BIANCANEVE
Non riesco a capire perché sei venuto a
cercarmi, straniero: non credo per me, un vecchio di cent’anni, che se lo sente
addosso, il fiato puzzolente della morte. Forse vuoi sentire di questa città
fantasma, di come è nata dal niente e niente tornerà ad essere, quando la
giungla se la mangerà e di lei non sarà più nulla di nulla se non un covo di
serpenti e di ragni, esattamente com’era prima che nascesse, dall’oro, dal
caucciù e da sangue, Manaus, città corrotta e maledetta. Non era così, quando
avevo vent’anni e sognavo di fare fortuna, come tanti disperati, in questo
Paese grande come il continente da dove vieni, ricco come l’Eldorado e povero
come l’inferno, un Paese che uno come te non riesce neanche a immaginare nei
suoi sogni più belli e negli incubi peggiori. Oggi ero, ieri sarò, domani fui,
dice la mia gente, che ha nelle vene il sangue di tutti i popoli della terra e
si porta appresso quella malinconia delusa, quel rimpianto per qualcosa che ha
perduto senza rimedio che nemmeno la maschera di allegria senza fine del
Carnevale riesce a nascondere e che anche tu, nel tuo mondo, hai imparato a
chiamare come la chiamiamo noi: saudade. Nostalgia, o forse qualcosa di peggio.
Ma adesso basta. Ti hanno mandato fino qui
per chiedermi come mai non ce ne andiamo, io e quel pugno d’imbecilli che sono
rimasti? O per sentire delle storie? Alla prima domanda non credo che saprei
risponderti, ma storie da raccontare ne so quante ne vuoi.
*
Mi sembra che si chiamasse Couto, o
qualcosa del genere, e anche lui aveva trovato la sua piccola fortuna, qui a
Manaus, prima che gli Inglesi imparassero a coltivare l’albero della gomma
nelle loro colonie e la capitale del caucciù era questa e soltanto questa, nata
da un giorno all’altro come spuntano i funghi dopo la pioggia. Tu non hai la
più pallida idea di cosa fosse Manaus quando io avevo vent’anni. Allora poteva
succedere di tutto, a Manaus, e nessuno se ne sarebbe meravigliato; i
miliardari del caucciù si facevano costruire nella foresta ville meravigliose
e, siccome mancava il marmo, lo facevano arrivare dall’Italia; tutti quanti
esibivano le loro ricchezze con eccentricità pacchiana, tutto doveva essere
d’oro, perfino le sputacchiere. La mancia a un mediatore, la marchetta a una
puttana poteva essere un brillante da quindici carati. I più pazzi, mandavano
le camicie a lavare e a stirare a Londra. Tanto, il viavai tra l’Amazzonia e
l’Europa era tale! Erano una ventina, le linee mensili che facevano capo a
Manaus giungendo dai porti europei. Scaricavano il superfluo per i miliardari,
champagne, seta di Lione, profumi parigini e cipria per le loro puttane,
pianoforti e pezzi d’antiquariato. E ripartivano per l’Europa con le stive
cariche di caucciù. Era sorto il Palazzo di Giustizia, era sorta una cattedrale,
erano sorti grandi alberghi e un teatro dell’Opera da fare invidia a Parigi,
dove si esibivano i più famosi cantanti: niente era troppo caro per rallegrare
le serate dei magnati del caucciù. Costruirono perfino una ferrovia che avrebbe
dovuto convogliare verso il porto della folle Manaus il caucciù raccolto
nell’interno dell’Amazzonia boliviana e peruviana, nel bel mezzo dei territori
degli indios cannibali e due operai su tre se li portavano via la febbre gialla
o le frecce avvelenate dei xivaros cacciatori di teste. Il conto di
quante volte quest’impresa pazza sia stata mollata e ripresa l’ho perso, ma mi
pare che l’opera fosse stata portata a termine nel Tredici: giusto in tempo per
le onoranze funebri alla gomma brasiliana che i disperati chiamati seringueiros
andavano a cercare nel bel mezzo della foresta, e quanti ne siano crepati non
si sa ma non è difficile immaginarlo.
Couto, come molti di noi brasiliani, era
quello che chiamiamo un caboclo, un po’ indio, un po’bianco e un po’
negro. Si diceva che venisse dal Sertao, il posto più disgraziato della terra,
dove la canna s’è mangiata tutte le sostanze del terreno e se non vuoi
guadagnarti la fame leccando le scarpe a qualche fazendeiro che ti
tratterà peggio di uno schiavo, puoi solo farti cangaceiro o scappare.
Couto era poco più di un bambino, quando è scappato: la costa, Fortaleza,
Salvador, Belem. Jangadeiro, poi mozzo sui pescherecci, ma quando è
arrivato qui a Manaus era già ben oltre la quarantina e comandante di un
battello di sua proprietà. Da Salvador si era portato appresso pure una moglie,
una bella mulatta parecchio più giovane di lui. Tutti quelli che erano ragazzi,
allora, a Manaus, le sgranavano gli occhi addosso, a Regina, che aveva pelle di
seta e sguardo sognante. Stava con un vecchio, dicevano, e il vecchio la
lasciava spesso sola…Era una civetta, Regina la bella, che quando camminava per
strada, si voltava a controllare se i giovanotti la guardavano. Portava vestiti
eleganti, e pettini d’argento tra i capelli neri, perché Couto, col suo lavoro,
guadagnava bene. Non credo che avrebbe sposato un qualsiasi ubriacone di
Itapagipe, la favela schifosa dov’era nata e cresciuta, uno che si imbottiva di
cachaca già di prima mattina e l’avrebbe riempita di corna, di botte e
di figli, se non avesse incontrato Couto. Non era fatta per stare dentro una
favela, lei, anche se era solo una nera che discendeva da schiavi e credeva
nella magia del candomblé. Se non avesse incontrato Couto, pur di
andarsene da quel posto sarebbe diventata una puttana, ci avrei sommesso. O la
mantenuta di un gran fino, noi
li chiamiamo così, un magnate del caffè, della canna o della gomma, bianco o
nero non avrebbe avuto importanza, tanto qui da noi un negro ricco è un bianco,
e un bianco povero un negro, dovresti saperlo. Sono stato con lei, alcune delle
tante volte che Couto era imbarcato. Metteva anche nell’amore una frenesia che
faceva paura e, dopo, si guardava in uno specchio che le avevo regalato, con le
conchiglie colorate incollate alla cornice. Le piaceva, quel miserabile
specchietto da quattro cruzeiros. Forse era un retaggio del suo sangue,
da che il mondo è mondo si sa che ai negri piacciono le cose che luccicano,
anche se non valgono niente. O forse…Mi amava, pensavo, ma a vent’anni io non
ero che un povero illuso.
*
Un illuso, eh già, e se no che cosa? In
realtà, Regina non amava altri che se stessa, ma quando si è giovani di solito
si è stupidi davvero e non ci si accorge neppure dell’evidenza. La sentivo
gemere sotto di me, quando Couto navigava sul Fiume, e credevo che quello fosse
amore. Lui è un vecchio, mi dicevo da me solo, e una donna come Regina non è
fatta per amare i vecchi. Che cosa avrei potuto darle, se avesse preso il
coraggio a quattro mani e l’avesse lasciato? Il mio lavoro di contabile presso
un importatore inglese di caucciù mi consentiva di tirare avanti decentemente,
ma la mia risicata agiatezza non si poteva paragonare ai lauti guadagni del
proprietario e comandante d’un battello fluviale, e Regina non si sarebbe abituata
mai a vivere di amore e di pane, ad aspettarmi cucinandomi il pranzo e
spazzando il pavimento delle mie due modeste stanzette. Certo, allora avevo
ventitrè anni, uno meno di lei, e non ero un rozzo caboclo
semianalfabeta con la fronte bassa, la faccia chiazzata di barba e le braccia
come tronchi d’albero. Mi piaceva vestire con una certa ricercatezza e, senza
falsa modestia, ero piuttosto attraente: non molto alto ma snello e ben
proporzionato, bruno, una faccia dall’espressione intensa e nemmeno una goccia
di sangue negro dentro le vene; i miei nonni erano portoghesi e italiani, ed
ero solito controbattere con molta decisione a tutti coloro che attribuivano i
miei occhi scuri tagliati a mandorla al contributo di qualche antenato indio.
No, non ero razzista, non lo sono mai stato. Quasi nessun brasiliano lo è, del
resto. E poi la donna di cui mi ero infatuato e per la quale sarei stato
disposto a commettere qualsiasi pazzia non era forse una nera?
Sono dovuto arrivare a campare tutti gli
anni che sono campato, per capirla finalmente, la verità: il mio era un amore a
senso unico, ma mi condizionava l’esistenza. Cercati una brava ragazza,
sposatela, l’età ce l’hai, il lavoro per mantenere lei e qualche marmocchio
pure, che stai ancora ad aspettare non lo so…Mi avrebbe parlato così, mia
madre, se avesse potuto farlo, e altrettanto m’ avrebbero detto i pochi amici
che avevo e le poche ragazze perbene in quella città, marcia come una mela
bacata, che avrebbero potuto essere le prescelte. Ma io, niente. Continuavo ad
amare come un disperato quella splendida bambola nera che mi trattava come il
suo giocattolo e a odiare altrettanto disperatamente il brav’uomo che, ai miei
occhi, aveva il solo torto d’essere arrivato prima di me.
*
Regina e Couto non hanno mai avuto figli
loro. Doveva essere sterile, lei, visto che non l’abbiamo ingravidata, se non
suo marito, io o qualcun altro. A lui penso che avere un figlio sarebbe
piaciuto. Ci avrebbe giocato assieme, e quando avesse avuto l’età se lo sarebbe
portato appresso sul battello per insegnargli i rudimenti del mestiere, in modo
che, quando gli anni l’avessero costretto a smettere, gli sarebbe subentrato un
degno erede. E per insegnargli ad amarlo, il Fiume scuro di fango che tagliava
a metà la Selva e raccoglieva le acque di affluenti in confronto ai quali i
fiumi della tua Europa non sono che miserabili ruscelli. Lo avrebbe spaventato,
parlandogli degli indios cacciatori di teste e del guyo, l’anaconda, il
mostro divoratore di uomini che se ne sta nascosto negli acquitrini, proprio
nel cuore mai esplorato della Foresta. Gli avrebbe detto del giaguaro,
dell’aquila arpia che ha gli artigli grandi quanto il pugno di un uomo,
dell’avvoltoio papa, che vola sopra le cupole degli alberi più alti e che fa
strage di scimmie e di quelle buffe creature pelose che hanno la faccia di
bambini scemi e che gli zoologi chiamano bradipi. Se Regina avesse avuto da me
un figlio con la pelle chiara e gli occhi a mandorla, quello stupido caboclo
non si sarebbe accorto di niente, gli avrebbe voluto bene lo stesso, e avrebbe
avuto qualcuno a cui insegnare a navigare e da spaventare, dicendogli di quel
ragno che chiamiamo negra, il
cui veleno non perdona, del candirù capace di farti morire divorandoti
da dentro o dei pesci piraña che infestano il Fiume…C’è uno spirito del male
dentro la Foresta, che aleggia in quell’aria appiccicosa, in quella luce
verdastra filtrata dalle foglie delle piante, animata da sibili e grida. Gli
avrebbe parlato di quello spirito, che aveva zanne, e artigli, e veleno. Poco
importava se il bambino non avrebbe mai visto altri indios se non gli squallidi
mansos dai capelli pidocchiosi che, imbottiti di cachaca,
chiedevano l’elemosina lungo i moli; altri giaguari se non qualche pelle
tarlata, serpenti anaconda non più lunghi di bisce qualsiasi e magari pure
un’aquila spennacchiata o un avvoltoio papa dalle escrescenze multicolori
rinchiusi dentro miserabili stie per polli, e i piraña se li sarebbe gustati
arrostiti sulla brace, tu non hai idea di quanto siano saporiti. Sarebbe stato
difficile fargli credere che quello spirito c’era davvero, perché i bambini,
contrariamente a quel che si crede, è di ciò che conoscono che hanno paura. Ed
è bene che sia così, perché lo spirito del male non alberga nel mezzo della Foresta,
ma sta proprio dentro il cuore dell’uomo.
*
Non credo che Couto conoscesse il nome
della donna. L’aveva incontrata, prima che si ammalasse, ma le signore come
quella non guardavano i marinai, anche se lui sicuramente l’aveva notata,
pallida, bionda, elegante, vestita di nero e con un prezioso cammeo sotto la
gola. “Il nero non si confà al caldo di Manaus…” Avrebbe voluto dirglielo, ma
poi aveva preferito farsi gli affari suoi. Capace che la signora fosse vedova,
o che le fosse morto da poco qualche parente. Doveva essere straniera, con
tutto quel nero che si teneva addosso a dispetto del caldo: qui da noi, per
evidenti ragioni climatiche, il lutto si porta nel cuore, non sui vestiti. E
poi, l’aspetto che aveva: bionda, bianca come il latte, e con certi occhi
azzurri e sporgenti che sembravano sempre un po’ arrossati. Noi brasiliani,
anche quelli bianchi come me, difficilmente siamo così chiari. Quella doveva
venire da lontano, da qualche paese dove d’inverno fa freddo. A bordo, qualcuno
la diceva francese, qualcun altro russa.
Della bambina, Couto ignorò l’esistenza
fino al momento in cui la signora lo mandò a chiamare nella sua cabina. Era
bionda anche lei, e aveva sì e no un paio d’anni, una creatura dalle guance
paffute e dai capelli d’oro, più bella di sua madre, che qualche misteriosa
malattia, o semplicemente un’inguaribile tristezza, stava consumando
lentamente.
“So che avete buon cuore” gli aveva detto
con un filo di voce e quello strano accento chissà di dove ”Occupatevi
di…Blanche. Saprò ricompensarvi…”
Come non ebbe il tempo di spiegarlo,
perché la malattia o la tristezza non la lasciarono vivere abbastanza. E Couto
si ritrovò, lui negro, padre di una figlia bianca.
*
A Couto i bambini erano sempre piaciuti e
si affezionò a quelle figlia piovutagli dal cielo nonostante, ne sono sicuro,
se avesse potuto scegliere avrebbe preferito un figlio maschio. Le voleva bene,
anche se la vedeva poco. Regina, invece, era una madre distratta. Lo sarebbe
stata anche di un figlio suo, perché crescere un bambino comporta delle
responsabilità e lei, anche dopo sposata, in fondo era rimasta spensierata e
sciocca come una ragazzina. Voleva goderselo tutto, il benessere che le era
venuto dal matrimonio, e c’era da capirla, una nata e cresciuta nell’inferno di
Itapagipe, che quasi senza rendersene conto si ritrova legata a un uomo maturo
e benestante ma quasi sempre fuori casa; Regina era destinata a diventare
sguattera, e si ritrovava ad avere gioielli, vestiti di seta e una serva da
comandare. Perché non godersela, la vita? Perché non godersi tutto quanto,
anche quegli uomini che per strada si voltavano a guardarla e che avevano dalla
loro la gioventù e la bellezza che Couto non aveva mai avuto? La mocciosa era
un impiccio e, in assenza del padre, stava quasi sempre in cucina con la serva
o per strada imbrancata in mezzo a monelli di tutti i colori, sudicia e
spettinata come loro, che non avevano casa né famiglia. Non mi risulta che
abbia mai messo piede in una scuola e cresceva ignorante, libera e bellissima,
bionda come l’oro e bianca come la polpa del cocco in mezzo ai meninhos
che avevano gli occhi obliqui dell’indio, le teste lanose del negro e, sotto
diversi strati di sudiciume, tutte le gradazioni di colore della pelle
possibili e immaginabili, dal bruno pallido al nero intenso. Solo quando si
sapeva che Couto sarebbe sbarcato, Blanca, ricordo che la chiamavano così,
veniva lavata e ripulita, indossava la vestina coi pizzi, un cappellino di
paglia e usciva con lui. Mi capitava di incontrarli, la manina bianca di lei
nella manaccia nera di lui, a parlare fitto fitto e a guardarsi intorno. Le
piaceva il piraña arrostito e aveva già visto diverse volte, il manso
pidocchioso dal naso forato, ubriaco dalla mattina presto, che chiedeva
l’elemosina ai passeggeri che sbarcavano dai battelli, la pelle tarlata del
giaguaro assassino, l’anaconda non più lungo di una biscia, l’aquila arpia e
l’avvoltoio papa imprigionati dentro una gabbia per polli, tristi come sovrani
in esilio. Non era come le altre bambine che hanno paura di tutto, Blanca.
Sognava di vedere la Foresta, la foresta vera, non quella parodia malinconica
fornita ai ricchi annoiati di Manaus dai più squallidi dei suoi abitatori. Non
credeva che la Foresta fosse solo la
morte in un’infinita varietà di forme, il regno del sibilo, dell’agguato e del
pericolo di cui dicevano i grandi. Doveva essere l’ultimo Eden scampato alla
distruzione, alberi altissimi tra i quali un raggio di sole fatica a penetrare,
un regno fiabesco dove la luce è fatta
del riverbero delle foglie e delle ali di farfalle grandi come uccelli e di uccelli piccoli come farfalle e dove
vivono scimmiette rosse, rosa, dorate che somigliano ai piccoli abitanti di un
regno fatato. La Foresta cantava, rideva, squittiva, mormorava,
affascinava. La Foresta, con la sua
magia invincibile, poteva anche essere un rifugio. La Foresta, che abbracciava
la città e le si insinuava dentro, quasi a volersi riprendere quello che le era
stato tolto, non era l’essenza del Male. Il Male era altrove.
*
Blanca aveva appena compiuto quattordici
anni, quando accadde l’incidente che tolse Couto dal mondo. Uno di quegli
incidenti così stupidi da farti credere sul serio che noi siamo marionette, e i
fili li muove il destino. Scivolò fuori dal battello, chissà quante altre volte
gli era capitato, e senza conseguenze, era un forte nuotatore ed era sempre
stato bravo a cavarsi d’impiccio. Ma il caso aveva voluto che, quella mattina,
si fosse sbarbato e si fosse tagliato col rasoio: ai negri succede spesso, con
quella barbaccia dura e crespa che si ritrovano. E i maledetti piraña l’odore
del sangue lo fiutano da lontano. Aveva osato sfidarla troppo, la fortuna,
l’uomo del Sertao, e il Fiume non l’aveva perdonato. Curipira, il
demonio indio, l’aveva aspettato al varco, e ora Couto giaceva sepolto nello
stomaco dei pesci.
Blanca lo aveva pianto, Regina non so. Era
un uomo previdente, Couto, e in ogni caso non si piange a lungo quando si hanno
trentotto anni magnificamente portati e un discreto conto in banca, neppure se
di tuo marito non ti rimane nemmeno una tomba su cui inginocchiarti. Tanto,
Regina al cimitero non ci sarebbe andata perché i morti le mettevano paura, e
poi…Ho sperato che tornasse da me, adesso che era libera, lo confesso. E invece
è arrivato Joao, a guastare i miei piani. Un uomo contro il quale non potevo
niente, perché aveva vent’anni ed era bellissimo, il nero più bello che avessi
mai visto. Cosa facesse per vivere non l’ho mai capito, il lottatore di capoeira,
il danzatore o chissà che diavolo d’altro, diceva lui. Fatto sta che vestiva
come un damerino, portava grandi cerchi d’oro ad entrambe le orecchie e catene
grosse come un dito al collo: aveva fiuto a scovare le donne ricche, mature e
infelici da cui farsi mantenere, su questo non ci pioveva.
In un primo momento, mi illusi che quella
di Regina fosse solo un’infatuazione passeggera, ma sbagliavo. Era innamorata
come mai le era capitato, innamorata di un amore folle, disperato, devastante.
Dicono che succeda facilmente, quando si hanno quarant’anni e non si è mai
vissuto, per egoismo o per destino, un amore degno di questo nome. Lui era
bravo a fingere, ad assecondarla, e lei aveva messo la sordina alla sua
ragione. Ed era ammalata, ammalata d’una pazza gelosia di cui presto anche
Blanca avrebbe finito col fare le spese.
*
Da quando Joao era entrato nella sua vita,
Regina passava metà delle sue giornate davanti allo specchio con le conchiglie
incollate alla cornice, a chiedersi se era sempre bella e per quanto ancora sarebbe rimasta tale. E
bella continuavo a vederla anch’io, gli occhi scuri e sognanti, la pelle color caffelatte segnata da qualche ruga
soltanto, i denti bianchi e tutti sani. Avrei dato dieci anni della mia vita,
per sentirla ancora gemere tra le mie braccia,
ma il passato non sarebbe ritornato, e il suo presente era Joao. Un presente
senza futuro, ma era inutile dirglielo, perché l’avrei fatta soltanto piangere, imprecare e
maledire, e allora tacevo.
Blanca se ne stava spesso da sola.
Adesso, a quindici anni fatti, non giocava più coi monelli di strada: era alta
quasi come me e bella di una bellezza più unica che rara qui da noi, bianca e
bionda com’era, con quegli occhi
azzurri tra le lunghe ciglia dorate. Credo che Regina vivesse nel
terrore che Joao si accorgesse di lei, perché Joao aveva poco più di vent’anni
e il sangue bollente, e poi dicono che niente ecciti un negro come l’idea di
farsi una donna bianca, e lui ce l’aveva a portata di mano, bionda, bella come
il sole e ancora ragazza.
Me lo ricordo bene, Joao; era bello come
Dio, cattivo come un diavolo e nero come l’inferno. Picchiava Regina quando
questa non assecondava le sue continue richieste di denaro, glieli ho visti
anch’io i lividi sul viso e sulle braccia. E aveva cominciato a sgranare quegli
occhi, incredibilmente verdi per un uomo della sua razza, sulla piccola Blanca,
sicuro com’era che nessuna donna, nemmeno quella, potesse resistergli.
Regina soffriva, dacché il demonio della
gelosia aveva preso a roderle il cuore. Brutta bestia, quella, chi non l’ha
provata non riesce a rendersene conto; si può anche ammazzare, per gelosia…O
quantomeno a provare a chiamarla, la
morte: all’Equatore, non c’è niente di più precario dell’esistenza e, se Manaus
non era la Foresta, un serpente o un ragno velenoso, o qualcuna di quelle
febbri endemiche alle quali i bianchi sembrano particolarmente vulnerabili avrebbe potuto toglierle la ragazza da mezzo
ai piedi. Ma, a dispetto della sua aria fragile, Blanca era sana e robusta e
Joao continuava a guardarla voglioso, infischiandosene di Regina e delle sue
scenate di gelosia.
Manaus non era la Foresta, si ritrovava a
pensare Regina. Era una città grande e prospera e corrotta, la Babilonia
dell’Equatore, sorta dall’oggi al domani, come un fungo nato dalla pioggia,
alla confluenza del Rio Negro col possente Rio delle Amazzoni. L’oro e la
gomma, avevano reso possibile il miracolo, l’oro, la gomma e il sudore di quei
disperati che la gente chiamava seringueiros. Erano marmaglia, la feccia
vomitata dal Nordeste miserabile, dal Sertao crepato dalla sete, dal fango
delle favelas delle città sull’Atlantico. Bianchi, negri, indios e
derivati dalla mescolanza di due o più colori, accomunati dalla speranza remota
di fare fortuna e dal rischio reale di finire sbranati da un giaguaro,
avvelenati da un serpente o distrutti dal beri beri. Stavano dentro squallidi
accampamenti nelle radure, sorvegliati come schiavi dai capoccia dei magnati della gomma, e negli accampamenti ci
stavano pure le loro puttane, povere disgraziate il più delle volte portate via
con la forza, ragazzette giovanissime, destinate a placare le voglie di quelle
bestie…Regina si sorrise nello specchio e chiamò Blanca.
*
Che fine potesse aver fatto la ragazza se
l’erano domandato tutti quanti i vicini, ma in un paio di giorni altri
pettegolezzi più freschi e saporiti
avevano spento la loro curiosità in proposito. E’ scappata via con uno
straniero, la puttana. Quello che diceva Regina era verosimile, non poteva
essere per una come lei, piccola principessa delle nevi, un posto come Manaus.
Erano in tanti, a volersene andare da lì, ed era verosimile che anche Blanca lo
avesse desiderato. Quale avvenire, poi, lo straniero avesse intenzione di
riservarlo, non era dato saperlo, o, forse, era anche troppo facile
immaginarlo.
Regina era la sola a conoscere la verità,
ed era stata brava a tenersi dentro il segreto. Con i soldi che aveva
guadagnato, aveva comprato un’altra catena d’oro a Joao, con la speranza di
tenerselo stretto, e Joao continuava a starle vicino, ancora chissà per quanto,
si domandavano tutti, lui aveva ventidue anni, lei quaranta e il conto in banca
che le aveva lasciato Couto andava esaurendosi di pari passo con la freschezza
della sua carnagione. Ma non c’era più quella Blanca tra i piedi, ed era già
tanto. Non sentiva rimorso, credo, le poche volte che pensava a quel che poteva
essere stato di lei. Se fosse rimasta dov’era finita, quei bruti l’avrebbero
ridotta a un rottame in poche settimane. Se avesse tentato di tagliare la
corda, il niente l’avrebbe inghiottita nella sua verde, rigogliosa, mortifera
desolazione.
*
Ne parlarono anche in città, ma la gente
di Manaus era troppo scaltrita per credere a quello che alcuni esploratori, di
quegli inglesi biondi, ingenui e boriosi che, a intervalli regolari, sfidavano
la Foresta per portarci via i semi dell’Hevea, giuravano di aver visto.
Ma era possibile vedere qualsiasi cosa, nell’allucinazione di quel mondo
extraumano: i primi esploratori, nel delirio della paura, della febbre o chissà
di che diavolo d’altro, non avevano scambiato gli indios glabri e dai lunghi
capelli per donne guerriere?
La donna che dicevano aver visto aggirarsi
per la giungla in compagnia di sette piccoli cacciatori indios era molto più
alta di costoro. E inconfutabilmente bionda e bianca.
Nessuno, a Manaus, aveva creduto a quelle frottole. Nessuno,
meno Regina.
*
Dalle tue parti credo che lo chiamino
macumba. Qui si preferisce candomblè, forse perché suona meno sinistro, ma il
senso è lo stesso. Ci s’imbottisce di datura, si cade in delirio e si vedono
gli orisha, gli dei che arrivarono qui in Brasile con i carichi delle
navi negriere: Yemanjà, Xingu, Olokun.
Regina aveva visto le fiamme, nello
specchio con le conchiglie sulla cornice, e non aveva chiesto quello che i
negri di solito chiedono ai loro dei, amore e fortuna. Aveva chiesto morte, per
chi le voleva male e per la Donna di Neve. C’era, e vagava per la foresta con i
suoi amici indios che l’avevano accolta presso di loro quando era riuscita a
scappare dall’accampamento, gli esploratori non avevano avuto le allucinazioni.
Anzi, a sentire quello che si diceva, erano riusciti ad avvicinarla, a
parlarle, a guadagnare la sua fiducia: era una di loro, non chissà quale abominevole
mostruosità, una bella ragazza coraggiosa che era riuscita con le sue sole
forze a sfuggire a un terribile destino e perfino a trovare amici disposti ad
aiutarla in un ambiente ostile come quello della Foresta, che era costato la
vita a tanti uomini grandi e grossi e che, a lei, l’aveva protetta dal male.
Addirittura, un membro della spedizione, un giovane medico scapolo e di
bell’aspetto, s’era messo a farle gli occhi dolci e, quando gli dei stavano per
dar retta a Regina e Blanca era caduta in pericolo di vita per aver ingerito
alcune bacche velenose, lui l’aveva salvata. Si diceva che l’avesse portata in
battello fino a Belem e che l’avesse sposata. Certo, i forestieri sono strani,
pensava Regina sentendosi soffocare. E gli dei non mantengono ciò che
promettono.
Lo specchio non rifletteva più le fiamme,
ma il suo viso stravolto, gli occhi rossi. Era vecchia e brutta, Joao non
l’avrebbe voluta più. E adesso che i soldi di Couto erano finiti, si ritrovava
pure povera. Si sarebbe ridotta a mendicare per vivere, e Blanca, invece, era
felice. Sì, è ingiusta, la vita. Terribilmente ingiusta.
Raccolto dal nostro inviato in Brasile. Testimonianza di Eumir Coelho
de Arrujo, di anni 102.
Manaus, Amazonas, 1 Novembre 1936.
GLOSSARIO
Cangaceiro=
bandito
Seringueiro=
bracciante addetto alla raccolta della gomma.
Caboclo=
meticcio.
Jangadeiro=
barcaiolo.
Cachaca=
acquavite di canna.
Candomblé=
rituale magico di origine africana.
Manso=
indio “civilizzato”.
Meninho=
ragazzo di strada.
Capoeira=
lotta con mani e piedi, anch’essa di origine africana.