Jacob Fiddlemore si alzò dal suo
letto nelle segrete. Era in ritardo, le stanze erano completamente
vuote. Avrebbe rischiato di perdere non solo la colazione, ma anche
buona parte della prima lezione.
Quella mattina non se ne curò
per nulla.
Si infilò i primi abiti che
trovò in giro, forzando la sua testa a passare attraverso il
collo troppo stretto della camicia. Un bottone saltò via. Non
era importante. Non quella mattina almeno.
Osservò per alcuni istanti la
cravatta, indeciso se indossare ancora quel capo inutile. Fece alcuni
passi in direzione della sala comune, poi ci ripensò e tornò
indietro, afferrando con una mano la cravatta verde-argento e
iniziando ad aggiustarsela con calma. Non c'era alcun motivo di
calpestare l' etichetta pensò. Neanche quella mattina.
Ripercorse la stessa strada che aveva
percorso per due anni, su per le umide scale di pietra fino
all'Armatura Ululante (ricordava ancora lo spavento che prese il
primo giorno passandole vicino, finì in infermeria ancora
prima di essere entrato nel dormitorio. Il più veloce da 540
anni), poi a destra, altre scale ed infine la grande Sala. Aveva
impiegato meno tempo di quanto pensasse, traboccava ancora di
studenti impegnati nelle stupide chiacchere mattutine, a ingozzarsi
di salsicce e zucco di zucca.
Nessuno lo notò. Tutto come al
solito. Chi avrebbe mai dovuto notare un piccolo, anonimo Serpeverde
entrare a piccoli passettini, guardandosi attorno in cerca di un
amico che non avrebbe mai visto, per il semplice motivo che non
esisteva?
Da due anni Jacob entrava nella sala
sperando che qualcuno lo chiamasse, lo invitasse a sedersi vicino a
lui e lo coinvolgesse nelle stupide chiacchere mattutine, gli
passasse salsicce e corresse con lui a lezione. Da due anni sperava
invano. All'inizio sopportava pure gli insulti sulla sua origine
babbana, i vestiti ed i libri nascosti, gli scherzi, tutto pur di
avere il minimo contatto umano, quel poco da consentirgli di andare a
letto senza piangere in silenzio. Ma continuava a piangere, e ancora
nessuno lo aveva invitato a sedersi. Passato il primo anno, al
disprezzo si era sostituita l'indifferenza. Jacob ne era
dispiaciuto, gli piaceva sentirsi al centro dell'attenzione per una
volta, fosse anche solo per rimarcare come fosse sporco il suo sangue
o per ricordargli che era vicino il giorno in cui la feccia come lui
sarebbe stata spazzata via.
Tornare a casa non lo aveva neanche
considerato. Quando ai suoi genitori era stata recapitata la lettera
di ammissione ad Hogwarts, passato il periodo di incredulità,
c'era stata solo gioia. Non avrebbero potuto comunque iscriverlo ad
una buona scuola, non se lo potevano permettere: ora invece avrebbero
avuto non un avvocato o un dottore, ma un MAGO in famiglia, senza
neanche dover spendere una singola sterlina! Sua madre non aveva
chiuso occhio per due giorni. Neanche Jacob. Era il sogno di ogni
bambino avere poteri magici, e lui li aveva, sul serio! Già
immaginava gli anni a venire come i più belli della sua vita.
Si immaginava la sua intera vita come la più bella mai
vissuta. No, non poteva. Un' altra delusione...non la meritavano...
Si ritrovò a passare i suoi
giorni in biblioteca, lasciando che il suo animo che stava perdendo
anche gli ultimi vaghi ricordi di luminosa felicità lo
guidasse verso i libri dai nomi più evocativi ed oscuri,
sperando di trovare una cura, un incantesimo, qualcosa che lo
innalzasse.
Alla fine lo trovò, nascosto in
un libro della Sezione Proibita. Un incantesimo...sembrava fosse
stato scritto apposta per lui. Chissà quante volte doveva aver
posato lo sguardo su quella costa con le estremità in bronzo
oramai ossidato senza averla mai notata. Eppure ora lo aveva tra le
mani, raccolto da terra dopo averlo fatto cadere nel rimettere a
posto un libro appena finito. Un libro massiccio, rilegato in quella
che sembrava pelle di drago, con vistose borchie bronzee e un
simbolo, sempre in bronzo, Uno strano simbolo, molto semplice in
realtà, quasi di fattura grezza, ma che sembrava cambiare
sotto gli occhi dell'osservatore, come se il metallo fosse fuso e in
balia di un incomprensibile flusso. Vincendo il senso di inquietudine
iniziale, lo aveva aperto.
E lo aveva trovato.
Camminava a piccoli passi, ma qualcosa
era diverso.
Estrasse la bacchetta puntandola verso
il tavolo dei compagni Serpeverde. Ora l'avrebbero ammirato. Ne era
sicuro.
“Verbero!”
Urla. Molti non capirono nulla di
quello che era successo, a parte il dolore che riempì il loro
cervello di bianco.
“Verbero!”
Altre urla. Alcune vesti aperte come da
un colpo di frusta mostrarono la pelle sottostante, sanguinante per
le ferite apertesi quasi con grazia, perfette nel loro lacerare. Uno
studente del settimo anno si ritrovò scaraventato ad alcuni
metri di distanza, in mezzo ad un gruppetto di terrorizzati
Tassorosso.
“Verbero!”
Il tavolo si fracasso. Le vivande
saltarono in aria.
Jacob notò come ora gli sguardi
di tutti fossero puntati su di lui. Senza disprezzo. Senza
indifferenza. Questa volta era terrore. No, non terrore, questo è
rispetto, si corresse. Avrebbe voluto gridare per la gioia. Si limitò
ad osservare il delicato cromatismo creato dalle gocce arancioni di
succo mischiatesi con il sangue schizzato dal viso di una Serpeverde
del suo anno appena colpita.
Un raggio di luce scarlatta partì
dal tavolo degli insegnanti, colpendolo in pieno torace. Mentre
cadeva al'indietro Jacob sentì il suo respiro rallentare. Non
riusciva a mettere a fuoco bene ciò che gli stava attorno.
Chiuse le palpebre. Poi provò un improvviso, sconosciuto
calore, una pace infinita. e sorrise.
Per la prima volta si addormentava
senza piangere, pensò.
“Madame Chips!” urlò
Silente. Accanto a lui, la McGranitt, immobile, la bacchetta ancora
sollevata.
Ignorando gli altri studenti ancora
riversi a terra l'infermiera corse verso Jacob Fiddlemore. Pochi
secondi china su di lui, si rialzò e a voce bassa disse a
Silente, sopraggiunto: “E' morto. Lo Stupeficium ha fermato il
cuore, non posso fare nulla...”
L'anziano preside uscì con passo
lento dalla grande sala mentre professori e studenti aiutavano a
portare i feriti in infermeria.
Arrivato nel suo studio, non riusciì
a fare altro che piangere.
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