Il
ragazzo della finestra di fronte
OCCHI
CHE NON VEDONO
Lo sguardo alle volte
può farsi carne,
unire due persone più di un
abbraccio.
6
Novembre 1997
La
prima volta che lo vidi avevo sette anni, un orrendo taglio a
caschetto e ridicoli fuseaux rosso vermiglio appiccicati addosso come
una seconda pelle e magnificamente abbinati a un maglione verde mela
fatto ai ferri da mia nonna Ines. Tenevo stretto, tra le dita della
mano destra, il corpicino di una barbie anoressica, accuratamente
agghindata con vestiti alla moda e scarpe con tacco dodici mentre con
l'altra mi aggrappavo alla lunga gonna nera di mia madre. Piccoli
occhiali con le lenti rotonde gravavano in bilico sul mio naso mentre
un'insolita fitta neve scendeva lenta ricoprendo le strade di un
manto bianco da almeno due giorni; dicevano che non nevicava
così
incessantemente da trent'anni.
La
prima volta che lo vidi avevo sette anni ed ero troppo distante per
poterne scrutare le linee, saggiare i sapori e distinguere le
sfumature dei colori.
La
prima volta che lo vidi aveva un buffo cappello grigio con un pon pon
in testa, un paio di jeans strappati sulle cosce e una giacca nera,
forse un po' troppo striminzita per essere della sua taglia, a
coprirlo dal freddo. Teneva strette le mani nelle tasche camminando
a testa bassa sul vialetto sciatto della casa di fronte alla mia, la
casa dell'uomo nero, dei fantasmi e del lupo cattivo.
Era
solo, nessuno a cui aggrapparsi per non scivolare era lì ad
aspettarlo.
Pensai
che era impossibile che quello fosse un bambino perché, mi
dissi, i
bambini sono colorati e non sono mai soli. Ancora, però, non
potevo
sapere che per lui non c'è mai stata l'età
dell'innocenza.
22
Marzo 1997
La
seconda volta che lo vidi il mandorlo in giardino era in fiore, mio
padre era impegnato nell'ardua impresa di montarvi su di un ramo un'
altalena il cui sedile era la ruota della nostra vecchia Fiat
Cinquecento e mio fratello camminava frenetico e ansioso di fronte al
nostro cancelletto di ingresso indossando il completo della
domenica. In casa si respirava odore di lasagne, di pollo arrosto e
di patate al forno e la tavola era stranamente apparecchiata per
cinque.
Il
sole era caldo e avevo un vestito a fiori rossi, che mia madre mi
aveva obbligato ad indossare nonostante non amassi le gonne, e i
capelli erano raccolti in corte trecce alla Pippi Calzelunghe.
Saltavo e correvo, sporcandomi le scarpe bianche di fango, attorno a
mio padre mentre mia madre, invano, gli gridava dalla finestra della
cucina di agguantarmi per spedirmi dritta da lei. Quel giorno
continuai a dimenarmi per il cortile finché lui non
arrivò,
già da allora ero “la preferita” di mio
padre.
L'erba
del suo giardino era poco più bassa di me, non c'erano fiori
né
altalene. La sua casa era inodore, incolore, silenziosa, disabitata,
avrei detto abbandonata se non fosse stato per le urla che talvolta
la notte mi costringevano a tapparmi le orecchie per paura che l'uomo
nero potesse venire anche da me. Ancora non potevo sapere che i
fantasmi, gli orchi e i lupi cattivi possono essere più
vicini di
quanto sembrino.
La
seconda volta che lo vidi era solo mentre attraversava la strada per
raggiungere casa nostra. Aveva una camicia con dei grandi scacchi
neri e bianchi, la testa bassa e le mani nascoste nelle tasche,
rimase titubante di fronte al cancelletto spostando il peso del
proprio corpo da un piede all'altro fin quando mio fratello non lo
tirò dentro afferrandolo per un braccio e tenendolo stretto
a sé.
Quella volta lo capii subito che il loro era già amore.
La
seconda volta che lo vidi scoprii che aveva dodici anni, che non
amava le lasagne e che odiava l'odore di cucina.
Scoprii
quanto fosse bello osservarlo parlare a stento, corrugare le labbra
ad ogni forchettata e arricciare il naso quando mia madre si
apprestava ad aprire il forno.
Quella
fu la prima e l'ultima volta che entrò in casa mia, ancora
però non
sapevo che il mio mondo non lo avrebbe abbandonato con la stessa
facilità.
4
Luglio 2005
La
terza volta che lo vidi avevo quindici anni, il caldo torrido estivo
era soffocante ed era notte fonda. Nonostante ciò, fuori
imperversava un acquazzone, i rami del mandorlo battevano convulsi
sui vetri della finestra ed io stavo comodamente stesa sul mio letto
nella penombra della camera rischiarata dalla fievole luce della
lampada con “Orgoglio e Pregiudizio” stretto tra le
mani. Mi
chiesi se anch'io, come Lizzie, mi sarei lasciata sfuggire da sotto
il naso un Mister Darcy per poi costringermi a rincorrerlo per non
perderlo definitivamente.
Distinsi
chiaramente la disinibita e allegra voce di mio fratello rimbombare
tra le mura dei palazzi del vicinato nel tentativo di cantare con
tutto l'ardore possibile “Il coccodrillo come fa?”,
intervallata
da sporadici singhiozzi di dolore e di risa. Mi affacciai e un
sorriso divertito affiorò sulle mie labbra nel vedere Italo,
fradicio, urlare a perdifiato con le braccia rivolte verso il cielo
mentre lui lo colpiva con dei pugni sui fianchi
per farlo
azzittire.
Mio
fratello Italo era ubriaco e non appena aprii la porta di casa non si
curò per nulla della mia presenza ma si dileguò
svelto al piano di
sopra con ancora un risolino stampato in volto, non prima
però di
aver sferrato una pacca sulla spalla a quello che, capii in quel
momento, era ormai diventato per lui un fratello. Quella volta mi
chiesi perché lui lo avesse scelto,
perché si fosse affidato
a quello stesso Italo campione dei secchioni che fino a quel momento
era riuscito a pararsi il culo solo perché bello e abile con
le
femmine. Forse perché erano simili o più
probabilmente perché
erano talmente diversi da abbisognarsi a vicenda, necessariamente.
Gli opposti si attraggono sempre: è una legge fisica.
La
terza volta che lo vidi avevo quindici anni, ero scalza, indossavo il
pigiama con disegnate sopra le stelle e i cavallucci marini e avevo i
capelli scarmigliati. Rimasi immobile a fissare la sua figura
stagliata di fronte alla mia domandandomi se si ricordasse di me, di
quella bambina con le scarpe bianche sporche di fango, il vestito con
i fiori rossi e le trecce alla Pippi Calzelunghe.
Lui
aveva diciannove anni, era fradicio e indossava una maglia nera e un
paio di jeans. Lente impertinenti gocce di pioggia fluivano lungo il
profilo del suo naso, delle sue labbra e poi giù, lungo il
collo
fino ad avvallarsi nelle cavità delle scapole, lì
dove non c'era
nessun nero inchiostro a contaminare la pelle. Rimasi incantata a
osservare lo scollo di quella maglia troppo larga appiccicataglisi
addosso, dal quale si intravedeva, segnata a fuoco, un'unica lettera,
una “I” in stampatello, semplice, senza ghirigori e
fronzoli da
femminuccia, un marchio indelebile sul suo corpo. Mi chiesi se quel
solitario grafema gliela avesse portata quella speranza che i suoi
occhi spenti faticavano a bramare.
La
terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato.
Una spessa cicatrice solcava il suo volto, sfregava la sua pelle in
una linea che, sfacciata e insolente, rigava lo zigomo destro fino a
scendere alla guancia sinistra deturpando le labbra; era
perfettamente rettilinea e simmetrica nel suo andamento sbieco come
se volesse beffeggiarsi di quella meravigliosa e armoniosa
brutalità
di lineamenti decisi e marcati che mi faceva girare la testa. Non lo
so perché lo feci, non ricordo l' ardore che
azionò il mio braccio
e poi la mia mano, so solo che mi mossi per quanto fosse intenso il
formicolio dei miei muscoli, l'accarezzai per tutta la sua lunghezza,
percorsi quella greve piega imprimendone il tracciato nella mia
mente, ne saggiai le forme, la morbidezza, le increspature
disegnandone una mappa sui miei polpastrelli, sfiorai con il solo
dito indice i luoghi da lei segnati per paura di spezzarla, di
cancellarla.
La
terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato e
pensai che al mondo non sarebbe esistito niente di più bello.
Aveva
i capelli neri incollati alla faccia e in mano teneva una bottiglia
di rum ancora da iniziare. I suoi occhi erano offuscati, smarriti,
cinerei come le nuvole autunnali, nessuna sfumatura a colorarli,
imbambolati a guardare le espressioni del mio viso, mentre la mia
mano scandiva, ipnotizzata, i contorni del suo, ma senza vedere nulla
realmente. In un secondo il suo sguardo si fece madido di livore e le
sue dita furono leste a circondare con forza il mio polso e a
scansare i miei polpastrelli dalla sua pelle, la sua figura si
allontanò poco dopo barcollando per la strada. Mi chiesi se
il
giorno seguente si sarebbe ricordato di me, della ragazzina scalza,
con il pigiama bellamente adornato da stelle e cavallucci marini e
con i capelli scarmigliati, della ragazzina dalle dita impertinenti;
mi domandai se quegli occhi annebbiati un giorno mi avrebbero visto
davvero.
Dopo
quella, miliardi furono le volte in cui lo vidi fino a quella in cui
iniziai a sperare di poter ascoltare ancora la sua voce sussurrare a
stento scarne parole, di poter ammirare i suoi occhi adombrarsi e di
poter godere nuovamente del calore della sua pelle, celato al di
sotto di quell'infima incisione, fino a quella in cui non ebbi la
consapevolezza di essermi innamorata.
Tuttora,
però, sto ancora aspettando che i suoi occhi mi vedano per
la prima
volta.
La
guardò. Ma d’uno sguardo per cui guardare
già è una parola
troppo forte. Sguardo meraviglioso che è vedere senza
chiedersi nulla,
vedere e basta. Qualcosa come due cose che si toccano – gli
occhi e
l’immagine– uno sguardo che non prende ma riceve,
nel silenzio
più assoluto della mente, l’unico sguardo che
davvero ci potrebbe
salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato
dal
vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le
ferite
delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro
sentire-vedere-sentire– perché sarebbe nulla di
più che un
meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il
mondo – ricevere – senza domande, perfino senza
meraviglia –
ricevere –solo– ricevere– negli occhi
– il mondo.
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