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Chapter n°15: I see Hollynuuk!
« N-Non
stanno pomiciando! » lo corresse Luk, mentre si malediceva per aver distrutto
quel capolavoro di pasticceria, adesso ridotto ad una massa informe e marrone,
per la quale ormai non era più valida la regola dei quattro secondi. Non era un
bello spettacolo. E ad i suoi occhi era uno dei più grandi sprechi di zucchero,
farina e amore, nonostante sul tavolo
al quale era appoggiata la sua sedia ci fossero abbastanza muffin da sfamare un
reggimento. Ma d’altronde la tragedia è tale soprattutto se viene vista nei
singoli casi, giusto? Il povero muffin che non verrà più mangiato, le papille
gustative che aspetteranno inutilmente la sua venuta, i denti che addenteranno
un altro strato di glassa… E intanto
Luk continuava a fissare il dolcetto, sperando che si ri-materializzasse
all’istante, tornando nella sua mano. Niente di ciò succedeva. Sarebbe dovuta
ritornare alla sua vecchia vita di studentessa in lotta contro i grassi.
« Ma da
che razza di eucalipto sei caduto?! » ringhiò, gli occhi che luccicavano di
rabbia, all’australiano. Il quale, sorpreso dal repentino cambio d’umore della
groenlandese – e per una causa del genere, poi – si limitò a fare un sorriso
ebete di chi non ci sta capendo un tubo, di quello che sta succedendo.
« Mi è
morto il muffin, ecco! » riprese quella, con voce lamentosa, ficcandosene un
altro – stavolta intero – in bocca e cancellando la voce dieta dai suoi impegni. « Lui era così carino e lo stavo mangiando
così bene… » una mantide religiosa non avrebbe detto altro. E, con le guance
ingrandite due volte tanto causa muffin, Luk non sembrava la persona più seria
del mondo. Forse per quello Jett si sentì quasi in dovere di dover richiamare
la figura professionale dell’analista. O forse perché, semplicemente, voleva
troncare i discorsi che gli portavano alla mente teste di amanti
sbocconcellate.
« Ah,
una volta sono andato da un’analista! Dovresti provare, è una figata! Ma il tuo
meetic è molto meglio, sì! » a pensarci, per quanto riguardava lo sforare,
Pipaluk e Jett non erano messi poi in modo tanto differente.
« Mpf-!
E chi credo, sto passando Halloween a
mangiare muffin, con un canguro accanto-! » e lo disse con melodrammaticità,
Luk, quasi stesse sacrificando la sua stessa vita per il bene di due (sperando)
futuri amanti. Beata Luk Cupido Martire in lana, ecco cosa si sarebbe dovuto
festeggiare, il trentuno di ottobre. E tutti a fare i meetic viventi. E lei ad
ammiccare ai suoi discepoli dal lucente paradiso inuit, dove le foche e le
balene si lasciano arpionare in pace e gli orsi sono teneri compagni di bevute.
« Almeno
è un canguro figo-! » appuntò quello. « … che vive nell’isola più grande del
mondo. » e qui fece un sorrisetto da vincente, saltellando verso la pista da
ballo. Luk gonfiò le guance – ormai svuotate dal muffin, ingoiato con foga in
un momento di odio verso l’Australia – per il disappunto, cercando nella sua
tonda testolina qualche frase ad effetto. Doveva vincere, stavolta. Lo scettro
di Margherita di Danimarca sulla propria testa e le battutine del danese in
classe erano già abbastanza.
« Anche
tu groenlandese, eh? » chiese, gridandolo quasi. Fu l’ultima battuta. Aveva
vinto.
* * *
Come
recitava il regolamento, tutti gli studenti sarebbero dovuti rientrare nel
college non dopo le dieci di sera, pena il trovare i cancelli ormai sbarrati al
più piccolo ritardo, chiusi automaticamente dal direttore che, con una
precisione svizzera, pigiava il bottone che rendeva l’istituto un mondo a sé
stante, protetto da una barriera invalicabile. Nonostante la presunta invalicabilità,
erano trapelati avventurosi racconti di studenti che erano riusciti a scamparla,
scavalcando i muri ed addormentandosi beatamente nei loro letti ad orari che
avrebbero fatto schiumare di rabbia il preside. Ma andiamo al dunque, ossia al
mesto ritorno alle ventidue di adolescenti stretti in strani costumi, con
troppo punch in corpo, gli ormoni in subbuglio e la testa per aria dopo gli
ultimi balli. Il gruppetto (che tanto etto
non era, poi) si distingueva facilmente tra la folla, non meno bizzarra in
quella notte, così compatto e allegro. Nessuno avrebbe pensato che ognuno di
quei goliardi giovini non avesse nemmeno un goccio di alcol nel sangue. Eppure,
strano a dirsi, erano ubriachi. Di aria, di punch, di muffin, d’amore. Ognuno a
suo modo, non poteva più definirsi sobrio. Sesel che si stropicciava il
vestito, seduta in un angolo della metro, persa in fantasie troppo dolci per
fermarsi, con Luk abbandonata sulla sua spalla, gli occhi socchiusi per la
sonnolenza dovuta ai troppi muffin (o per le troppe energie impiegate a cercare
una risposta decente, chissà). Tino col mento appoggiato al polso in un
equilibrio precario, che lanciava brevi e sfuggenti occhiate all’estone e allo
svedese. Il primo, troppo concentrato a propinare strategie su un videogioco
per pensare a qualcosa, il secondo che batteva un ritmo solo suo con il dito,
sul suo ginocchio, con il cervello in pappa per le troppe novità scaturite
dalla serata.
Una
voce limpida e senz’accento avvisò i passeggeri dell’aver raggiunto la fermata.
L’allegra comitiva si alzò, otturando tutte le uscite del treno in
un’accozzaglia di corpi che spingevano in cerca della luce artificiale della
stazione. A parte qualcuno che dovette affrontare un’altra fermata e scappare a
rotta di collo verso la scuola, sperando che la cancellata fosse ancora
dischiusa, gli altri uscirono dal treno sani e salvi. E forse fu a causa di un
improvviso attacco di sonno da parte del dirigente o per la fortuna, ma anche i
ritardatari la scamparono, oltrepassando le porte, ancora aperte alle dieci e
sei minuti di sera. Ritardatari tra i quali spiccava Alfred, che già si
atteggiava da veterano di guerra, non risparmiando particolari sull’adrenalina
che era diventata la maggior componente del suo corpo in quella folle corsa
verso la salvezza.
« Un after-party!
Ecco che si fa! » aveva poi esclamato lo statunitense, sulla cima delle scale
che l’avrebbero condotto al dormitorio maschile, con un branco di ragazzi
troppo su di giri per addormentarsi. L’approvazione – tutt’altro che silenziosa
– dei compagni non fu neppure troppo inaspettata, tanto che durante il celebre
after-party saltò fuori che già s’era provveduto a conservare birra e alcolici
poco costosi per un evento del genere. Brangiski confessò candidamente di aver
in camera abbastanza vodka per le prossime festività. E alcune bottiglie, a suo
dire, erano avanzate dall’anno precedente, fatto abbastanza sospetto per essere
passato per veritiero ma che, nell’euforia del momento, venne commentato con
ovazioni su ovazioni. Nessuno aveva più paura del coprifuoco, l’alcol nel
sangue era troppo perché si potesse provare un sentimento differente
dall’euforia. Euforia improvvisamente interrotta dal rumore sordo di una porta
sbattuta con violenza contro il muro. E poi il corpo del professore di
matematica del primo anno che si muoveva rigidamente nella camera affollata, il
dito puntato contro ognuno dei volti dei presenti, i rimproveri sputati con
violenza, gli occhi iniettati di sangue, i pochi capelli chiari sparati in
aria, anch’essi che sembravano additare ognuno degli studenti. Il paragone con
uno Stanlio esaurito non sarebbe stata azzardata.
La
minaccia dell’espulsione fu sibilata, a denti stretti, fece ritornare gli
allegri beoni pavidi come micetti, più impauriti dalla possibile reazione dei
genitori ad una punizione del genere che di altro. Micetti, però, abbastanza
ebbri da offrire, uscendo, pacche gratuite all’insegnante, ancora in quella
fase dell’ubriachezza nella quale non ci si pente di quel che si sta facendo,
ma in cui il solo pensiero di una strigliata e di una vita di rinunce confinati
nella propria camera conferiva abbastanza terrore da mantenere almeno una
remota area del cervello attiva e sobria,
finalmente. Della serie andiamo-a-dormire-ma-possiamo-farti-cadere-a-terra-con
un’-amichevole-manata-perché-ancora-non-capiamo-niente.
Tino si
era nascosto dietro la tenda, mentre quello sbraitava. E poi era sgattaiolato
via dalla stanza ad una sua distrazione, appoggiandosi ai muri del corridoio e
compiendo il tragitto un po’ saltellando, un po’ trascinandosi, con un sorriso
beato dipinto sul volto, tant’era l’alcol che circolava nel suo sangue. O al posto del suo sangue, giusto per
denotarne la concentrazione. Le mani gli tremavano un po’, forse perché qualche
minuto prima avevano stretto la sciarpa del russo – che oramai non riusciva più
a ragionare – abbastanza forte da far male. Era inebriato dal profumo della
vendetta, alito alcolico e sudore maschile e birra, puzza di chiuso di quella
stanza troppo piccola per contenere tutti. E nonostante ciò era dolce e faceva
montare in lui il desiderio di averne altre, di vendette, magari da sobrio. Un
ghigno bramoso scacciò il sorriso precedente, mentre il finnico si spalmava
sulla porta di quella che doveva essere la sua camera.
Berwald
era lì. Già troppo intontito da tutto per partecipare ad un after-party ed imbottirsi
di alcolici, troppo confuso per dormire. E quindi aspettava che arrivasse
l’altro, fissando un immaginario soffitto che non vedeva, con il buio e la
miopia. Vagava nella noia e nell’oscurità, attento ad ogni minimo rumore. Un
corpo abbandonato contro la porta. Una risata, strana. Forse era Tino. Oh, sì
che era Tino. Aveva memorizzato la sua voce, sapeva come rideva e quanto amasse
l’alcol. Aveva alzato il gomito, sicuro, e aveva bisogno di lui, che stava già
tastando disperatamente il comodino alla ricerca degli occhiali e… oh, si era
già rialzato. E aveva sbattuto qualcosa contro la porta, per farsi aprire.
Qualcosa di grosso e duro.
La
testa.
« Ah, sa! Quand’ero ancora un baldo giovine
non pensai inizialmente a quest’opzione, oh-oh! » avrebbe esclamato il
Dottor Berwald, intervistato in una trasmissione del pomeriggio da una valletta
d’annata, mentre dava piccoli colpetti colpi col gomito a suo marito, che
avrebbe ridacchiato con lui. E così tutto lo studio. E anche gli unicorni,
fedeli compagni. Ma per le battute squallide di un vecchio dottore c’era ancora
tempo.
« Be~er, apri la porta! » lo pregò il
finlandese, con una voce alquanto zuccherosa. Berwald poteva vederlo con le
guanciotte piene e rosa, infilato in un
vestito alla Holly Hobbies, mentre si
tormentava un ricciolo dorato. « Ti pre~ego~! » immediatamente, lo svedese si
alzò. Aveva troppo potere su di lui e poi non era propriamente colpa sua,
quanto dei suoi ormoni. Lui seguiva solo l’istinto. Istinto che gli sarebbe
stato davvero utile, adesso che non trovava più gli occhiali, muovendo
disperatamente le mani davanti a sé, alla ricerca della maniglia della porta.
Eppure sapeva che era ubriaco, che non si sarebbe dovuto scomodare tanto,
perché probabilmente Tino l’avrebbe scordato. Ma illudersi, giusto un po’, era
così dolce… e, soprattutto, non gli faceva pensare al brusco risveglio che
avrebbe avuto. Le mani del finnico gli avrebbero sfiorato per un attimo la
guancia, in un grazie sommesso. E poi sarebbe ritornato a dormire, sognando
quel ricordo e cullandosi nella dolcezza del momento. E poi lui si sarebbe
alzato e gli avrebbe stampato un bacio, sulla bocca. O sulla fronte, gliel’avrebbe
certamente perdonato a causa della poca illuminazione. E invece aveva ancora un
braccio sul comodino ed un piede fuori dal letto, pronto a scattare per aprire.
E la testa di Tino che bussava, con un certo ritmo, il lessico che si faceva sempre
meno zuccheroso, mano a mano che sentiva pulsare il capo sempre più forte.
Nonostante tutto, non la smetteva. E, non essendo disposto, come i picchi, di
una simpatica e funzionale area spugnosa nella scatola cranica, in grado di
attutire i colpi, con l’aumentare di questi ultimi facevano capolino anche le
imprecazioni in finlandese, che le orecchie dello svedese accolsero con sommo
gaudio, pensando a chissà che cosa. Poi, un tintinnio di chiavi. Una voce amica
che lo canzonava affettuosamente, aprendo la porta al posto suo. Il fascio di
luce che accecava gli occhi stanchi dello svedese, mentre Tino inciampava
malamente sui suoi piedi e si infilava nel letto, vestito.
«
Berwald. » lo conosceva bene, quel timbro vocale.
« Ed. »
Aveva la gola secca e la lingua impastata, fino ad un attimo prima, ma riuscì a
dirlo senza mozzicare le parole. Non che ci fossero tante vocali da lasciare
per strada, ma aveva studiato quel momento nei minimi particolari. Avrebbero
guardato il tramonto assieme e si sarebbero dati delle belle pacche sulle
spalle. Poi Eduard sarebbe finalmente tornato in Estonia e a lui sarebbe
rimasta tutta la torta. Su un ripiano un po’ troppo alto e difficile da
raggiungere, ma avrebbe trovato una scala. Ma, a parte l’Ed, non ricordava più
una parola del suo fantomatico discorso sull’amicizia, sull’amore e su quanto fosse
bella e piena di ragazzi l’Estonia. E non era neppure in condizioni di dare
pacche sulle spalle.
«
Tienilo d’occhio, ok? » riuscì a vedere il suo sorriso nel buio, tagliato nel
mezzo da pugnali di luce. Tremava, il sorriso finto. Il tono calmo che aveva
cercato di mantenere per tutti quegli interminabili giorni si era irrimediabilmente
incrinato e adesso i laghi smeraldini dei suoi occhi lottavano a fatica con la
forza di gravità, invisibili agli altri.
« Sì. »
il silenzio, interrotto appena dal russare leggero del finnico e dal conciso
botta e risposta tra i due, era diventato pressante e difficile da sostenere. E
ancor più complesso da rompere.
« Spero
di riuscire a preparare la parte grafica del film in tempo. Luk ha detto che
siamo sochi e non vale, però… » si
interruppe per una breve risatina, stentata. «… però ho visto come ti guardava
Tino, alla festa. Forse questa è la volta buona. I miei migliori auguri. » e
invece avrebbe soltanto voluto gridargli contro. In una sua idea egoistica del
mondo, Tino era suo. Nessun altro aveva il diritto di strapparglielo. Loro non
capivano le loro battute, le loro allusioni. Non le avrebbero mai capite. E
invece ecco che il suo amico, il suo migliore
amico, lo abbandonava. E forse era stata colpa sua, del suo silenzio riguardo
ai suoi sentimenti prima e della sua impazienza di mostrarli, della sua
impulsività mai vista dopo, ma a questo non pensò. « I miei migliori auguri. »
sibilò poi, mentre richiudeva la porta. Berwald premette la fronte contro il
muro, ripetendosi che ne valeva la pena, ne sarebbe valsa la pena. Eduard
inciampò nel nulla, come l’amico poco prima, atterrando sulle proprie
ginocchia. Lo amava, Tino. Strinse i pugni, le unghie che premevano nella
carne. Se ne stava andando per quello. Per Tino, se ne andava. Lo lasciava
perché gli voleva bene, per il bene di entrambi. E sperava di dimenticare e di
essere dimenticato. E si rialzava a fatica. « I MIEI MIGLIORI AUGURI! »
gridava, una volta sola. Una falciata nel silenzio della notte. Sorrise, ed era
vero. Basta lottare, basta soffrire, basta Tino. Lo svedese uscì di corsa dalla
stanza, con una forza di volontà sconosciuta. Forse l’energia positiva di Luk,
arrivata in ritardo? Eduard camminava tranquillo verso la sua stanza, con le
mani in tasca. « Tervitus. »
« Tack.
» non lo capiva, l’estone, ma era l’unica cosa da dire.
* * *
Non
successero poi grandi cose, in quei mesi, non avvennero grandi imprese che vale
la pena raccontare. Le riprese ripresero – perdonate il gioco di parole – con
la consueta discontinuità, la regista che lottava contro il tempo per arrivare
in orario nel cortile, sempre più freddo ed inospitale, e le frecciatine del
cameraman su Sesel e Arthur, che finivano quasi sempre in educatissime risse. Tino non sbuffava
ogni volta che Berwald tornava in camera ed avevano appena cominciato a cantare
le canzoni degli ABBA assieme quando la città cominciò a vestirsi di rosso e la
pioggia lasciò il posto ad una neve leggera. Quando i ben noti ritardi di Luk
lasciarono spazio ad una strana isteria passeggera, perché non c’era mai tempo e la pagina di novembre venne
strappata brutalmente dal calendario della classe. L’ultima ripresa venne
festeggiata con muffin rubati ed i celebri cioccolatini svizzeri di Lily.
Feliks raccontò che lo svedese ed il finnico avessero preso un milkshake
insieme, in quell’occasione, in un centro commerciale. Nessuno conosceva i
dettagli della faccenda. Luk sapeva solo che Berwald, di punto in bianco, le
aveva sorriso e le aveva chiesto di darle il cinque. E lei lo aveva stretto in
un caldo abraccio groenlandese. E lui non aveva fatto resistenza.
Epilogue
Mai
messa tanto in ghingheri, Luk, mai. Mai perso un chilo, mai. Mai il rossetto
rosso o la piastra, non facevano per lei. Però quella volta doveva brillare,
perché la prima del tuo film (lungometraggio
amatoriale sarebbe decisamente più corretto, ma film fa decisamente più effetto)
non capita tutti i giorni, di certo. Non del primo film. Non del film che ti ha
vista correre con un coltello in mano, non del film che ha fatto avvicinare due
persone, non del film che ha visto un canadese conoscere la Groenlandia, non del
film che ha fatto andare Eduard via. Ma non si vive di farfalle e arcobaleni,
d’altronde. Ed erano tutti lì, Eduard compreso, nella prima fila di una sala
proiezioni un po’ improvvisata, in contrasto con gli studenti eleganti stretti
come sardine, su sedie imbottite e polverose. Il conto alla rovescia,
addirittura. Eduard aveva fatto proprio un bel lavoro. La regista si voltò
verso tutti i suoi attori, collaboratori, amici. Avevano fatto tutti proprio un
bel lavoro. Sorrise, perché tutto era partito da una biblioteca, un
fraintendimento, un soprannome ed un mucchio di fogli. Dalla promessa di una
possibile Hollynuuk, dalla promessa
di un possibile appuntamento. Una promessa mantenuta.
Strinse
il polso di Berwald accanto a lei, gli occhi brillanti. « Si va in scena,
Nanuk. »
E quando
arrivarono gli applausi, Hollynuuk era tremendamente vicina.
Fine.
Izz ovah.
E anche questa piccola, tenera fycci –
come amo chiamarla – è giunta all’epilogo. Vi dirò, quando scrivevo le ultime
righe (o anche solo quando le pensavo) mi prendeva un senso di vuoto terribile.
Perché, nella sua obbrobriosità, questa ff mi ha accompagnato per un bel po’
(causa aggiornamenti lenti, lentissimi… Vogliate perdonarmi!) e credo che se il
mio iniziale progetto di scrivere una long-fic poco long da concludere appena a
febbraio (a febbraio!) non sarebbe stato altrettanto doloroso lasciarla, con
tutte le sue banalità, titoli strambi, battute e colpi di genio (molto colpi) o
con tutti quegli appunti sparsi su fogli e fogli. Sono contenta che alla fine
tutto sia andato più o meno per il meglio – forse un po’ meno per Eduard, ma
cercherò di farmi perdonare ;v; - e di essere riuscita a finirla, però. Mi
sento piena di orgoglio per una cosa che guarderò tra due mesi esclamando
“macheccazz—“, ma se lo farò sarà pieno di giuoia e tenerezza materna.
Ok basta, sono contenta di aver messo la parola fine a quest’agonia, cià-cià.
Non è vero, mi mancherà.
Se ci penso però grazie a ‘sta cosa ho creato anche la Luk su effebbì, quindi è
una figata.
Vabbè.
Le ultime parole sono le più difficili da scrivere.
E quest’ultimo Angolo dell’autrice non finirà come ve lo microonde.
Ringraziamenti
A Hollynuuk, che è tremendamente vicina,
Alla cartina sulla Groenlandia, senza la quale non mi sarebbe mai venuta in
mente l’idea per scrivere ‘sta roba,
A tutto il team HNE (vi voglio bene, guyz), che mi ha accolto e che all’epoca non mi faceva dormire, al solo
pensiero di aver creato una Mary Sue,
A Kaya, che è un gran pensatore e, soprattutto, un gran comico,
A Proibito, che pure mi ha aiutato ed ai libri in generale che sono una gran
cosa,
A mia cugina che non riusciva a leggere la ff perché rideva troppo,
Alle frasi/versioni facili, che mi hanno fatto risparmiare tempo,
A Claudia, che è una grandonna (?) e
dice che scrivo bene,
A Cristina, che mi passa gli yaoi e sa un botto di cose fighe,
A mia sorella, che deve averli visti (sennò il disegnino di due omini nudi che
amoreggiano a 6 anni non me lo spiego),
A La_Marie, che ringrazio per quando
mi ha fatto da beta e mi ha aiutato,
A Renard, che è l’alfa,
Ad Aki_Mori, che è la mia amica-di-Napoli personale,
Ad alysschan, che mi permette di ruolare
IceGreen (e forse non conosce neppure ‘sta fic, LOL),
A Cosmopolita, che recensisce sempre
e che forse andrà in Inghilterra,
A miristar, che è una critica di classe,
A yanyan, che è la regina dello
sclero – mi manchi!,
A Bazylyk19 che scrive delle SuFin scompisciato rie (?),
Ad happylight e alle sue ff
magnificissime,
A Black Air, che mi ha minacciata
con una Bielorussia (vedi che aggiorno, vedi? ;v;),
A Nena92 che mi ha convinto ad
aggiungere “comico” al genere della ff,
A Ippolita, che è una pony figa,
Ai miniponi e a chi li ama,
A Londra e a tutta la bella gente che la abita,
A tutti quelli che scrivono senza pensare alle recensioni,
Ai/alle beta, che sono una grande invenzione,
Ai titoli di capitoli e fic e storie, belli e brutti,
Ai roleplayer ed al fantamondo,
Ai biscotti caldi che aiutano a pensare,
Al cibo in generale,
Agli amici e alla famigghia,
A chi crede in Babbo Natale, finlandese & biondo o meno,
Ad Himaruya (Requiescat in peace -?-), perché alla fine se non veniva l’idea a
lui non veniva manco a me.
Kaida vi ama, vi ringrazia, s’inchina e chiude il sipario su Love in London (mai titolo fu meno
appropriato).
« Qujan! »
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