Sub
lege Libertas
“Con il cuore nel
fango” come
cantavano i Matia Bazar: così quella mattina appariva Roma
agli
occhi assonnati dell’Ispettore Angelo Colasanti. Il
lastricato di
Piazza del Collegio Romano sembrava il dorso di un rettile:
l’acqua
sporca ristagnava negli interstizi tra un sampietrino e
l’altro con
riflessi color petrolio, e il cielo riusciva ad essere ancora
più
cupo della facciata di Palazzo Doria Pamphilj. Su tutto regnava un
silenzio irreale, pesante come l’umidità che era
entrata nella
stanza dalla finestra spalancata.
Era un finale
d’estate insolitamente
piovoso e l’Ispettore, che era metereopatico, lottava a
fatica
contro l’emicrania. Il turno di notte si stava trascinando
come una
lunga agonia, e nemmeno le frequenti pause che si concedeva con una
scusa o con l’altra lo aiutavano a renderlo meno sgradevole:
odiava
scrivere verbali, odiava lottare con parole che si incastravano tra
loro come tessere di puzzle diversi. Come ultima speranza aveva
provato ad affidarsi all’aria della notte, ma non era fresca,
né
leggera, né confortante. Sbuffò.
Guardò l’orologio e vide che
ancora troppe ore lo separavano dal letto, estrasse dalla tasca dei
pantaloni il cellulare e vide che non c’erano messaggi che
avrebbero potuto risollevargli l’umore. Niente di niente, lo
schermo era insolitamente vuoto.
L’ispettore
aggrottò la fronte e con
un movimento secco del pollice tirò su lo schermo, liberando
la
tastiera: era preoccupato, voleva sapere cosa era successo.
Provò a
scrivere un messaggio, ma anche in quel caso trovare le parole fu
un’impresa: cancellò tutto e decise di rimettersi
al lavoro.
L’Ispettore
Angelo Colasanti si era
trasferito a Roma da poco più di un anno e non era affatto
uno di
quelli che ne aveva subito il fascino. Gli affitti erano talmente
elevati che era costretto a vivere in una stanza come un ragazzino al
primo anno d’università, e questa condizione gli
sembrava ancora
più umiliante quando metteva piede in Commissariato, un ex
convento
con tanto di chiesa sconsacrata annessa. Gli faceva impressione
incrociarne la facciata, soprattutto quando smontava da un turno di
notte, proprio come sarebbe capitato tra qualche ora. Gli sembrava di
essere più il protagonista di una fiction televisiva che un
poliziotto vero.
Come ci si potesse vantare
di lavorare
in un posto del genere Angelo Colasanti non l’avrebbe mai
capito:
sapeva solo che sedere alla scrivania lo faceva sentire a disagio,
aveva come l’impressione che i muri si muovessero per
schiacciarlo,
come se si volessero vendicare per il torto subito. In quei momenti
l’ispettore ripensava a sua nonna e alla sua abitudine di
masticare
assieme al cibo preghiere in un latino storpiato, una sottospecie di
lingua personale. Diceva che aiutavano a proteggere la casa dal
malocchio.
Sua nonna era fatta
così, si votava a
Sant’Anna e agli spiriti con la stessa identica fiducia, come
se
fossero le due facce di un’unica medaglia. Roma, con la sua
bellezza intaccata da sacche di squallore gliela ricordava fin
troppo. Forse era per questo che non riusciva ad abbandonarsi a lei e
al suo fascino: sua nonna usava spesso il battipanni per punirlo, e
per una strana associazione mentale di idee Colasanti si era convinto
che prima o poi anche quella città avrebbe finito per
trattarlo
nella stessa maniera. D’altronde, a dar retta alle sue
credenze,
già solo il fatto di lavorare in un ex convento era un
motivo più
che sufficiente per finire all’Inferno. “Fortuna
che è morta da
dieci anni.”, pensò l’Ispettore con un
sospiro di sollievo. Di
sicuro non avrebbe approvato quasi niente del suo stile di vita: per
lei a trent’anni compiuti un uomo doveva già
essere padre di
famiglia, mentre Colasanti non ci teneva affatto ad avere figli.
Qualcuno accanto sì, ma di sicuro non quel genere di donna
che
manderebbe in brodo di giuggiole un’anziana contadina
abruzzese.
E nemmeno, a dirla tutta,
una discreta
fetta di poliziotti presenti in quell’edificio.
Il telefono cellulare prese
a vibrare
nella tasca, illuminando con un riflesso bluastro la stoffa dei jeans
e interrompendo la sfilata di pensieri lugubri che si era appena
affacciata alla mente dell’Ispettore. Si trattava del
messaggio che
stava aspettando: nulla di particolarmente eclatante, solo una
rassicurazione e un augurio di buona notte, ma più che
sufficienti
per farlo rilassare un po’, facendogli abbozzare perfino un
sorriso.
No, sua nonna decisamente
non avrebbe
approvato, ma era importante curarsi dell’opinione di chi
è cibo
per i vermi già da dieci anni? E aveva senso farsi
suggestionare da
fantasmi vecchi di quattrocento anni?
Colasanti alzò
gli occhi verso la
parete di fronte: c’erano calendari meticolosamente ordinati,
crest, targhe e diplomi vari, c’era una storia nuova che
cercava in
tutti i modi di soffocare quella vecchia.
“Sub lege
libertas”: non era
questo, in fondo, il motto della polizia? Nella legge e al di sotto
della legge, nella storia e al di sopra della storia.
Un cuneo conficcato nella
sua vita come
un chiodo al centro di un cuscino di piume.
Il cellulare
vibrò una seconda volta
con maggiore insistenza: una telefonata.
“Sì?”
“Non hai risposto
al messaggio. Mi
hai rotto tanto le palle perché te lo mandassi appena
rientrato e
poi non rispondi. Stronzo.”
“Hai ragione,
scusa.”
Colasanti prese a
giocherellare con
l’angolo di un foglio, tormentando con l’unghia la
graffetta che
lo teneva fermo.
“Come
è andata la festa?”
“Meglio di quanto
credessi. E tu?”
“Non vedo
l’ora di staccare.”, si
lasciò sfuggire. “Mi manchi.”
“Vieni da me
quando hai fatto,
potremmo fare colazione insieme.”
L’Ispettore fece
una smorfia.
“No, dai, non mi
va di disturbarti.
Vediamoci domani sera, avrò un aspetto migliore.”
“Domani sera? In
teoria avrei da
fare.”
“E in
pratica?”
Dalla cornetta giunse una
risata.
“In pratica
facciamo che mi dici a
che ora hai intenzione di presentarti.”
Colasanti fece finta di
prendere tempo
per pensarci.
“Facciamo per le
sette?”
“E sette
siano.”
“Vai a dormire,
adesso.”
“E tu non
stancarti troppo.”
L’Ispettore
alzò gli occhi al cielo,
ma in realtà stava sorridendo. Per quanto odiasse ammetterlo
adorava
quelle piccole attenzioni, quella preoccupazione sincera che mai una
persona estranea aveva mai mostrato prima per lui.
“Buonanotte,
Stefano. Vedi di fare
bei sogni, tu che puoi.”
L’altro
schioccò le labbra
rispondendo con un bacio.
L’Ispettore
spense il telefono, lo
gettò di malagrazia sul tavolo e poi si afferrò
la testa con
entrambe le mani.
Si sentiva un verme.
Era entrato in polizia a
diciannove
anni per avere una scusa per andare via di casa senza pesare sul
bilancio familiare, e col tempo si era ritrovato a dire di essere
felice di avere delle responsabilità, un posto del mondo che
non
fosse soltanto anonima routine. Una felicità che,
però, pretendeva
enormi sacrifici. Per anni infatti Angelo aveva provato a ignorare i
segnali, a far finta che la mente non avesse fantasie e il corpo
pulsioni. Aveva ammesso tardi con se stesso di essere omosessuale, e
quando finalmente lo aveva fatto si era raccontato un’altra
bugia,
cioè che in fondo non sarebbe stato difficile gestire questo
suo
lato nascosto. Sarebbe bastato non creare legami profondi.
Con i colleghi,
innanzitutto, in modo
da passare inosservato il più possibile, evitando inviti a
cena e
conseguenti domande sulla sua situazione familiare e sentimentale.
In secondo luogo con gli
amanti. Niente
relazioni, solo battute notturne di caccia nei locali.
Il trasferimento a Roma, da
questo
punto di vista, gli era sembrata una specie di manna, ma in
quell’ultimo anno anziché spassarsela aveva dovuto
fare i conti
con una solitudine sempre più opprimente, dovuta al
cambiamento di
sezione e alle ulteriori difficoltà che questo comportava.
Nacque così la
sua storia con Stefano.
Era di poco più
piccolo di lui, capelli neri e un pizzetto che lo faceva
somigliare
a un nobile d’altri tempi, ed era il proprietario del bar
dove
andava a fare colazione tutte le mattine.
All’inizio aveva
pensato che le
attenzioni che gli riservava, i sorrisi, gli sguardi maliziosi e i
vari “offre la ditta” facessero parte di quel
repertorio che i
baristi usano per fidelizzare i clienti, ma ben presto si era reso
conto che nascondevano ben altre intenzioni.
Non ricordava con
precisione come
fossero andate le cose, era stato Stefano a condurre il gioco e lui
quasi si vergognava di avergli ceduto con tanta facilità.
Quasi, perché in
fondo si sentiva
sollevato che per una volta fosse qualcun altro a prendere decisioni
anche per lui.
Tutto ciò che
riguardava Stefano
sapeva di buono, dall’atmosfera del bar frequentato per lo
più da
operai insonnoliti all’odore di caffè di cui
pareva impregnata la
pelle. Stefano amava la sua vita, che in passato non era stata facile
per via della morte di una sorella, e Colasanti amava la sua forza di
volontà, la serenità con cui affrontava i piccoli
scogli
quotidiani, lui che era riuscito a superarne di così grandi.
Lo ammirava, e gli faceva
male doverne
tradire costantemente la fiducia e le aspettative.
Stefano infatti gli aveva
già chiesto
varie volte di trasferirsi da lui, o al più di prendere una
casa
assieme, ma Angelo si era sempre opposto per via del lavoro e di
ciò
che una convivenza del genere avrebbe comportato.
Stefano ribatteva
facendogli notare
quanto il lavoro gli stesse rovinando la salute, che se era per i
soldi non c’era problema, che in fondo anche lui avrebbe
preferito
dedicarsi a qualcosa di più tranquillo perché lo
schifo a volte era
troppo e lo stomaco non reggeva.
Il passaggio alla Terza
Sezione si era
rivelato, infatti, un autentico disastro.
Gli omicidi erano una cosa
difficile da
digerire.
Non era tanto il
ritrovamento di un
cadavere in sé a sconvolgere, quanto il contatto coi
parenti: vedere
una moglie urlare, un padre strapparsi i capelli, vedere due fratelli
stringersi uno contro l’altro era uno spettacolo straziante.
Non era l’orrore
della morte a
lasciare segni indelebili, ma l’immedesimazione col dolore
altrui.
E
l’immedesimazione aveva portato con
sé quella solitudine che per la prima volta gli aveva fatto
desiderare di avere qualcuno accanto.
Qualcuno che non sarebbe
piaciuto alle
monache del convento delle malmaritate, a sua nonna, ai suoi colleghi
e in generale allo Stato di cui era dipendente, e solo per via del
sesso di appartenenza.
Assurdo.
Mentre Colasanti faceva
partire
mentalmente un’arringa in difesa di Stefano e
dell’amore che
provava per lui qualcuno bussò alla porta
dell’ufficio.
L’Ispettore
rispose in maniera
distratta, fintamente assorto nella lettura di una circolare
ministeriale, credendo che fosse il collega Martini, uscito in pausa
e sparito nel nulla.
Invece era un giovane
agente dai ricci
un po’ troppo lunghi e la voce bassa e sottile.
“Buonasera. Avrei
bisogno di parlare
con l’Ispettore Colasanti.”
“Sono
io.”
“Sono
l’Agente Miele, vengo
dall’ufficio denunce…”
“Che è
successo?”
Ormai era talmente abituato
a questo
tipo di emergenze che l’Ispettore era già in piedi
che si infilava
la giacca.
“Una ragazza. Si
tratta di
aggressione.”
“Hanno tentato di
violentarla?”
“Non
proprio… è complicato.”
“Allora vengo
subito.”
Il giovane agente
indugiò un secondo
nell’ufficio, perso a osservare le pareti sovraccariche.
Colasanti lo
richiamò bruscamente
all’ordine. Scesero le scale in silenzio, ciascuno intento a
riordinare le idee per prepararsi a fronteggiare la situazione.
“È
ferita? C’è bisogno di
accompagnarla al Pronto Soccorso?”
“No, in
realtà no.”
“Va bene, allora
ce la portiamo lo
stesso. Ma che ti dice il cervello?”
“Ispettore,
guardi, le cose non
stanno esattamente come pensa lei.”
“Va bene, va
bene, questa l’ho già
sentita. Cerchiamo di sbrigarci.”
Non sapeva bene
perché ma una strana
rabbia stava invadendo l’Ispettore Colasanti.
Una rabbia ingiustificata,
priva di
obiettivo, una rabbia cosmica resa più aspra dalla
privazione del
sonno.
Forse un presentimento.
Quando la porta si
aprì la prima cosa
che notò fu una cascata disordinata di capelli biondi tinti
male che
cadevano su un giacchetto fucsia.
La seconda cosa che
notò fu che il
giacchetto rosa aveva dei piccoli teschi che sembravano in
realtà
piccoli fiori bianchi.
La terza cosa che
notò fu uno sguardo
tagliente, nero e cerchiato di nero, uno sguardo che sembrava un
AK-47 per potenza di fuoco e resistenza.
A differenza di molti
colleghi Angelo
Colasanti non amava dare soprannomi, ma in quel momento gli venne
automatico definire la ragazza “Lady Kalashnikov”.
“Buonasera,
Signorina. Sono
l’Ispettore Angelo Colasanti della Squadra Mobile. Mi hanno
riferito che lei è venuta qui per denunciare
un’aggressione.”
La ragazza lo
squadrò con un
sopracciglio alzato.
“Veramente
è il suo collega a voler
denunciare me.”
Colasanti le
indicò col dito l’agente
Miele, che in segno di difesa alzò le mani come a dire che
lui non
c’entrava niente.
“No, non
è lui, il poliziotto che ce
l’ha con me è un altro.”
Colasanti avrebbe voluto
chiedere lumi
sulla faccenda quando bussò alla porta Martini.
“Oh, Angelo, ti
hanno mandato a
chiamare.”
“Si
può sapere dov’eri finito?”
“Niente,”
–Colasanti odiava la
pessima abitudine di Martini di iniziare le risposte con parole che
non c’entravano per niente con le domande- “Volevo
portarti il
caffè quando Miele è uscito per cercare qualcuno
della Mobile e a
quel punto sono rimasto a sentire che era successo.”
“Eh, appunto, che
è successo? Posso
saperlo anch’io? Qua Miele m’ha detto che la
Signorina … a
proposito, come ha detto che si chiama?”
Lady Kalashnikov non
sarebbe suonato
credibile nel verbale, e sarebbe stato decisamente fuori luogo in
quella conversazione.
“Arianna. Arianna
Savelli.”
La ragazza sembrava aver
addolcito i
modi, e questo permise a Colasanti di notare altri dettagli di lei:
l’estrema minutezza, ad esempio. Arianna non era solo magra,
aveva
proprio la costituzione aggraziata di una bambola di porcellana:
polsi sottili, mani piccole e affusolate, gambe nervose. Il contrasto
col carattere deciso era stridente e forse chissà, era per
attenuarlo che la ragazza si nascondeva in vestiti tanto vistosi.
“Dicevo: Miele mi
ha riferito che la
Signorina Savelli ha subito un’aggressione.”
“Beh, un
tentativo di aggressione”,
ribatté lei, drizzando la schiena.
“Un tentativo di
aggressione è
sempre di nostra competenza”, puntualizzò
Colasanti, sorridendo
benevolo come un patriarca.
“Un tentativo di
aggressione che si
sarebbe potuto evitare benissimo se la signorina qui presente avesse
evitato di aizzare il tizio che la stava insultando.”
Colasanti sbatté
le palpebre
disorientato.
“Secondo lei cosa
dovevo fare? Stare
zitta e magari farmi violentare per davvero? Ma lei li legge i
giornali? Lo sa quante aggressioni hanno subito i gay solo in
quest’ultimo mese?”
Prima che Martini potesse
ribattere
alla sua maniera Colasanti si intromise, cercando di mantenere una
parvenza d’ordine.
“Signorina, la
prego, non usi questo
tono col mio collega, o sicuramente finirà per essere
accusata di
oltraggio a pubblico ufficiale. E non è per questo che
è qui,
giusto?”
“No, non
è per questo. Ho subito un
tentativo di aggressione, fuori un locale di Via San Giovanni in
Laterano."
Se col primo riferimento
provò a fare
finta di nulla a quelle parole Colasanti non poté fare a
meno di
sbiancare.
Via San Giovanni in
Laterano è la Gay Street romana.
“Lei è
una frequentatrice abituale
di quel locale?”
“Sì,
ci lavora la mia ragazza.”
“È
omosessuale, quindi? È per
questo che l’hanno aggredita?”
Colasanti non aveva bisogno
di fare
tutte quelle domande né, tanto meno, di attendere le
risposte.
Sapeva già che era tutto vero, era lo stesso motivo per cui
si
preoccupava ogni volta che Stefano non lo avvisava di un qualche suo
rientro notturno, come nel caso di questa notte.
“Sì.”
Anche in quel momento, con
la voce che
tremava, gli occhi di Lady Kalashnikov non avevano perso un grammo di
intensità.
“Angelo, fatti
però spiegare come
sono andate le cose, sennò qui sembra che la signorina
Savella …”
“Savelli,
prego.”
Martini la
fulminò con lo sguardò.
Era un uomo alto e
corpulento, sulla
cinquantina, di orgogliosa origine campana. Avrebbe potuto
schiacciarla col solo palmo della mano, se solo avesse voluto.
“Signorina, la
prego, lasci perdere
il mio collega e mi spieghi brevemente cosa le è
successo.”
“Sembra che
stiate giocando al
poliziotto buono e a quello cattivo.”
“Senta, non
è il caso.”
Vedendo che anche quello
strano
Ispettore che era dalla sua parte stava perdendo le staffe Arianna si
decise a parlare.
“Ero andata a
prendere la mia ragazza
al lavoro e ci stavamo salutando…”
“Baciando,
ad essere esatti.”
Colasanti alzò
gli occhi al cielo,
invocando tutti i santi che gli erano venuti in mente.
“Va bene, va
bene, la stavo baciando,
ok? Stavo baciando la mia ragazza fuori il locale dove lavora, quando
un tizio ci vede e prende a insultarci. Io gli ho risposto per le
rime e questo ci ha seguite fino alla macchina e ci ha messo le mani
addosso.”
Nella stanza cadde un
silenzio pesante.
Colasanti era
progressivamente
impallidito e Martini, che non riusciva ad interpretare le reazioni
del collega lo stava fissando con aria interrogativa.
L’agente Miele
sedeva in un angolo,
bene attento a restare il più inosservato possibile.
“Le ha fatto del
male?”
L’Ispettore fece
fatica a nascondere
l’incertezza della voce.
“Mi ha allungato
uno schiaffo.”
“E la sua
ragazza?”
“La mia ragazza
sta bene, per
fortuna.”
“Non
l’ha accompagnata?”
“Sì,
ma ho preferito che rimanesse
fuori. Lo sapevo che tanto non mi avreste creduta.”
Martini tirò
fuori una risata che
sembrava un grugnito.
“Ecco, la povera
vittima! A parte
che quello che ha fatto lei, cioè baciarsi con
un’altra ragazza, è
immorale, ma poi vogliamo parlare del calcio in mezzo alle gambe che
ha tirato al povero tizio?
“Si trattava di
legittima difesa.”
“Se, se, in
attesa di testimoni si fa
presto a dire che era legittima difesa.”
“Ora basta, tutti
e due!”
Colasanti, esasperato,
batté un pugno
sul tavolo.
“Martini,
finché non sfocia negli
atti osceni in luogo pubblico la Signorina Savelli può
baciare chi
vuole ovunque lei voglia.”
“Forse nella
strada loro, dove
nessuno li disturba.”
“No, ho detto ovunque
e
basta.”
“Angelo, ma
niente niente sarai mica
omosessuale anche tu?”
Dal tono di voce si capiva
che Martini
si era trattenuto a fatica dall’usare la parola
“frocio”.
Per Colasanti quello fu uno
degli
istanti più tremendi della sua vita. Stava per prendere una
decisione di cui si sarebbe pentito amaramente. Gli sarebbe piaciuto
avere negli occhi la determinazione di Lady Kalashnikov, la sua
stessa adamantina volontà di difendere i propri diritti ma
la sua
situazione era diversa. Lui indossava una divisa, non era proprio un
militare ma il senso dello Stato era lo stesso, e lo Stato non si
può
tradire, per quanto ingiusto e sbagliato.
“No, non sono
omosessuale.”
Non bastò il
seguito della risposta,
negli anni a venire, a placargli del tutto il senso di colpa.
“Ma questo non
significa che non
abbiano dei diritti che noi abbiamo il dovere di difendere. A te
piacerebbe che qualcuno aggredisse tua figlia così, di punto
in
bianco?”
Martini reagì
con una smorfia.
“Angelo, io non
lo so che t’ha
preso stanotte e non lo voglio sapere, ma vediamo di sbrigarci con
questa denuncia e poi ognuno per la sua strada. Per come la vedo io
la signorina avrebbe dovuto stare zitta ed evitare di istigare
ulteriormente il suo aggressore, e quantomeno meriterebbe di essere
accusata di resistenza a pubblico ufficiale.
“Ma piantala!
Signorina, venga con me
e l’agente Miele al piano di sopra, così possiamo
firmare il
verbale e far partire le indagini per identificare l’uomo che
l’ha
aggredita.”
Arianna, o Lady Kalashnikov
parevano
aver compreso ciò che Colasanti aveva tentato di nascondere.
Forse era solo suggestione,
una delle
tante che caratterizzano quell’ex convento sconsacrato a
forza, ma
ad Angelo sembrò che Arianna avesse respinto la mano che
voleva
aiutarla ad alzarsi.
D’altronde,
pensandoci bene, non era
certo lei ad averne bisogno.
***
Questo racconto è
stato scritto all'incirca un anno fa, per un progetto che poi non
è andato in porto. L'ho ripreso in mano ieri e mi sono detta
che pubblicarlo era comunque più utile di tenerlo a muffire
in una cartella. Anche perché c'è un gran bisogno
di parlare di omofobia.
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