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Capitolo 28.
Dale City, Virginia
Il sole filtrava attraverso i tendaggi sottili, lo sguardo si spostava
attraverso la stanza soffermandosi su tutti quei particolari che la
rendevano così femminile. Tende leggere di pizzo, una toletta
con il ripiano invaso di cosmetici e barattoli di crema, la trapunta
con un disegno floreale. Non era mai stato nella stanza di una ragazza
ed era curioso, mentre sentiva il peso della testa di lei sul braccio.
Spencer si girò lentamente fino ad abbracciarla e nascondere il
viso fra i suoi capelli. Era sicuro che non avrebbe più
dimenticato la notte appena trascorsa, quel suo concedersi piena di
fiducia e quell’abbraccio carico di sentimenti in cui
l’aveva stretto. Non si era mai sentito così amato e
accettato, d’altro canto non aveva mai provato
quell’insieme di amore, desiderio e senso di protezione.
Mentre Hope dormiva ancora, lui meditava sulla sua vita e sul suo modo
di essere. Aveva eretto muri altissimi per evitare che la gente lo
ferisse. Nella vita aveva provato lo struggente dolore del sentirsi
abbandonato e si era detto più volte che non voleva ripetere
l’esperienza. Dopo Gideon, si era chiuso ancora più in se
stesso, vivendo la vita solo attraverso i suoi sogni. Non poteva
tollerare il pensiero che qualcuno gli facesse del male, ancora una
volta.
Quanto può sopportare una persona? Quante volte si può
trovare la forza di rialzarsi? Eppure la notte prima aveva messo in
gioco il suo cuore con lei, l’istinto gli diceva che lei non si
sarebbe comportata come gli altri, che non l’avrebbe lasciato o
fatto soffrire. Cosa lo rendeva così sicuro? L’amore, in
fondo, era una reazione chimica: un incremento nel cervello di monaime,
dopamine, norepinefrine e seratonina. Riportò alla mente tutti
gli ultimi studi sulla monogamia e l’amore rapportati nel tempo.
La sua mente scientifica si scontrò per la prima volta con un
muro più duro da abbattere. Qualcosa gli diceva di accantonare
tutte quelle nozioni in un angolo remoto del suo cervello e seguire
solo il proprio istinto. C’erano coppie che restavano insieme per
tutta la vita o, almeno, fino alla morte di uno dei due: perché
non poteva succedere a loro? La sua parte razionale, quella che di
solito era la predominante, veniva zittita da qualcosa che non sapeva
spiegare. Perché aveva la certezza che quel rapporto era
destinato a durare nel tempo? Solo perché avevano fatto sesso?
Serrò gli occhi. Il pensiero di definire quello che c’era
stato fra di loro con la parola sesso gli dava fastidio, anche se
doveva ammettere che era quella la definizione più appropriata.
I rapporti si costruiscono sulla fiducia, questo aveva imparato stando
con la squadra. Non ci può essere nessun tipo di rapporto
duraturo senza la fiducia e lui voleva credere in Hope. Da questo
assioma venne un’altra considerazione: il comportamento della
ragazza prima che lui si decidesse a rivelarle quello che provava. Lei
aveva i suoi stessi timori, ora si rendeva conto che la colpa era anche
e soprattutto sua.
La loro relazione si sviluppava solo nella vita della ragazza: si
incontravano sul posto di lavoro di lei; lei parlava del suo passato e
di cosa le succedeva tutti i giorni; gli raccontava della cugina,
Fanny, l’unica vera amica che avesse. Lui cosa faceva per farla
sentire benaccetta nella sua vita?
La sentì muoversi fra le sue braccia e se la strinse contro un
po’ di più. Il calore del suo corpo e quel profumo di
buono che emanava gli davano il coraggio per fare un passo
inconcepibile per lui.
- Buongiorno – Hope aveva la voce leggermente
impastata dal sonno, ma si percepiva anche una nota di felicità.
- Buongiorno – Spencer balbettò
leggermente, mentre nascondeva il viso nei capelli di lei – Si
sta facendo tardi.
- Sono solo le otto – rispose lei guardando la sveglia – Oggi non lavoro.
- Ho promesso ad Hotch… anzi, abbiamo
promesso, che oggi avremmo terminato i nostri rapporti – sentiva
le guance divenire due tizzoni ardenti – Ci ha mandato via prima
ieri, ma in cambio dobbiamo andare in ufficio oggi.
- Ho capito – sembrava delusa – Allora sarà meglio che mi alzi e ti prepari la colazione.
- Non faccio in tempo – fece pressione sulle
braccia per non lasciarla andare – Devo passare a casa, farmi una
doccia e cambiarmi. Stavo pensando… sai, sono sempre io che ti
passo a prendere al lavoro quando ci vediamo…
- Vuoi che ci diamo appuntamento in un altro posto?
- No… ehm… solo che magari, stavolta
– si stava impappinando e se ne rendeva conto benissimo, si disse
che era meglio buttare fuori la cosa tutto d’un fiato –
Perché non mi passi a prendere tu in Accademia?
Aveva detto tutto a macchinetta e ad una velocità sconcertante.
Hope batté le palpebre un paio di volte, convinta di aver capito
male. Ingoiò e si mise a sedere sul letto, coprendosi alla
meglio con il lenzuolo.
- Stai dicendo che posso passare in ufficio da te? – lo guardava stupita.
- Beh… ecco… - le guance di Reid
avevano assunto una colorazione rossa preoccupante – Se non passi
in ufficio, come fai a venirmi a prendere?
- Non… non ti creerà problemi?
- No, non credo… voglio dire… la ex moglie di Hotch passava spesso a trovarlo.
- Ehm… mi farebbe… - era il suo turno
di diventare rossa – Mi farebbe immensamente piacere.
- Allora siamo d’accordo – Spencer si
girò cercando di agguantare i propri vestiti – Lascio il
tuo nome alla guardia di servizio… devi portarti un documento,
altrimenti non ti rilasciano il pass.
Hope era girata dall’altra parte mentre lui si rivestiva.
L’aver fatto l’amore non abbatteva la sua naturale
timidezza in fatto di nudità. Anche se, doveva ammettere, la
notte prima non le era dispiaciuto togliersi i vestiti con lui
presente. Al ricordo diventò ancora più paonazza, mentre
ascoltava il fruscio degli indumenti. Spencer, nel frattempo, stava
facendo il giro del letto con le scarpe in mano e si mise a sedere
accanto a lei.
- Dovrei riuscire a liberarmi per mezzogiorno,
così andiamo a pranzo insieme in qualche locale carino. Ce ne
sono un paio in zona – finita l’operazione di allacciarsi
le scarpe si tirò in piedi – La sezione è al terzo
piano. Non puoi sbagliarti: appena esci dall’ascensore
c’è una grande porta a vetri; oltrepassala e la mia
scrivania è proprio in fondo alla sala.
Si chinò a baciarla, riflettendo che decisamente erano campioni mondiali di rossore da imbarazzo.
Accademia FBI, Quantico, Virginia
Si era fermata ad osservare il via vai nel grande atrio. La guardia
alle sue spalle aveva ritirato il suo documento, dandole, in cambio, un
pass con sopra scritto “Visitatore”. Le aveva indicato
distrattamente il grande ascensore che si trovava dall’altra
parte della sala, che pullulava di persone vestite tutte uguali.
Si rese conto che, anche se la foggia degli indumenti era uguale per
tutti, i colori delle magliette e delle felpe era diverso. Erano
evidentemente studenti, vista l’aria informale di quel vestiario:
ma, allora, perché non avevano tutti gli stessi colori?
Era talmente presa a spremersi le meningi su quel mistero, che non si
era resa conto che qualcuno si era fermato al suo fianco. Notando, con
la coda dell’occhio, l’ombra ferma accanto a lei si
girò. L’uomo aveva sui sessant’anni, era vestito con
un paio di jeans, camicia e giacca. Lo sguardo era paterno e il mento
era circondato da un pizzetto. Riconobbe subito uno dei colleghi di
Spencer e cercò di non arrossire.
- E’ qui per fare domanda? – chiese Rossi con un bicchiere colmo di caffè in mano.
- No… io veramente…. Sono venuta a
trovare una persona – tornò a guardare le persone che si
affrettavano lungo i corridoi.
- Capisco. Si è persa? Ho notato che è ferma qui da un po’.
- Veramente, mi stavo chiedendo il perché
della differenza di colori – si morse la lingua, pensando di
essere sembrata sciocca.
- Ottima domanda e ottimo spirito di osservazione
– si congratulò l’anziano profiler con un sorriso
– Qui non ci limitiamo ad addestrare futuri agenti federali.
Ai nostri corsi partecipano anche poliziotti, medici legali,
agenti dell’Interpol… persino alcune forze
dell’ordine straniere mandano qui i loro agenti per dei corsi di
approfondimento.
- Quindi i colori servono a indicare a colpo
d’occhio di che categoria fanno parte i vari studenti –
meditò Hope a voce alta.
- Come dicevo: ottimo spirito di osservazione. Sicura di non voler fare domanda?
- No, io… - divenne rossa, timorosa che
l’uomo la stesse prendendo in giro – Sono solo una
bibliotecaria.
- Non conta il tipo di lavoro che fa adesso o la
laurea che ha conseguito. Ci occupiamo noi, poi, di addestrarla come
meglio si conviene alle sue capacità.
- Va sempre in giro a cercare nuove reclute, agente Rossi? – chiese la ragazza con un sorriso.
- Ci conosciamo? – l’uomo la scrutò dubbioso.
- No, ecco io… ehm… Spencer mi ha
parlato di lei – si rese conto di aver fatto il nome di Reid e si
portò il pugno chiuso davanti alla bocca.
- Lei conosce il dottor Reid? E’ qui per lui?
– vedendola annuire e diventare rossa, David si lasciò
scappare un sorriso.
Le posò una mano sulla schiena e le fece un cenno con la mano che teneva la tazza.
- Venga, l’accompagno di sopra, signorina?
- Jones, Hope Jones – la ragazza rialzò
lo sguardo e fu sollevata di vedere il sorriso paterno dell’uomo.
- So che gli altri hanno finito i loro rapporti e
stavano solo aspettando Hotch per consegnarli. Sarà il caso di
sbrigarci, non vorremmo far aspettare il suo ragazzo?
A sentire definire così Spencer, ad Hope per poco non
andò di traverso la saliva. Decisamente Rossi sentiva più
di quanto gli veniva detto.
Continua…
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