato guerra a Roderich-san avrei sicuramente avuto un
po’ più
di tempo libero!» lo ammonì Elizabeta. Fu seguita
dallo schioccare della lingua
dell’altro, scocciato.
«Dai,
Eliza, cosa ti costa fare una
passeggiata a cavallo con me? Magari potremmo fare anche una gara, come
ai
vecchi tempi!» insistette Gilbert, sempre più
irritato dalla non disponibilità
della nazione ungara. Dall’altra parte, Elizabeta
roteò gli occhi, pensando che
no, l’amico non era cambiato nemmeno un po’
dall’ultima volta che avevano
conversato su terreno neutrale.
Gli
lanciò un’occhiata rassegnata,
sospirando forte. «Gil, sai cosa comporta essere una nazione
come noi e quali
doveri abbiamo come tali. Non posso, davvero, dovresti
capire» disse lei, prima
di voltarsi ed aprire la porta della propria abitazione.
Nel mentre,
sentì uno strano silenzio da
parte della nazione prussiana, ma prima che potesse chiudere la porta,
l’altro
parlò. «Non abbiamo avuto tanto tempo per parlare,
ultimamente.»
Elizabeta si
sorprese al cambio
d’atteggiamento dell’amico. Si voltò e
lo guardò. Sembrava quasi un bambino,
con quel viso contratto in una smorfia – rassegnazione,
riuscì a leggere.
Forse aveva
ragione. Forse doveva semplicemente
lasciare stare tutto e basta, sciogliersi un po’. E forse
tutto ciò che Gilbert
voleva dirle era che era stanco tanto quanto lei di tutti quegli eventi
che si
erano susseguiti, e che aveva bisogno di ritornare ai giorni sereni.
Abbozzò
un amaro sorriso in sua direzione,
scrollando le spalle.
«Sarà
per la prossima volta.»
N/A:
Woah, qui dentro ci sono un
sacco di riferimenti storici.
Ad
ogni
modo, sono felice di aver potuto finire di scrivere questa fanfic. EFP
ha
bisogno di più PruHun nella sezione di Hetalia! Ed
è la mia prima fanfiction in
questo fandom. Mi sono ricordata di questa coppia quando ho iniziato il
mio
ask-blog su Ungheria (PUBBLICITÀ
OCCULTA. meheheheeh), e, ommioddio, è
diventata la mia OTP forever.
Il
titolo della storia era inizialmente “27
febbraio 1947”, per poi passare a “Nearer,
My God, to Thee” (che non c’entrava
niente, ma mi sembrava carino e
richiamava anche Titanic) ed alla
fine “L’affezione”.
Francamente,
credo che questo sia uno dei titoli migliori che abbia dato alle mie
fanfiction
LOL
Come
vi
ho detto, ci sono molti riferimenti storici. Nella parte della guerra,
la
storia è ambientata durante la spedizione
“Operazione Barbarossa” del 1941, che
consisteva nell’invasione dell’Unione Sovietica.
Sebbene si fosse dichiarata
neutrale, l’Ungheria mandò circa 300 mila soldati,
se non mi sbaglio, a
sostegno di quelli tedeschi, ma alla fine l’operazione fu un
totale fallimento.
Inoltre,
nella penultima parte, sto parlando del Trattato di Parigi del 1947,
nella
quale l’Ungheria cedeva molti dei suoi territori agli altri
paesi, una delle
quali è l’URSS. È curioso il fatto che
questo trattato fosse stato stipulato
appena un paio di settimane prima del 27 febbraio, data in cui la
Prussia
scompare ufficialmente. Infatti, avevo già in mente di
inserire diversi
personaggi alla fine, ed avevo letto da qualche parte che la Russia
aveva in
mano l’Ungheria dopo la seconda guerra mondiale. Volevo
semplicemente mettere
in risalto l’umanità di Ivan davanti a certi
sentimenti, soprattutto alla
perdita di una persona cara.
Oh,
vero! Ci sono stati due periodi in cui il Regno d’Ungheria e
l’Impero Austriaco
avevano creato un’unica unità. La prima volta nel
XVII secolo, quando l’Ungheria
venne gradualmente assorbita dall’Austria dopo certi eventi,
la seconda nel XIX
secolo, con l’ufficiale formazione dell’Impero
Austro-Ungarico che durò fino alla prima guerra mondiale. Quindi,
il fatto che ho scritto che Elizabeta aveva sposato Roderich qualche
mese dopo che
Gilbert aveva scoperto che lei era una ragazza è in un certo
senso errato, e mi
scuso.
E
come
potete notare, ho anche inserito qualche riferimento di letteratura.
All’apertura
della one-shot, c’è un estratto dal Romanzo di
Tristano ed Isotta. Era una
lettura estiva e, francamente, non l’avevo letto del tutto.
Ma poi ho dovuto
farlo perché c’era una verifica in vista
(immaginatevi 9 capitoli interi in una
sera), e mi è piaciuto abbastanza da farmi decidere di
rileggerlo una seconda
volta, molto più decentemente.
C’è
anche un passo dalla Divina Commedia. A dir la verità,
l’adoro. È qualcosa di
stupendo, anche se non posso dire altrettanto per il suo studio. Ma mi
piace un
sacco. Vorrei farvi notare che quei versi sono presi dal V Canto
dell’Inferno, e
sapete qual è la loro particolarità? Fanno parte
della storia di Paolo e
Francesca, che erano, rullo di tamburi, amanti. E il passo ci sta
perfettamente
in quella situazione.
Ricordo
che il fiordaliso è il fiore nazionale della Germania, e
rappresenta il
desiderio di felicità per qualcuno. E trovo anche questo
piuttosto curioso, se
inserito nella fan fiction. /ride
E
sono
davvero entusiasta per l’uscita dell’album Red
di Taylor Swift. Attualmente, le mie canzoni preferite sono All too well, The
last time, Begin again
e Red stesso.
Direi che è
tutto. Sto anche pensando di
tradurre questa fanfic in inglese, e se qualcuno fosse interessato a
leggere l’eventuale
versione, è libero di dirmelo!
Grazie
per aver letto questa mia storia. Non so se ne scriverò
un’altra in questo
fandom, dal momento che sono piuttosto impegnata con la scuola e
l’ispirazione
viene solo di notte – quindi, vi sto scrivendo alle 1.
Perdonate gli obbrobri
grammaticali che ho sicuramente fatto qui dentro fudinf
Alla
prossima, si spera!
Noth
aka Rainy.
PS:
queste note si sono allungate solo perché ho spiegato tutti
i riferimenti che ci sono stati LOL
|