Le conseguenze
Le conseguenze
Torna
ogni
notte.
Quando
Seamus
Finnigan appoggia la testa sul cuscino e cede al sonno, lei si
insinua dentro la sua mente vulnerabile, priva di difese. Gli vuole
ricordare che, per quanto possa fingere di vivere durante il giorno,
sballottato tra lavoro, metropolitana e cibo, lei è sempre alle sue
spalle e attende l'occasione per abbracciarlo e porre fine al loro
legame. Scivola silenziosa in quella dimensione a metà tra sonno e
veglia per controllare che lui sia ancora vivo e non, come invece
spera, che sia accasciato tra le lenzuola con lo sguardo sbarrato e
il viso pallido, pronto per essere ghermito.
Lui
non
le può sfuggire.
Nel
sogno,
Seamus ha diciassette anni. Corre lungo il sentiero tortuoso che
conduce alla Foresta e si lascia alle spalle il castello in fiamme,
le grida roche dei Mangiamorte e gli echi delle Maledizioni Senza
Perdono. Ogni volta che le suole delle sue scarpe da tennis
colpiscono il terreno Seamus sente una fitta di dolore che gli
arriva fino alle tempie, ma non osa fermarsi.
Incurante
dei
rami che gli sferzano le braccia e delle radici che lo fanno
incespicare, si addentra nella Foresta, sempre più stanco, sempre
più lento. Le creature che si nascondono tra alberi si agitano e
ringhiano, ma lui si costringe ad ascoltare l'eco del suo respiro
spezzato.
Non è il momento, pensa, a fatica, mentre alza una
mano per proteggersi dalle spine di un arbusto troppo cresciuto.
Apre la bocca, alla disperata ricerca d'aria. Per preoccuparmi anche di questo.
Farò qualsiasi cosa,
ansima. I sassolini del sentiero si insinuano nei calzini e i
graffi sulle guance gli bruciano. Qualsiasi
cosa,
ripete,
ignorando
le gambe che gridano pietà.
Dita
invisibili gli solleticano la pelle e lui agita le mani per
scacciarle. Fate,
pensa. Zigzaga tra i platani che piegano i loro rami nel
tentativo di catturarlo e funghi che scoppiano, gonfi di veleno.
Non si ricorda più qual è l'incantesimo che serviva a
scacciarle. Forse bisognava imprigionarle con il latte, lo
zucchero e le rose... no, quello lo faceva sua nonna sulla porta
di casa, quando la luna era piena e non calante come adesso.
Deve
distrarsi. Deve raccontarsi queste favole, o verrà annientato
dall'immagine di Dean che viene sbalzato via da un lampo arancione e
abbandonato per terra con braccia e gambe talmente scomposte che
avrebbe dovuto urlare di dolore, avrebbe dovuto farlo, se non cazzo,
no,
non è possibile, no...
Solo
quando
le chiome degli alberi coprono la luce della luna e i bagliori delle
fiamme provenienti dal castello Seamus si ferma. Con il sapore del
sangue sulla lingua e le orecchie che sembrano scoppiare, appoggia
le mani sulle ginocchia ed esplode in un gemito di stanchezza,
rabbia, disperazione. Non vede più nulla, non sente più nulla, non
ha nemmeno la forza di cercare un nascondiglio. Quello che vuole è
solo abbandonarsi sul terreno freddo e raggomitolarsi nel fango,
come un bambino senza casa.
Lo prometto, pensa ancora, mentre
strizza gli occhi per abituarsi all'oscurità. L'odore del muschio
gli fa pizzicare il naso. Ti prego, ti prego, pensa, e non
si accorge che in realtà sta urlando, che l'eco della sua voce sta
rimbalzando sui tronchi muti senza risposta. Lo prometto. Farò
qualsiasi cosa. Ho fatto qualsiasi cosa.
In
quel
momento il sospiro acquoso della banshee echeggia nell'aria. Seamus
alza il viso, spaventato, e lei è lì, con la magia che le scorre
nelle vene e rende di porcellana la sua carnagione che in realtà
sarebbe verdastra. Fluttua lenta verso di lui, con i piedi che
sbucano dalla lunga veste nera e penzolano a pochi centimetri dal
terreno, le labbra pallide incurvate a mostrare la sua dentatura
candida e regolare, così umana. Così falsa, si dice Seamus.
« Ah, figlio
di Ryan » mormora con voce flebile. « ricorda il patto che abbiamo
stretto ».
Abbassa i suoi
occhi scuri, occhi da cerbiatto, da animale selvatico, fino a
incontrare lo sguardo di Seamus, poi si infila le lunghe dita nella
gola che per anni ha predetto e cantato la morte dei fratelli, degli
zii, degli antenati della famiglia Finnigan. Con uno spasmo, estrae
dalla sua bocca bianca una perla di luce, talmente luminosa che lui è
costretto per un attimo a strizzare le palpebre e a schermarsi la
vista.
« Guarda » gli
ordina lei, suadente. « I tuoi poteri, i poteri che mi hai offerto ».
Lui allunga la
mano verso la scintilla, rapito come un bambino di fronte a una
scatola di caramelle. Salta nel tentativo di riprendersela, di
sottrarla alle unghie di quella donna terribile e inumana. È mia,
pensa. È sua quell'energia bianca, quella forza che permette di
scacciare le fate e trasformare le tazze da tè in topi. Sua.
Desidera
disperatamente tornare indietro. Vuole vedere i capelli della banshee
diventare stopposi e secchi, la sua figura incurvarsi e rattrappirsi
fino a scomparire, anche se sa che non succederà. È il prezzo da
pagare, l'ha stabilito lui stesso.
Seamus
annaspa. Il suo braccio è teso verso l'alto, tremante, eppure lui non
riesce nemmeno a sfiorare la perla di luce. Piega le ginocchia e si
slancia di nuovo con un grugnito. I tendini si allungano e i polpacci
tremano, ma la sua magia resta saldamente stretta tra le grinfie della
banshee. Digrigna i denti e salta ancora, ancora e ancora, fino a
quando il suo corpo diventa troppo pesante per tendersi; allora si
lascia andare, frustrato.
La banshee
alza un lungo indice di fronte a Seamus, perentoria.
« Non toccare
».
Alza la testa
e lascia cadere la perla di luce sulla lingua, per poi deglutire con
gli occhi chiusi e un sorriso di piacere dipinto in volto. Seamus
trattiene il fiato. Si sente menomato, come se qualcuno gli avesse
strappato un arto e l'avesse lasciato sul terreno a sanguinare. Serra
i pugni e conficca le unghie nei palmi delle mani per accertare che
gli arti siano a posto, per rassicurare il suo corpo che si sente
vuoto – eppure il senso di perdita è così forte che sembra
distruggerlo pezzo a pezzo. Sente le lacrime bruciare dietro le
palpebre, come se fosse un bambino sgridato dalla madre. Si odia. Si
odia perché non riesce a sopportare i termini del patto come vorrebbe.
La banshee si
lecca il pollice con gusto, raccogliendo gli ultimi, invisibili
frammenti di magia attaccati al polpastrello. Mentre la lingua saetta
rosa sulla pelle, continua a fissarlo con quegli occhi liquidi, neri.
Lui sa che la banshee non ha intenzione di perdersi ogni suo
movimento, che sia quello del torace che si alza e si abbassa o della
testa che si incassa tra le spalle.
« Ricorda »
gli ripete dolcemente. « Ricorda che noi saremo insieme fino alla fine
».
Le cinque dita
della banshee diventano livide e si allungano lente fino a
trasformarsi in stiletti scuri. Seamus manda un suono strozzato per la
paura e muove un passo indietro nel tentativo di fuggire, ma prima che
possa arretrare ancora le lance gli trapassano il viso, il torace, le
gambe.
Il suo respiro
si spezza per un attimo. Non riesce a muoversi. Non prova dolore, solo
la sensazione che nulla, nulla – neppure il cuore, il cervello, il
fegato – gli appartenga più, sfiorato, premuto, rimescolato com'è da
quegli aghi scuri e lunghi. La vista gli si annebbia e sente le
ginocchia sfregare sul terreno. Vorrebbe grugnire per il colpo
improvviso, ma non riesce neanche ad aprire la bocca. È un pupazzo
nelle mani di una ragazzina troppo grande per i giocattoli.
La banshee si
china inesorabile verso di lui, mentre anche l'altro braccio si
scurisce e gli cinge le spalle in un abbraccio. Il suo alito sa di
fiori appassiti, melma e naftalina: è l'unico difetto che la magia non
è riuscita a modificare, a mascherare, a cancellare.
Seamus ordina
al suo corpo di svegliarsi, per Merlino, di sottrarsi al respiro
puzzolente della banshee, alle zampe sottile che adesso stanno
correndo rapide sulla sua schiena: è inutile. Il panico lo sommerge.
Adesso
morirò, pensa con il sudore che gli cola sulla nuca. Morirò
in ginocchio e non posso nemmeno urlare.
Lineamenti
delicati occupano il suo offuscato campo visivo. Con il naso gli
sfiora la fronte, le sopracciglia, le labbra.
L'aria puzza
di formaldeide, carne marcia, cenere.
Il viso della
banshee, accompagnato da un sospiro, scivola dentro la testa di
Seamus. Lui inarca la schiena per la sorpresa mentre lei attraversa,
silenziosa e indolore, la scatola cranica, il cervello, ancora la
scatola cranica.
I sensi
iniziano a spegnersi. La vista si offusca, il suo naso smette di
respirare quel tanfo insopportabile. Le dita da ragno hanno cessato di
rovistare e si sono fermate.
« Ah » esala
la banshee, i boccoli scuri che le spuntano dalla nuca di Seamus e gli
coprono la schiena. « Pare che non sia ancora giunto il momento,
dopotutto ».
Un altro
sospiro, che fa tremare la colonna vertebrale. Le parole della falsa
strega si trasformano in un ronzio, un indistinto rumore di fondo.
*
Seamus
Finnigan
spalanca gli occhi e si ritrova ad ansimare. Le lenzuola sono
attorcigliate attorno alle sue gambe così strettamente che gli
sembra di essere legato. Il viso della banshee indugia ancora per un
attimo sul soffitto, poi scompare.
Si
passa
una mano sulla nuca bagnata di sudore e inspira con forza, nel
tentativo di tenere a bada gli scatti del suo cuore impazzito. Le
tempie gli pulsano così forte che sembra stiano per scoppiargli da
un momento all'altro. Grugnisce. È come se quella dannata strega gli
avesse riempito la testa di pietre appuntite.
Deve
smetterla
di entrare nei miei sogni, pensa, mentre solleva le braccia e
le osserva alla debole luce che filtra dalle tapparelle abbassate.
Nessuna traccia di graffi, com'era prevedibile. Si preme il petto
con un pugno, ma le nocche non affondano nel torace. Li rende
troppo lucidi. Con un calcio si districa dalle coperte e
solleva le ginocchia. Sono pulite, senza strisce marroni e secche a
testimoniare una nottata passata bocconi nel fango.
Si
appoggia
alla testiera del letto e si massaggia le palpebre con due dita. È a
casa, è a Londra, è al sicuro, eppure si sente ancora tremare.
Allunga un braccio per afferrare la sveglia digitale sul comodino.
Le cinque.
Combattendo
contro
l'impulso a sdraiarsi di nuovo, staccare la spina dell'orologio e
trascorrere, inerte, il resto della giornata sepolto sotto le
coperte, Seamus lascia penzolare le gambe oltre il bordo del letto,
puntella i gomiti e si alza. Non appena si trova in posizione
eretta, la stanchezza crolla su di lui come un'incudine. La testa
ciondola avanti e indietro, carica di fango. Nonostante ieri sera
Seamus abbia mandato giù tre pasticche di sonnifero nel tentativo di
trascorrere una nottata chimicamente serena, quella dannata strega è
riuscita lo stesso a infiltrarsi nel suo cervello.
Osserva
trasognato
il piumone scivolare dal letto e cadere ai suoi piedi, senza avere
la forza necessaria a piegarsi per raccoglierlo. Lascia vagare lo
sguardo sul pavimento polveroso della stanza, sulle magliette non
abbastanza sporche per essere infilate nel cestello della lavatrice
ammucchiate sopra la sedia della scrivania, sulla cravatta
attorcigliata attorno alla maniglia della finestra decorata da
ditate. Devo mettere in ordine, si ricorda, anche se sa che
il suo muto rimprovero sarà presto dimenticato.
Rinuncia
a
cercare le pantofole e, con la sensazione che un trapano stia
cercando di forargli il cranio, si dirige verso il bagno per una
doccia calda.
*
Seamus
passa
il palmo della mano sul vetro appannato e cerca di riprendere
contatto con il giovane che lo scruta torvo dall'altra parte dello
specchio. Finge di ignorare le occhiaie viola, la bocca piegata in
una smorfia, poi prende il rasoio e se lo avvicina alla guancia.
Ricapitoliamo,
si dice, mentre si rade. Ciao, mi chiamo Seamus Finnigan. Ho
stretto un patto che ogni mattina mi scarica una decina di
pallottole nel cervello. Non riesco a dormire senza sognare. Il
mio lavandino trabocca di tazze di caffè, la lavastoviglie si è
rotta. Avevo una ragazza. Mi ha lasciato la settimana scorsa. Ero
troppo strano per lei.
Sono
un
Babbano.
La
lama
apre un graffio sulla pelle. Seamus sussulta, si lascia sfuggire
un'imprecazione e fa cadere il rasoio nel lavandino.
Sono
un
Babbano.
Si
sforza
di ricacciare indietro il singhiozzo di rabbia che gli sta sfuggendo
dalle labbra. Il suo riflesso ha il volto contratto e la mascella
rigida. Il taglio è appena sotto il mento, poco profondo, ma non
smette di sanguinare. Senza muoversi, osserva una goccia rossa
gonfiarsi, scurirsi e poi, troppo pesante per resistere, macchiare
la pelle sottostante.
D'istinto
serra
un pugno e lo solleva come a voler colpire il bordo del lavandino,
poi rinuncia e si limita ad appoggiare il palmo della mano sulla
porcellana disseminata di peli.
«
Ti sarebbe piaciuto che fosse andato un po' più in basso? Un po' più
profondo? » chiede Seamus, piano. L'acqua continua a scorrere, il
graffio a bruciare. La domanda si spegne sulle quattro mura bianche
del bagno e rimane senza risposta.
*
Non
appena
chiude dietro di sé il portone dell'edificio, la nebbiolina
grigiastra di Londra gli offusca la vista. Mentre si stringe la
sciarpa attorno al mento, Seamus rabbrividisce. E dire che siamo
a marzo, pensa, infilando le mani in tasca. Tutta questa
foschia, non è normale... proprio per nulla. Anche i pochi
passanti sono ingobbiti, con i volti lividi che spuntano dai baveri
del cappotto sollevati. È anomalo.
Scuote
la
testa: no. Si dirige a grandi passi verso il familiare
cartello bianco e rosso della metropolitana londinese, deciso a non
pensare.
*
Le
lampade del vagone sfarfallano fioche, mentre il treno sfreccia nel
tunnel. Seamus si rilassa sullo schienale di plastica blu del
sedile, poi chiude gli occhi e stende le gambe, assicurandosi di non
tirare pedate a sussiegose vecchiette o a nottambuli che tornano a
casa dopo una serata insonne.
Incrocia
le
braccia al petto per scaldarsi. Vorrebbe racimolare qualche minuto
di dormiveglia tra la puzza di sudore e il monotono lamento delle
ruote dei binari, ma l'acuto stridio dei freni e gli scossoni che
preannunciano l'arrivo alle stazioni lo irritano. Sbuffa. Si volta
di lato e appoggia la mano sulla guancia. Le luci si insediano sotto
le palpebre ed esplodono in lampi dolorosi nella testa.
«
Ricorda ».
Seamus
sussulta.
Appollaiata sulla sedia di fronte alla sua, la banshee lo sta
fissando impassibile. Le unghie lunghe ticchettano contro il
plexiglas.
«
Lo so » risponde Seamus. Gli costa uno sforzo enorme rispondere,
come se avesse bisogno di estrarre le parole una per una dalla gola.
Deglutisce. « Perché non mi lasci dormire? Non ti basta quello che
ti ho dato? ».
La
banshee
giocherella con i bottoni dei polsini della sua giacca doppiopetto,
senza sollevare gli occhi. I pantaloni si arrotolano in pieghe
morbide attorno alle sue caviglie. Una valigetta di pelle marrone è
abbandonata sotto il sedile. Una perfetta impiegata, pronta per
una giornata di duro lavoro in ufficio, pensa Seamus.
«
Sta per succedere qualcosa, figlio di Ryan » La voce della banshee
fende l'aria come un rasoio. Il viso le si contrae in un'espressione
bramosa, mentre tende verso di lui la sua mano tremante, pronta ad
artigliarlo. Seamus appoggia la testa al finestrino, incassa la
testa tra le spalle e prega che tutto finisca lì e ora, che la
banshee sparisca in uno sbuffo di fumo, ma lei ridacchia e lascia
cadere le sue ultime parole, pesanti come sassi.
«
E io sono stanca di aspettare ».
Gli
occhi
della banshee sono torbidi, scuri. Folli. La maschera da bambolina
si sgretola e lascia lo spazio alla creatura, alle rughe che le
deturpano le guance, al mento appuntito, al naso adunco. Per un
attimo Seamus ritorna un bambino nascosto sotto le coperte della sua
cameretta, che si tappa le orecchie per non sentire l'orribile nenia
della vecchia. Prende ilcuscino e se lo stringe intorno alla testa,
mentre suo nonno rantola e la donna urla.
Poi,
in
un battito di ciglia, lei non c'è più. Sotto il sedile ci sono solo
batuffoli di polvere e vecchie cartacce. Seamus si alza, stordito:
il treno sta rallentando e la banchina della stazione scorre già
davanti al suo sguardo. Un vago odore di marcio si mescola all'aria
secca sputata fuori dai condizionatori. Nell'attraversare le porte
che si sono aperte silenziose e docili davanti a lui, Seamus
trattiene il respiro.
*
Quando
riemerge
all'esterno, Seamus si lascia sfuggire un'esclamazione e, d'istinto,
muove un passo indietro.
Decine
di
uomini avvolti in pesanti mantelli porpora e verde bottiglia,
raccolti in drappelli, si aggirano furtivi per le vie della città
ancora silenziosa. Alcuni di loro si torcono le mani, altri hanno
un'espressione trasognata, come ricci abbagliati dai fari di
un'automobile. I loro visi, illuminati dal debole chiarore che
precede il sorgere del sole, sono lividi e tirati. Camminano rasente
i muri scrostati e ricoperti di colla di vecchi poster del lanificio
caduto in disuso che loro – Seamus lo sa – chiamano Ministero della
Magia. Seamus abbassa la testa, si concentra sul movimento cadenzato
dei suoi passi e finge di non notare gli uomini barbuti che
aspettano pazienti il loro turno per infilarsi in una cabina
telefonica rugginosa.
Maghi.
Sono
gli uomini che scivolano veloci accanto a lui con un
braccio sempre nascosto tra le pieghe del loro pastrano,
uomini che si farebbero mozzare una mano piuttosto di perdere la
loro bacchetta. Maghi. Portano grandi cappelli conici, tre
orologi per ciascun polso e gonne a fiori. La maggior parte
degli umani sgranerebbe gli occhi al loro passaggio e i bambini
punterebbero le dita verso quei buffi
signori;
se solo sapessero, pensa Seamus, che dietro gli sguardi persi e
i baffi arancioni c'è molto più che semplice follia.
Passa
accanto
a due streghe basse e corpulente.
«
Neppure con un calderone intero di Pozione Polisucco ci sarebbe
riuscito, Margaret! » sussurra la più anziana, con i capelli bianchi
raccolti in una crocchia.
L'altra
annuisce
seria, le sopracciglia corrugate che contrastano con le guance
rubizze. Tra le dita grassocce stringe un contenitore oblungo di
vetro, colmo di liquido color arancio. Bolle gialle galleggiano
placide in superficie e scoppiano con dei pop simili a un
colpo di tamburo. Quando la donna agita la fiala, la schiuma
tintinna sulle pareti, allegra.
Seamus
si
chiede se riuscirebbe a strappare di mano alla strega quella dannata
fialetta e versarsela tutta in bocca: la pozione lo sta chiamando e
lui non vuole disobbedirle, affatto. Non gli interessa se poi i suoi
occhi si gonfieranno, i capelli gli cresceranno fino a toccare terra
o gli scioglierà le gambe; lui deve berla, subito, subito.
«
Ha ingannato la sua famiglia per mesi, mesi! » L'incanto si spezza.
Seamus sbuffa e fissa rancoroso la vecchia che si sta mettendo una
mano sulla fronte, infervorata. « E non che nessuno se ne sia
accorto! Come se fosse lui, uguale! ».
Margaret
sospira,
solidale. Entrambe, assorte nella loro conversazione, non si sono
accorte del ragazzo senza potere che scuote la testa per schiarirsi
le idee e liberarsi dai fumi della loro pozione.
I
loro sguardi scivolano su di lui disinteressati, vuoti.
Seamus
vorrebbe
afferrare una di queste streghe tonde per uno dei lembi fruscianti
delle loro vesti e supplicarle di riportarlo a casa, tra scintille
rossi e verdi, decotti che scatenano la ridarella o lasciano
crescere l'infatuazione; eppure, dopo aver teso la mano a pochi
centimetri dalla stoffa color porpora, la lascia cadere.
Se
ritornasse
nel suo vecchio mondo sarebbe costretto a trascinarsi in una mezza
esistenza, tra bustine di tè saltellanti e animali stregati che non
sarebbe capace di tenere a bada. Non vuole ritrovarsi come il
vecchio Gazza a scacciare, scopa in mano, studenti impertinenti e
poltergeist impazziti. Non ha bisogno di diventare lo zimbello delle
feste, costretto a sopportare le chiacchiere dei suoi ex-compagni
riguardo le prodezze magiche dei loro figli, o le loro brillanti
carriere da Auror che lui non potrà intraprendere.
Seamus
si
stringe la sciarpa sul mento per attutire lo sbuffo amaro che gli
esce dalla bocca. Davanti alla sua scuola, diventata nient'altro che
una grotta sbarrata da assi di legno e un cartello giallo e
rugginoso con la scritta Pericolo dipinta in lettere
cubitali, Seamus aveva giurato di chiudere per sempre con bacchette
magiche e fatture.
Sono
troppo
debole.
Quando
gli
avevano offerto un impiego in un caffè a pochi passi dalla fabbrica
chiusa da settant'anni, Seamus aveva accettato e si era persino
trasferito in un monolocale polveroso a mezz'ora dal bar. Può anche
raccontarsi delle scuse, dirsi che gli piace servire cappuccini,
spremute e tortine, ma la verità è che lui lavora solo per tenere
d'occhio i maghi attraverso la polverosa vetrata del suo locale. Sta
ai margini del loro mondo e, nonostante tutto, ancora spera di
strappare qualche scintilla dorata e rigirarsela tra le mani. La
magia gli manca. È come un arto amputato che a volte prude, a volte
pulsa e trema nel tentativo di muoversi ancora.
Ogni
tanto
Seamus si scopre a frugare nelle tasche dei pantaloni per cercare la
vecchia bacchetta che lo aiuti a recuperare i calzini nascosti sotto
il divano o a fare il letto. Quando le sue dita sfiorano le briciole
di pane imprigionate nella fodera, è sempre troppo tardi.
«
Ehi, guarda dove metti i piedi! ».
Un
vecchio con le guance cascanti e il doppio mento gli lancia
un'occhiata di disapprovazione, prima di chinarsi a raccogliere
una bombetta verde acido. Seamus trasale. Lui conosce quell'uomo
rotondetto: l'ha visto lanciare occhiate boriose al di là di un
foglio di giornale. Ruotava la testa e puntava un dito verso i
lettori, come a dire sì, sistemerò tutto,
credetemi, sì.
Seamus
sussurra
una scusa, poi si allontana da Cornelius Caramell, turbato, senza
voltarsi.
*
Dagli
strilli
spaccatimpani che provengono dal locale Seamus capisce che Jocelyn è
già arrivata. La sua collega è chinata verso la macchinetta del
caffè e sta cantando a squarciagola una discutibile versione di Time
is Running Out. Seamus geme, ma il suo lamento è coperto da
un acuto più passionale degli altri. Le urla gli si conficcano nella
fronte come spilli.
«
I wanna freedom, bound and restricted... ».
«
Joss, vuoi tirare giù il bar?!» grida Seamus per tenere a bada quei
suoni disumani. « Lo sai che Matthew Bellamy non ti ammetterà mai
nel suo gruppo, vero? ».
Jocelyn
schiocca
le dita, accenna una piroetta e, finalmente, riduce i suoi strilli
da doccia in un quieto canticchiare. Si asciuga le mani nei jeans,
per poi sorridere e saltellare verso Seamus, i boccoli rosso fragola
che le rimbalzano sulle spalle. La punta del naso è macchiata di
marrone.
«
Ciao, Seamus » lo saluta. Gli assesta un colpetto sulla spalla. «
Contento di essere al mondo come sempre, a quanto vedo ». Lo scruta
con attenzione, poi pare notare il pallore di Seamus e le sue
occhiaie violacee, perché sospira. « Oh, capisco. Nottataccia, come
sempre?».
Lui
si
limita a grugnire: sarebbe troppo complicato da spiegare. « Senti,
Joss, non avresti qualcosa per il mal di testa? ». Stamattina ha
infilato la mano nel cassetto e ha rovistato in cerca delle sue
pastiglie, ma ne ha estratto un blister vuoto, le capsule di
plastica tutte schiacciate.
«
Hmm ». Jocelyn si picchietta un dito sul mento, poi si tortura
l'anellino d'argento che porta sul labbro. « Dovrei avere un po' di
paracetamolo ».
«
Qualsiasi cosa mi va bene, basta che me lo faccia passare ».
«
Aspetta ». Si rovista nelle tasche dei jeans e scuote la testa. Si
volta. « Dev'essere nella borsa » mugugna.
«
Grazie, Joss. Sei la mia salvezza ».
«
Oh, lo so, lo so. Hai esaurito la mia scorta annuale di pastiglie,
dopotutto. Quasi quasi te le faccio pagare. Anzi, no: dico
direttamente a mia madre di detrartele dallo stipendio, così
facciamo prima. Con un piccolo extra. Guarda che l'ho sentito il
commento sulle mie doti canore » lo canzona.
Seamus
segue
con lo sguardo Jocelyn che si infila nello stanzino angusto dove
appendono borse e cappotti. Si muove così rapida che prova un senso
di nausea solo a guardarla. Devo essere proprio messo male,
pensa, con una risatina roca.
«
Ah, eccola! Cazzo, devono essere finite in fondo ». Persino da quel
buco si riesce a sentire il suo sbuffo di irritazione. « Seamus » lo
chiama poi. « Ma hai visto tutta la gente strana che c'è in giro
oggi? Non è che facciano parte di una setta, vero? » Seamus contrae
il volto in una smorfia. « Gente strana? » chiede, così candido e
disinteressato che non riesce neppure a ingannare se stesso.
«
Non dirmi che non li hai visti, mo mhíle stór, perché
nessuno ci crede ».
«
Non parlare in gaelico, che hai una pronuncia terribile ».
«
Ah ah » dice Jocelyn allegra. « Qui c'è qualcuno che sta cercando di
sviare il discorso, mi sa. Hai qualche parente tra tutti quei
cappelli a punta? Qualche scheletro nell'armadio, qualche vecchio
prozio imbarazzante che semina panico ai pranzi di famiglia? Io
avevo una nonna che metteva il sale nel tè senza accorgersene:
potremmo scambiarci le nostre esperienze... Oddio ». Joss si lascia
sfuggire un verso inorridito, simile a quello che rivolge ai clienti
quando ordinano un bicchiere di bibita a temperatura ambiente. «
Dimmi che non conosci nessuno che porta i cerchietti per capelli,
perché potrei seriamente farti licenziare ».
«
No! » esclama Seamus con più veemenza di quanto desideri. Il
faccione largo della Umbridge ondeggia, flaccido e imbellettato,
davanti al suo sguardo. Trenta punti in meno a Grifondoro,
signor Finnigan. No, non provi a protestare. No, per l'ennesima
volta, non tratteremo del Sortilegio Scudo. Insiste? Sta
insistendo? Corre
verso lo sgabuzzino, con la borsa a tracolla che gli sbatte violenta
sul fianco.
Scopre
una
Jocelyn seduta per terra a gambe incrociate, con la borsa ricoperta
di spilline appoggiata in grembo e cinque o sei assorbenti interni
stretti in pugno. Seamus apre la bocca per sviare il discorso e
pregarla di darle quella maledetta pastiglia, subito, ma la
curiosità morbosa ha la meglio.
«
Chi era? »
Joss
solleva
le sopracciglia, stupita. « Una tizia che non faceva altro che
fissarmi ». Rabbrividisce. « Dio, sembrava volesse tirare fuori una
lingua lunghissima e inghiottirmi la testa tutta intera. Scommetto
che non vedeva l'ora di raparmi a zero, quella brutta vecchiaccia.
Voglio dire, che cosa c'è di male in una tinta rossa, mi chiedo? Non
sono color arcobaleno » Si afferra una ciocca di capelli e la agita
davanti a Seamus con foga, come se brandisse uno spolverino. « Per
fortuna che c'era un gruppo di tizi in blu che l'hanno presa per il
gomito e l'hanno portata via. Hanno detto qualcosa tipo chiameremo
qualcuno dopo, signora Cartridge, non si preoccupi... o
almeno credo ».
Merda,
pensa Seamus.
«
Non è che ci distruggono il bar, adesso? È tutto in regola, vero? »
Joss lo agguanta per la manica. « No, sai, è che avevano una
faccia... insomma. ». Abbassa gli occhi e giocherella con una spilla
rossa dei Foo Fighters. « Strana. Parlavano sottovoce, all'orecchio,
poi si lanciavano certe occhiate... Ed erano tutti seri, composti,
come se stessero andando a un funerale, o in un'aula di un
tribunale. Poi avevano 'sti distintivi argento che ancora un po' gli
coprivano metà petto. Secondo me erano davvero membri di una setta,
a pensarci bene. Ehi! ».
Seamus
sfila
il braccio dalle unghie di Jocelyn e si gratta le guance arrossate.
Il Wizengamot, certo. E sono pronto a giocarmi... no, non
sono pronto a giocarmi più niente, ma sono sicuro che c'è la corte
plenaria in giro. Seamus fissa distratto l'appendiabiti
divelto e le sedie scompagnate ammucchiate in un angolo dello
sgabuzzino. Nella sua testa i maghi che passeggiano come gatti nelle
strade, la Umbridge e donne corpulente nella loro uniforme color
melanzana si fondono, giocano, si mescolano, senza legame, senza un
motivo.
Scuote
la testa. Le parole della banshee, non volute, aleggiano ancora
nell'aria, tra i batuffoli di polvere e i pezzi di intonaco che
cadono.
«
Sta succedendo qualcosa » mormora Seamus.
«
Come? ».
«
No, niente ».
Jocelyn
sbuffa,
ma non commenta mentre si rialza dal pavimento. Seamus sa che muore
dalla voglia di sapere cosa lui nasconda al di là del bancone: lo
capisce dai suoi che cosa ci sarà mai su quel marciapiede che ti
interessa così tanto, accompagnati da una risata che non
riesce a nascondere la curiosità nei suoi occhi tondi da assiolo.
Ogni
tanto
lui si accorge delle sue occhiate in tralice, delle spalle
sollevate, della bocca aperta in una domanda muta. Anche se
nonostante tutto non si è mai spinta al di là di quelle piccole
punzecchiature e alle pastiglie effervescenti per l'emicrania, come
se sapesse che avrebbe potuto riaprire i lembi di una ferita male
rimarginata.
Seamus
fissa
i riflessi artificiali che le lampadine da dieci watt proiettano sui
capelli rossi di Joss e, di colpo, lo assale un terribile pensiero.
« Mmmh, Joss, ma non è che anche la
tizia col cerchietto era vestita di blu, vero? » butta in tono
casuale. Ti prego, fa' che almeno questo non sia successo. Almeno
questo.
Lei aggrotta le sopracciglia. « No, mi
pare di no. Portasse una giacca. Anzi, no, portava un golfino color
caramella. Dio, ora mi ricordo: aveva i fiocchetti sulle tasche. Sulle
tasche! Alla sua età! Non trovi anche tu che sia tanto kitsch? ».
Merlino, ti ringrazio.
« Sei sollevato ».
« Oh, sì che lo sono. Almeno ho la
certezza che non sarà una vecchia rospa a distruggere il mio posto di
lavoro, no? ».
Joss manda una risatina acuta, poi
soffia via una ciuffo ribelle di capelli che le rimbalza davanti agli
occhi. « Beh, adesso come adesso sembra una cazzata – no, ho
sbagliato, è una cazzata – ma devo dire che al momento, non so... ».
Si sfrega la punta del naso, pensierosa. « Mi sono sentita piccola, di
fronte a loro. Erano stravaganti, erano bizzarri, con le loro
vesti che spazzavano il marciapiedi e i cappelli conici, eppure
mandavano una certa forza, che, boh, avevo l'impressione che avrebbero
potuto fare qualsiasi cosa. Ma proprio qualsiasi. Capisci? Anche
schiacciarmi in due come una nocciolina ».
Per un attimo Jocelyn sembra aver
dimenticato che Seamus è lì, vicino a lei, assorta, assente, gli occhi
socchiusi, fissi in un punto in lontananza. Scuote la testa, come se
stesse emergendo dall'acqua o si stia svegliando da una dormita. «
Dici che mi faccio troppe canne? » chiede.
Seamus vorrebbe prenderla per mano,
portarla fuori, rubare una bacchetta a un mago, agitargliela davanti
al suo naso ancora sporco e poi urlarle che sì, la magia esiste,
esiste davvero, esiste e lui non ce l'ha più e che i suoi discorsi lo
esaltano e lo lacerano al tempo stesso. Ma le parole gli si incastrano
in gola. Prima che però possa emettere un suono, un qualsiasi verso,
Joss lo ferma.
« A ogni modo, penso di aver trovato
quello che cercavi » lo informa. Gli mostra una pastiglia tonda,
ricoperta di lanugine nera. « O almeno, credo che serva per il mal di
testa » dice, dubbiosa. « Potrebbe essere quella per i dolori
mestruali... Scherzavo » si affretta ad aggiungere, notando
l'espressione di Seamus.
Lui sospira, mentre allunga la mano. « Correrò il rischio ».
« Allora, si batte la fiacca, eh? ».
Seamus e Jocelyn trasaliscono
entrambi. In piedi sulla soglia dello sgabuzzino Rachel Byrne,
proprietaria del locale, si mette le mani sui fianchi e getta loro
un'occhiata assassina. « Perché non siete già al lavoro? » sillaba.
« Scusa, mamma ». Jocelyn saltella
verso di lei, le arruffa i corti capelli biondi, le accarezza le
guance leggermente incavate. « Seamus aveva bisogno di qualcosa per il
suo mal di testa ».
«
Ancora? » grugnisce lei. « Santo cielo, ragazzo, non avresti fatto
meglio a lavorare in una farmacia? ». Tuttavia, mentre parla, gli
angoli della bocca le si incurvano in modo inequivocabile. « Su,
forza, datevi una mossa ».
*
Seamus appoggia un cappuccino e un
muffin al cioccolato sul bancone di legno lucido e sorride rivolto al
suo avventore, un ometto dal naso adunco e la barba grigiastra. Il
tizio mormora un grazie basso, flebile, simile allo squittio di un
topo.
Con un sospiro, si volta verso la
macchinetta del caffè. Il ruggito che rimbombava nella sua testa è
scemato fino a ridursi a un miagolio troppo lontano per causare
davvero dolore; come se non bastasse, la mascella gli si è indolenzita
a furia di stirare le labbra in espressioni bendisposte e cortesi
verso i clienti – o almeno, è così che le chiama Rachel.
Si massaggia la mascella, trattenendo
a fatica un grugnito. Jocelyn, che accanto a lui sta tagliando arance
a metà e le sta premendo con forza sullo spremiagrumi, si ferma per
assestargli un colpetto alla nuca con il palmo appiccicoso di succo.
« Su, rilassati » gli dice. « E poi
guarda che la grande capa ti sta fissando » gli fa notare, prima di
gettare via le bucce ormai prive della polpa. Seamus si irrigidisce,
un riflesso involontario. Ora ha la sensazione che due raggi laser gli
stiano attraversano le scapole; tuttavia non ha il coraggio di
voltarsi per controllare se Rachel lo stia fissando bieca tra una
tazza di caffè vuota e un'altra.
Jocelyn lo lascia con un ultimo
buffetto. Il rumore del bicchiere di spremuta che impatta contro il
legno scuro del bancone è secco, deciso. L'ecco a lei di Joss,
squillante, copre per un attimo la voce di Janis Joplin che fluttua
dagli altoparlanti a volume basso. Seamus inspira e afferra una
tazzina. L'aria è satura dell'odore pungente delle arance misto a
quello del caffè, talmente forte che sembra impregnargli i vestiti.
Tra una tazza di un tè caldo e
un'altra, si volta verso l'ampia vetrata che dà sul marciapiede, sulla
strada. Ogni tanto si vede un mantello svolazzare, un cappello
oscillare, una coppia di uomini vestiti in azzurro gesticolare con
furia, incuranti delle automobili che sfrecciano a pochi passi da
loro. Jocelyn ha ragione, pensa. Sembra davvero che stiano
tramando qualcosa.
Una testa rossa ondeggia tra i visi
deformati dall'ira dei due maghi. Seamus distoglie di scatto lo
sguardo, come se una luce troppo forte lo avesse colpito. Si asciuga i
palmi delle mani sudati e scivolosi. Respira. Si avvicina alla cassa,
pesta con furia i tasti, strappa lo scontrino dalla sua minuscola
stampante, così rapido che tutto gli sembra concentrato in unico
gesto.
« Tre sterline e cinquanta ». La donna
si fronte a lui sbuffa e infila un braccio nella borsa. Persino le sue
parole gli suonano attaccate, un unico serpente di suoni che saetta
fuori dalla bocca. Un formicolio gli pizzica le piante dei piedi,
simile a un topo che picchietta le sue unghie su una conduttura. La
sua mente lavora febbrilmente alla ricerca della soluzione. Vuole
forse restare a guardare? O forse vuole chiedere alla banshee di
ritornare indietro, di revocare il loro accordo?
Rachel sbatte con forza il vassoio
colmo di tazzine sul bancone e Seamus si risveglia. Ci sono macchie di
caffè, tracce di rossetto e briciole da pulire: non ha tempo per
distrarsi, gli comunica il beccuccio di una teiera.
« Tre caffè di cui due espressi, due
spremute e quattro muffin al cioccolato » snocciola la signora Byrne.
« Ricevuto, madame ». Joss prende la
pinza per i dolci e la agita per un attimo in aria, come se tirasse di
scherma contro un immaginario avversario.
« E tu pulisci queste » Seamus
potrebbe giurare che Rachel gli abbia appena fatto l'occhiolino. «
Sbrigati, guarda che non abbiamo molto tempo » aggiunge.
Si allontana per prendere altre
ordinazioni: Seamus la osserva girare tra i tavoli rotondi di legno
scura e le sedie dall'imbottitura rossa e verde, tra impiegati che si
godono la loro prima colazione e commessi che chiacchierano a bassa
voce, le teste vicine. Rachel scavalca le borse appoggiate con
noncuranza sul pavimento e sfiora le cartelle appese agli schienali.
Si sfila il taccuino dal grembiule, fa roteare la penna tra le dita. «
Cosa posso servirvi? » chiede.
Seamus apre lo sportello della
lavatazze con quattro bicchieri stretti in una mano e un piattino
nell'altra. Mentre si allunga per riporre le stoviglie, si lascia
sfuggire uno sbadiglio e, senza pensare, allenta la presa. Quando si
accorge dell'errore, è troppo tardi.
Lo schianto secco del vetro contro la
griglia di metallo è così forte che per un attimo persino Janis Joplin
sembra trattenere il fiato. Seamus raccoglie con cautela il bicchiere,
passa un dito sul bordo: nessun graffio, nessuna incrinatura. Lo
ricaccia nelle profondità della macchina, mentre le spalle gli si
rilassano e la tensione si scioglie sulla schiena.
Forse non è una giornata così
sfortunata, dopotutto, si dice. L'emicrania si è rintanata barcollando
in un angolino, pronta per colpire la notte successiva, ma adesso le
palpebre gli si stanno abbassando e l'aria attorno a lui sembra densa
come melassa.
I campanelli di rame che Joss ha
appeso alla porta tintinnano.
« Buongiorno! » esclama Rachel.
Tale madre, tale figlia, pensa
Seamus. Il saluto della sua datrice di lavoro è più adatto a una folla
che a un singolo avventore. Si aspetta il borbottio del cliente, che
però non giunge alle sue orecchie.
« Finnigan Seamus? » domanda una voce
quieta, maschile.
Seamus chiude con un colpo secco lo
sportello della lavatazze e si solleva, incuriosito. Di colpo
riconosce il volto grigio dell'uomo che gli si para davanti, la sua
figura leggermente curva, avvolta in un cappotto marrone sporco di
polvere bianca sull'orlo.
Rimane impietrito, con le dita che
gocciolano e le macchie di umido che si allargano, fredde, sui jeans.
L'uomo sorride e un ventaglio di fitte rughe si apre attorno agli
occhi.
« Sei tu, giusto? » chiede. « Ti ho
visto attraverso la vetrina ».
Di' che si è sbagliato, si
esorta Seamus. Si appoggia al bancone. Ha bisogno di dormire. Molto.
Oppure ha bisogno di svegliarsi da un sogno. Vorrebbe pizzicarsi un
braccio, ma non osa muoversi.
Digli che si è confuso con qualche
altro barista. Ammetti di non averlo mai visto in vita tua. Sorridi
e scusati.
Di' mi scusi.
Dillo.
Avanti, dillo.
« Professor Lupin » mormora Seamus.
Lo sconosciuto – no, non lo
sconosciuto, il suo insegnante – si avvicina e gli tende una mano
rugosa al di là del bancone. La sua stretta è calda, forte. Gli
ricorda suo padre quando, nelle mattine d'estate, lo afferrava per una
spalla e lo scuoteva piano per svegliarlo, dicendogli che la colazione
era pronta e che aspettavano solo lui.
*
La porta cigola sui cardini.
« Mi dispiace, ho solo cinque minuti,
professore » dice Seamus in tono di scuse, mentre allarga il braccio e
invita Lupin a passare prima di lui. « La signora Byrne potrebbe
uccidermi, altrimenti ».
« Chi, la signora coi capelli biondi e
il vocione? Ci servirebbe a Hogwarts come professoressa, o meglio,
come custode. Almeno Pix si rintanerebbe in un angolino e smetterebbe
di appannare gli occhiali a Sibilla ».
Seamus ride, la mano ancora sulla
maniglia. « Sempre lo stesso, a quanto pare ».
« Già ». Il professore cammina lento
in mezzo al cortile, le mani in tasca.
Le pozze lasciate dal temporale della
scorsa giornata non si sono asciugate del tutto: un paio di cartacce
rosso sgargiante galleggiano placide nell'acqua, una bottiglia di
plastica accartocciata. Seamus calcia via con il piede un involucro
trasparente che si è avvinghiato a uno degli sparuti ciuffi d'erba
spuntati tra le fessure del cemento. La plastica crepita. Bisogna
dare una pulita a questo posto, si appunta.
Estrae un pacchetto di sigarette,
ancora sigillato, dalla tasca della giacca, e tira la linguetta. Non
fuma molto – forse perché gli ricorda troppo Dean, la sua voce
arrochita e nervosa che si interrompeva brusca per lasciare spazio a
un'altra boccata, per ritardare il momento in cui si sarebbero
salutati – ma oggi ne ha bisogno, almeno una se la può concedere, si
dice.
Tende la scatolina verso Lupin.
« Vuole, professore? ».
L'uomo batte le palpebre, indeciso sul
da farsi. Poi solleva le spalle. « Oh, al diavolo » sbotta, mentre
prende anche lui una sigaretta. « Mia moglie mi ucciderà, per questo.
Riesce a sentire la puzza di fumo a distanza di giorni ». Si
incupisce, e per un attimo Seamus vede solo un vecchio grigio con la
schiena piegata dal peso della stanchezza. « Ma oggi credo che me la
lascerà passare ».
« Hmm » si limita a mormorare Seamus.
Ha dimenticato l'accendino a casa. Emette uno schiocco con la lingua e
sbatte un piede a terra, mentre rovista tra le pieghe del cappotto.
Tutto inutile.
« Penso di non avere da accendere »
bofonchia. Si picchierebbe la fronte con una mano. L'ha lasciato nel
posacenere accanto all'ingresso.
Lupin sgrana gli occhi.
« Che problema c'è? ». Dalla tasca del
cappotto estrae la bacchetta, per poi puntarla verso Seamus. « Incendio
» mormora. Accompagnato da una pioggia di scintille dorate e da
uno sfrigolio, la punta si arroventa.
« Grazie ».
« Di nulla ».
Lupin si accende anche la sua
sigaretta. Lancia un'occhiata discreta dietro di sé, come se avesse
l'impressione di essere osservato da qualcuno, poi scrolla le spalle e
ripone la bacchetta. Accenna col mento ai due gradini che conducono
alla porta del locale.
« Posso sedermi? ».
« Certo ».
Il manico gli spunta dalla giacca.
Seamus si vede afferrarlo, compiere un ampio e fluido movimento col
braccio e – magia – far sparire i rifiuti che rotolano nel cortile, o
i sacchi di spazzatura che ingombrano gli angoli. Nei tuoi sogni,
forse.
Lupin appoggia la testa alla porta di
latta blu e, con un sospiro, socchiude per un attimo le palpebre.
Seamus si china, spazza via residui di polvere dal gradino e si
accovaccia accanto a Lupin, per poi avvicinarsi la sigaretta alle
labbra. Volute bianche si levano pigre davanti al naso.
Fumano in silenzio.
Seamus osserva di sottecchi le rughe
che solcano il volto del suo vecchio professore, talmente marcate e
profonde da renderlo simile a una statua scolpita nel legno, piuttosto
che a una persona. Una figurina incompleta, ancora attaccata alla
pianta, con le dita gonfie e nodose, i polsi attraversati da vene blu.
« Non sai più usare la magia, Seamus?
» chiede ozioso Lupin. La sua voce calda e roca spezza il silenzio e
lo colpisce come un pugno sul naso. Lui trema, vacilla sotto l'attacco
diretto.
« No, non è questo » risponde lui. Veloce,
sei troppo veloce. Si ferma, trattiene il respiro. Alza la
guardia. « Preferivo così, dopo tutto quello che è successo. Staccare
un po'. Da quando è finita la guerra mi sento.... diverso. Strano ».
La bugia gli scivola fuori dalle
labbra fluida, rapida. Scrolla le spalle: indifferente, deve sembrare
indifferente. Si sfrega convulso le mani, rabbrividendo e incassando
la testa tra le spalle, simulando un brivido di freddo – e invece no,
deve nascondere l'incertezza, lo spasmo che gli fa contrarre la
mascella.
Lupin si piega in avanti per spegnere
la cicca. Sparge frammenti di tabacco, catrame e nicotina sul cemento,
poi si sfila un fazzoletto da una tasca dei pantaloni grigi, stirati
con la piega, e vi avvolge con cura il mozzicone rimasto.
Seamus prende l'ultima, lunga, boccata
della giornata – o forse mattinata, dipende se il destino avrà ancora
qualche pacco bomba da consegnargli – ed espira, per tenere occupata
la bocca.
Lupin si china in avanti e appoggia i
gomiti sulle ginocchia. Guarda il cielo slavato, assorto.
« Capisco » scandisce. « Immagino che
tutti abbiano i loro fantasmi con i quali combattere ». Sospira, un
sospiro lungo e profondo, che gli carica altri dieci anni sulle
spalle, poi si sfrega il mento, arrossato.
Non immagina quanto, pensa
Seamus. Riderebbe, se potesse. Mi tormenta tutta la notte, mi
schiaccia tra le sue dita, gioca con me come un gatto con il suo
gomitolo preferito. A volte vorrei tornare indietro. Spazza
via la cenere con la scarpa. Poi penso a lei, professore, a come
sarebbe apparso morto, così freddo, e a Dean, con le gambe storte e
la faccia piena di tagli, e a Harry Potter bianco e pallido con la
sua cicatrice viola, e allora mi pento.
Le stringhe ora sono grigie.
Io non sono un eroe. Non sopporto di
dover trascinarmi da una stazione all'altra, tagliarmi con il rasoio
da barba, avere il mal di testa ogni cazzo di mattina.
Voglio una bacchetta.
« Non sei l'unico, non ti preoccupare
» gli sta dicendo Lupin. « Harry è stato ossessionato da quella luce
bianca per mesi. Quante volte ha ripetuto questo gesto? » Lupin
solleva una mano e la riabbassa rapido. « quante volte ha urlato che
qualcosa l'aveva preso, qualcosa l'aveva scosso e poi lasciato a
terra? Era così agitato che credevamo fosse impazzito. Seamus.... non
riusciresti a capire, davvero ». La fronte gli si increspa. « Poi si è
sposato, e si è calmato. Un po'. Non del tutto. Non ancora ». Chiude
gli occhi.
« Sposato? » ripete stolido Seamus.
Non ha nessun desiderio di sentire ancora parlare di quel bagliore
luminoso, quella scintilla che li ha incendiati tutti, che li ha fatti
crollare bocconi sul pavimento. Lui si è risvegliato sulla terra
fangosa, la bocca impastata, le gambe che tremavano, per poi
accorgersi che il fumo era svanito ed era stato derubato.
« Sì, sposato » risponde Lupin.
Rivolge a Seamus un lungo sguardo indagatore, due pupille tonde e
piccole come capocchie di spillo che lo pungono e lo scandagliano. «
Sei stato veramente lontano, allora » commenta, le sopracciglia
corrugate e la testa inclinata. « È successo due anni fa. Non hai
ricevuto l'invito? ».
Lui emette un suono acquoso e
indistinto. Può darsi. Sua madre gli aveva inviato una lettera per
posta, quando lui si trovava ancora nel suo vecchio appartamento. Una
busta bianca, anonima, con il timbro delle poste Babbane bene in
vista. L'aveva scartata con il coltello della colazione ancora sporco
di burro e aveva osservato il ritratto di un uomo in smoking e una
donna in abito bianco danzare su un quadrato di carta filigranata.
Poi aveva buttato il biglietto.
« Probabilmente qualche gufo si deve
essere perso » si giustifica Seamus, evasivo.
« Peccato ». Lupin gli rivolge un
sorriso conciliante. « È stata una bella cerimonia. Persino Minerva
aveva gli occhi lucidi, anche se sosteneva di essere allergica alla
polvere. Per non parlare di Molly Weasley: dozzine di fazzoletti
appallottolati ». Fissa assorto il cortile.
« C'è bisogno, di lacrime di gioia ».
Nella sua voce si scorge una piega amara. « Ce n'è davvero bisogno,
con i Dissennatori in giro per Londra e il Ministero ancora nel caos
». Si riscuote, come se una sveglia interiore gli fosse trillata nelle
orecchie. Arrotola la manica del cappotto e mostra un orologio da
polso con lune e stelle che ruotano sul quadrante. La lancetta,
liberata dalla stoffa pesante, mormora senza sosta impegno,
impegno, impegno, impegno, mentre si sposta da una tacca
all'altra.
« Ah » mormora il professore. « Sono
ancora in anticipo, a quanto pare ». Preme un pulsante azzurro a lato
del quadrante e con un clic l'orologio si azzittisce. «
Questo affare riesce sempre a irritarmi » Lo nasconde di nuovo, con un
sospiro. « Per non parlare della pendola di mia suocera: quando ci
riuniamo per il pranzo domenicale è sempre lì che emette i suoi riposo
riposo riposo con una voce da oltretomba. Terribile ».
Si strofina le mani sulla lana
marrone, poi si solleva lento in piedi. Con la schiena leggermente
storta e le gambe piegate, assomiglia all'attaccapanni arrugginito e
ammaccato che Jocelyn ha buttato nello sgabuzzino, pensa Seamus.
Lupin si sfila la sciarpa di lana
grigia dal collo, la piega a metà in un cappio e se la annoda di nuovo
attorno al collo. « Speriamo che la Giornata d'Allerta si sia risolta
senza problemi. E soprattutto, che a nessuno sia venuto in mente di
mimetizzarsi tra i Babbani. Specialmente Archie Wilkins e le sue gonne
a fiori ». Ride, ma senza gioia. S
eamus nota la rigidità del collo, il
lieve tremore delle mani. Si solleva anche lui, facendo leva sul
gradino con una mano.
« Almeno speriamo che gli Obliviatori
passino a sistemare tutto » mormora Lupin. Scuote la testa. « Non puoi
pretendere che una banda di loschi figuri vestiti di porpora passi
inosservata. Merlino, almeno la Metropolvere potevano tenerla aperta
».
« Obliviatori? » chiede Seamus.
Pronuncia ogni singola sillaba con cautela. « Metropolvere? ».
Il professore si passa una mano tra i
radi capelli pettinati con cura, poi annuisce. « Il Dipartimento
Cancellazione della Memoria e il Comitato Scuse ai Babbani sono
disperati, Arthur li ha visti piangere davanti a pile di scartoffie.
Troppi straordinari ».
Scuote la testa. « Almeno non ci hanno
fatti tutti ammassare nella cabina telefonica. Sarebbe stato uno
spettacolo ancora più singolare ». Si sfrega il pollice con l'indice,
come per togliere cenere invisibile dai polpastrelli. « Neppure la
Metropolvere ».
« Io non... » Lupin si volta verso di
lui. Apre la bocca per parlare, ma si blocca. Per una manciata di
secondi scruta il volto di Seamus, confuso, come se fosse convinto che
lui stia scherzando, poi si incupisce.
« Non lo sai ». È un'affermazione, non
una domanda.
Seamus si alza e pulisce polvere
inesistente dal gradino con la suola della scarpa, evitando lo sguardo
indagatore di Lupin. Trasalisce, quando il suo vecchio professore gli
mette una mano sulla spalla e lo costringe a girarsi.
« Stai attento » lo avverte, serio. Si
guarda attorno, prima di continuare, come per controllare che il
cortile sia veramente vuoto. « Una guerra non finisce in cinque anni,
Seamus. Restano dei pezzi, capisci?... degli strascichi ». Deglutisce.
« E non sono tutti pentiti come i Malfoy ».
Una ruga gli solca a metà la fronte.
Un sopracciglio gli si incrina. « Sono pazzi » dice, lasciando cadere
le parole come sassi. « Li abbiamo cercati quando era il momento,
quando rimettevamo in piedi le nostre case e contavamo feriti e morti,
ma loro erano spariti ».
Le sue dita si aprono e si chiudono a
imitazione di un lampo. «E proprio quando ci siamo detti beh,
possiamo ricominciare da capo, no? Portiamo i nostri figli a scuola
senza paura di non rivederli più di capo a un mese, giriamo
tranquilli per i sentieri di campagna, eccoli riapparire. Che
ironia della sorte, non trovi? ». Scuote la testa, con un sorriso
stentato, beffardo.
Seamus
non
sapeva. Si è limitato a risvegliarsi quando tutto era già concluso,
dolorante e sporco di terriccio. Ha camminato, inerte, affiancato
dalla banshee che fluttuava a mezz'aria accanto a sé, fino a quando
non è stato risvegliato dai clacson di un'automobile. È stato
trascinato nell'abitacolo accogliente e caldo e redarguito con un
brusco i ragazzini come te dovrebbero essere a scuola, mentre
lui, con le foglie nei capelli, mormorava un grazie e si guardava le
unghie sporche di rosso – no, marrone, marrone.
« Sono arrivati e noi abbiamo creduto
di essere preparati » continua roco Lupin. « Li abbiamo
sopravvalutati. Come poteva essere altrimenti? ». Stringe i pugni. «
Eravamo diventati forti. Avevamo giustizia, avevamo prigioni, avevamo
maghi preparati, capaci di evocare un Sortilegio Scudo con un cenno
della testa. Ma loro.... ». Un sospiro. « Neanche i Dissennatori gli
si avvicinano» sussurra.
Volta la testa, fissa un punto in
lontananza. « Io li ho visti » dice. Si china leggermente, come a
proteggersi. « Non sono umani, non più » mormora. « Li chiamano i
Sopravvissuti, gli ultimi strascichi della guerra ».
Qualcosa nella coscienza di Seamus –
lunghi capelli scuri, pelle pallida – si stiracchia e si risveglia. In
un attimo è all'erta, il suo naso schiacciato contro i bulbi oculari
di Seamus. Lui scrolla innervosito il capo.
« Alcuni di loro sono invisibili e
solo chi ha guardato la morte in faccia riesce a riconoscerli. Altri
lanciano grida che rompono i timpani. Fanno perdere il senno. Se
andassi al San Mungo incontreresti tutti questi vecchi maghi, grandi,
grossi, accucciati negli angoli, con le mani sulle orecchie, a
dondolare, a piangere, come bambini.... ma non è solo questo, non
solo... ».
Indugia, poi si rivolge a Seamus,
cupo. « Donne bellissime che chiamano gli uomini fuori dal sentiero e
li lasciano privi di sangue, di linfa. Secchi. Per non parlare di
quelli che si trasformano in acqua, o in fuoco: streghe, maghi
strangolati nelle loro vasche da bagno e non avevamo la pallida idea
di cosa stesse succedendo. Gente intossicata davanti ai caminetti».
Getta un occhiata all'orologio – sta
tremando, si accorge Seamus – e deglutisce. « Almeno qualcuno l'hanno
preso, per fortuna. Anche se secondo me un'udienza di questo genere è
ancora troppo rischiosa, nonostante tutti gli Incanti Sensore che
avranno piazzato in giro. Non è poi passato così tanto tempo dal colpo
alla Gringott ». Si china per raccattare un involucro colorato da
terra e appallottolarlo nel pugno. Si abbottona il primo bottone della
giacca, pronto ad andarsene.
La banshee trattiene un risolino
dietro una mano bianca, nascosta nella sua testa. Seamus inspira. È
stordito. È confuso.
Non hai tenuto conto delle
conseguenze, lo ammonisce. Irruenza, cieca follia umana.
« Non so come veramente si possano
fermare » dice Lupin, qualche parte di fronte a lui. « ma di una cosa
sono certo. Qualcuno – o qualcosa – li ha cambiati. Persino da
Mangiamorte, non erano... erano così folli. E, nonostante tutti
sostengano che Harry abbia avuto uno shock, beh, io gli credo. In
parte. Credo che tutto abbia avuto inizio dalla guerra a Hogwarts.
Nessuno ha visto cadere Voldemort, per esempio. Nessuno ha visto lampi
di luce verde. Eppure era lì, a terra, come se una mano gigante
l'avesse stritolato. E... ».
Si stringe nella giacca e
rabbrividisce, nonostante il vento abbia cessato di soffiare. « ...
anch'io sogno ogni tanto questa sensazione di essere sbattuto a terra
con forza, come se una mano gigantesca mi stritolasse ». Lupin incurva
debole gli angoli delle labbra. « Ma potrebbero essere anche solo i
deliri di un vecchio, questi. L'importante è che tu stia all'erta,
anche, beh, se hai deciso di vivere nel mondo dei Babbani. Potrebbero
comunque aggredirti... stai bene, Seamus? ».
« Sì » risponde precipitoso lui, di
fronte al volto allarmato di Lupin. Si raschia la gola, per colmare il
silenzio, per puntellare il castello di carte che si disfa davanti ai
suoi occhi, ma le parole rimangono incastrate come una lisca.
« Io... oh, Merlino, mi dispiace ».
Lupin lo afferra per una spalla.
« Non si preoccupi, davvero » lo
rassicura Seamus. Si sforza di stirare le labbra, quando l'unica cosa
che desidererebbe è solo scappare, lontano dal cortile con le sue reti
divelte, dal bar, dalle strade di Londra. Almeno adesso lo so,
si dice, ma non gli è di particolare conforto.
L'orologio da polso interviene tra i
due uomini e urla uno sbrigati così
forte da far tremare i vetri delle finestre dei condomini
circostanti. Sia Seamus che Lupin sobbalzano. Con un colpo di
bacchetta, il professore mette a tacere il lamento delle lancette.
« Gli strascichi della guerra »
sospira. « Ora di andare, suppongo » si dice Lupin, le rughe che
diventano più profonde. Porge la mano a Seamus. « Non è decisamente
stato uno dei classici incontri tra studente e professore » commenta.
« Speriamo di rifarci presto. Tra qualche tempo. Quando tutto questo
sarà finito – veramente finito ».
Seamus annuisce. « D'accordo » gli
risponde.
Lupin sale i due gradini.
« Arrivederci, professore ».
Lui sorride e alza un braccio in segno
di saluto, poi rientra nel locale. La porta blu cigola sui cardini e
sbatte sullo stipite, senza però chiudersi del tutto. Resta aperta per
uno spiraglio. Seamus la fissa, in piedi in mezzo al cortile, solo.
*
A differenza di tutti gli
altri lavoratori che, stanchi e corrucciati, sono costretti a pigiarsi nei
vagoni della metropolitana ogni sera, Seamus ama il tragitto che lo porta
a casa.
Aspira il profumo zuccherino
delle ciambelle glassate del Dunkin' Donuts sotterraneo; ascolta lo scatto
secco del biglietto che viene obliterato, gli stralci di conversazione che
giungono alle sue orecchie – non vedo l'ora di tornare a casa per
togliermi queste scarpe – e la parlantina incomprensibile e sciolta
dei turisti stranieri. Persino lo stridio acuto dei freni che impedisce ai
vagoni di proseguire la loro corsa non lo infastidisce.
Il frettoloso spostarsi da
una linea all'altra, le scale mobili che ronzano, troppo lente per gli
scalpitanti pendolari: tutto ciò gli consente, per mezz'ora, di non
pensare a nulla se non al bordo di metallo della valigetta del suo vicino
che gli preme sul fianco o al tremare del pavimento sotto i piedi.
Quella sera, però, Seamus
scalpita. Pigiato tra una ragazza carica di sacchetti e un manager che
continua a sbuffare e a tormentarsi il nodo della cravatta, solleva le
punte dei piedi e oltrepassa con lo sguardo le braccia sollevate, le mani
che si stringono attorno ai sostegni dipinti di giallo acceso.
Non c'è nulla di cui
preoccuparsi, si rassicura, ma lo stai attento di Lupin
ancora aleggia nell'aria viziata.
Seamus inspira, volta la
testa, si slaccia i primi bottoni della giacca. Dentro di sé,
l'inquietudine sta scavando. Persino dietro alla ragazzina accanto a lui,
che sta digitando un SMS sul suo telefonino carico di decalcomanie,
potrebbe nascondersi un mago, una strega desiderosa di sangue. E che dire
del vecchio seduto con la borsa tra le mani, o della signora occhialuta di
mezza età che sta leggendo un giallo di Sherlock Holmes con il naso
incollato alle pagine...?
La sua immagine, riflessa
sulla finestra, è pallida, piccola: una testa di bambino attaccata al
corpo di un uomo grande e grosso. Un ragazzino in fuga, braccato da
fantasmi.
Non c'è nulla da temere,
si ripete, anche se sa che non è vero. Ha voglia di passare la mano sul
vetro, cancellare l'ombra smorta che lo sta fissando. Come se avessi
bisogno di altre preoccupazioni, no? domanda, sarcastico.
L'incontro con la banshee si
sta avvicinando e lui lo sente nel cerchio di ferro che lo sta stringendo
alla testa, nelle braccia e nelle gambe che si fanno di piombo. Quando
ripensa a quelle dita che cercano senza sosta dentro di lui, che afferrano
polmoni, fegato, cuore, che scivolano tra arterie, vene e nervi, prova il
folle desiderio di urlare di rabbia e impotenza proprio lì, nelle orecchie
del manager che ora dondola sul posto, incapace di star fermo.
È colpa sua, dannazione. L'immagine di
una strega galleggiante in una vasca d'acqua fredda, con un braccio
che penzola al di là del bordo bianco gli tormenta la mente. Le
conseguenze. Digrigna i denti: cosa poteva fare? Cosa avrebbe
preferito fare? Veder crollare Hogwarts di fronte ai suoi occhi?
Potrebbero aggredirti. Potrebbero
venire a cercarlo.
Non pensare ai Sopravvissuti, si
rassicura Seamus. Non sapranno nulla, non verranno di certo a
cercarti. Chi si ricorda dei fuggitivi?
« Nessuno » dice. La ragazza alza il
volto dal suo cellulare, infastidita. I manici di corda e nastro dei
sacchetti le scivolano sui polsi. Sgrana gli occhi bistrati e Seamus
si morde il labbro: ha parlato ad alta voce senza accorgersene.
Nessuno, si ripete tra sé e sé,
mentre le porte si spalancano e un nuovo gruppo di pendolari, tra
proteste mormorate a mezza voce e grugniti irritati, si stringe nel
vagone già affollato.
Davvero? La banshee emerge dai
suoi pensieri e alza un sopracciglio sottile. Sei sicuro?
Certo, risponde Seamus, mentre
il treno corre senza sosta tra pareti scure e cavi elettrici. Si passa
una mano sulla fronte, deglutisce. Non può esserne sicuro, in verità,
ma non vuole pensarci, non adesso.
Stai attento, lo avverte Lupin, la sua
bocca che si muove lenta, le rughe che solcano le guance.
Non mi devo preoccupare.
*
Ma nonostante tutti i suoi buoni
propositi – parole vuote, bisognerebbe chiamarle – il senso di disagio
lo segue anche fuori dalla stazione, avvinghiato alle sue gambe come
un gattone dagli artigli affilati.
Mentre cammina, Seamus continua a
voltarsi indietro, verso l'insegna bianca e blu della metropolitana
che spicca come un faro in mezzo agli edifici anonimi e ai lampioni
che emettono luce giallastra. Socchiude le palpebre. Dalla nebbia
emergono solo le insegne al neon dei pub e i condomini a lui vicini: è
come se si trovasse in un sogno, un sogno normale, non uno dei suoi,
dove i contorni degli oggetti risultano sfocati e tutto sembra
sospeso.
Seamus rabbrividisce e infila le mani
in tasca. È come se si stesse avventurando in un labirinto dalle
pareti grigie e anonime. Ogni volta che la borsa gli sbatte sul fianco
irrigidisce le spalle e inspira brusco. Il pacifico quartiere dove
abita, disturbato solo dai clacson delle automobili nelle ore di
punta, si è trasformato in un bosco di cemento pieno di tranelli, dove
mani viscide e fredde possono afferrarlo e trascinarlo via.
Si ferma.
Pensa che non c'è nessuno in giro e
che il percorso per tornare a casa sembra essere stato dimenticato da
Dio. Potrebbe essere sorpreso alle spalle da una pioggia di scintille
arancioni. O un lampo di luce verde.
Il vento gli irrita le guance.
Nessuno parla. Il silenzio, denso come
una cucchiaiata di melassa, gli preme sulle orecchie con così tanta
forza che i timpani sembrano restringersi.
Il respiro gli si spezza.
Un sospiro tremola liquido dietro di
lui, come l'ultimo respiro di un uomo – lo sa com'è, morire, l'ha
visto con i suoi stessi occhi, ha visto un cappuccio scoprirsi, un
volto deformarsi per la sorpresa, una mano alzarsi in un'inutile
richiesta di aiuto.
E nonostante il buonsenso lo stia
scuotendo per una manica e gli stia urlando di muoversi, su, cazzo, di
mettere una gamba davanti all'altra, Seamus si volta. Appoggiata a un
palo rugginoso, sotto una lampada che emette una luce fioca, una
sagoma scura, una figura umana, lo sta fissando. Poi, in un battito di
ciglia, svanisce, inghiottita dalla nebbia.
Sarà un effetto ottico, si
dice Seamus. Si sente debole, come se potesse cadere per terra da un
momento all'altro. Sarà uno scherzo della luce.
Ma quando i suoi piedi, come se
fossero stati caricati da una chiavetta invisibile, lo conducono in un
vicolo secondario, Seamus non si lamenta.
Con il sudore che gli scende lungo la
nuca, scivola a passi rapidi lungo le due ali di edifici, tra i
condomini che torreggiano sopra di lui, indifferenti, muti. Non sa
dove stia andando il suo corpo – sa solo che deve allontanarsi, andare
via, via da quella strada, via dai filamenti di acqua e ghiaccio che
gli si stanno incollando ai vestiti.
*
Mentre scuote la borsa in cerca delle
chiavi del suo appartamento, Seamus si lascia sfuggire un gemito di
dolore e si china per passare un dito tra i calzini e le caviglie. Sui
polpastrelli rimane una lieve traccia di sangue.
Vesciche, pensa, cupo, mentre
fa scattare la serratura con un gesto brusco. La porta scricchiola sui
cardini.
Preme l'interruttore dell'ingresso e
subito una luce violenta, troppo forte, lo investe.
Seamus si scherma gli occhi con una
mano, mentre bagliori viola gli saettano davanti allo sguardo. Si
sfila il cappotto, lo scrolla come se gli avesse fatto un torto
personale. Tira le stringhe delle scarpe, armeggia con nodi così
stretti che le unghie si scheggiano.
Il pavimento è talmente gelido che le
piante dei piedi gli bruciano. Seamus caracolla più veloce che può
verso il salotto, poi si butta sul divano.
Con la testa affondata tra i cuscini,
fissa il soffitto. Un ragno si muove sull'intonaco bianco in cerchi
irregolari, spaesato. Lascia che le gambe, esauste, si scolleghino dal
suo corpo e galleggino via. Ma quando socchiude le palpebre scorge la
figura evanescente della banshee, dapprima sottile come un filo, poi
sempre più incombente, con le sue dita che lo accarezzano e gli occhi
scuri come cenere.
Si riscuote.
Non adesso, si dice. Non
subito.
Il telecomando gli preme su un fianco.
Seamus infila una mano tra le cuciture dell'imbottitura e lo tira
fuori. Passa un dito sui tasti blu, assorto. Il televisore aspetta
davanti a lui come un animale in letargo, paziente. Si chiede se debba
ordinargli di accendersi, di triturargli il cervello con qualche
immagine rumorosa, poi decide di no e lascia che rifletta solo la sua
figura distorta.
Seamus sbadiglia. Adesso mi alzo e
mi preparo qualcosa da mangiare, pensa, ma si sente troppo
pesante per muoversi. Il ragno si trasforma in una chiazza sfocata,
una macchia umida appiccicata al muro.
No, si ribella, ma il corpo è più forte di lui. La stanchezza
lo sommerge come un'onda e lo trascina via con sé.
*
Si risveglia di soprassalto alle prime
luci del giorno. Le scapole sembrano essere state strizzate da una
mano invisibile durante la notte, ma non è quello l'importante, non
ora. Si tasta il petto, confuso. Si tira uno schiaffo leggero. È
sveglio.
Non è possibile.
Rotola giù del divano e il suo gomito
colpisce con un rumore sordo il pavimento. Il dolore della botta, per
quanto attutita dal tappeto, gli si propaga sorda per tutto il
braccio. Stringendo i denti e massaggiandosi l'articolazione, si
rialza piano. Fissa attonito il cielo color grigio e indaco.
Nessuna emicrania. Nemmeno un
giramento di testa.
Ha dormito tutta la notte. Nessun
sogno, nessuna puzza di morte, nessun odore acre di fumo.
Si siede di nuovo sul divano e si gode
la sensazione di avere la mente sgombra, lucida. È come se una patina
gli fosse caduta dagli occhi e tutto – il televisore, i libri dalla
costa rovinata, le nuvole che scorrono placide – fosse più vivo, più
nitido.
Si morde il labbro. Non è ancora
finita, però: lo sente come sente il battito del suo cuore, il suo
respiro, lo scrocchiare delle ossa. Il patto li incatena ancora. La
mancanza continua a scavare la sua voragine. La strega si è ritirata,
ma aspetta paziente nell'ombra, la magia stretta saldamente nelle sue
grinfie.
Perché?
Forse si è stancata di giocare con
lui, ipotizza. O forse, si rende conto con un brivido, ha
trovato un altro modo per giocare, uno che
lui ancora non conosce. Uno più pericoloso.
Si appoggia allo schienale.
Aspetterò. si dice. Chiude gli
occhi, forse può strappare ancora qualche minuto di sonno, ma il
dubbio ormai ha iniziato a torturarlo, insistente come una mosca
davanti a un dolce ricoperto di zucchero.
Del resto, non è che possa fare
molto.
*
Ma la banshee non si ripresenta il
giorno dopo. Né la settimana successiva.
*
A poco a poco, Seamus recupera il
sonno arretrato. Le perenni occhiaie che lo accompagnavano si
trasformano prima in pallidi segni blu, poi svaniscono del tutto.
Ingrassa persino. Si distende.
Jocelyn ride e lo stuzzica,
chiedendogli se oltre a un lifting facciale si è ritoccato anche il
carattere. Per un paio di giorni dopo l'incontro con i maghi è rimasta
come sintonizzata su un'altra dimensione, con un'espressione
trasognata sempre dipinta in volto. Non ha più parlato degli uomini e
delle donne vestiti di porpora o della vecchia dagli occhi sporgenti,
si è reso conto Seamus, con sollievo. Qualche Obliviatore deve essere
passato per una visita, dopotutto.
Non ha più visto i maghi. Forse girano
di notte, o hanno trovato un altro modo per viaggiare passando
inosservati. A volte scorge con la coda dell'occhio uno svolazzare di
stoffa scura, un ciuffo di capelli arancio; ma quando si gira – perché
si gira sempre, malgrado si dica ogni singola volta di non farlo – si
scontra solo con mura crepate e graffiti rossi e verdi.
Quando dorme, sogna solo braccia
bianche, ogni tanto qualche chiazza verde, o una colata di fango
marrone. Un movimento meccanico del polso, un dito deformato che lo
indica, troppo distante per poterlo toccare.
Un giorno in cui sembrava che tutto il
suo corpo fremesse e fosse incapace di stare nella stessa posizione
per più di cinque secondi, ha disseppellito la sua vecchia bacchetta
dall'armadio di vecchie vesti lise in cui l'aveva cacciata, l'ha
puntata contro la lavastoviglie e l'ha mossa in un cerchio stretto.
Ma non ha sentito il familiare bip
di accensione.
Alla fine l'infernale macchinario
gliel'ha sistemato la ragazza con cui esce in questo periodo, Kathy,
Kathy che è una maga con il cacciavite e che porta maglioni cosi
larghi che le maniche le coprono le dita, Kathy che ha la pelle così
bianca che le si vedono le vene blu sottopelle.
La nebbia si è diradata, sostituita
dalle fastidiose e umide pioggerelle di marzo che lasciano righe di
sporco sotto le grondaie. Nonostante lo smog che circola nell'aria
alle ore di punta, a Seamus sembra che l'aria sia più leggera, più
tersa.
Per un paio di settimane dopo
l'incontro con l'ombra ha cercato sempre percorsi alternativi per
tornare al suo appartamento; ma, complici i piedi indolenziti e i
tramonti più luminosi, è ritornato al suo classico tragitto
casa-lavoro. I Sopravvissuti si sono trasformati in un ricordo
lontano, come se fossero diventati dei semplici personaggi di un
romanzo dell'orrore.
I meccanismi della sua vita sono
oliati e iniziano, seppur con qualche iniziale scatto brusco, a
girare. Seamus si sente sicuro. È al sicuro.
Più tardi si sarebbe pentito.
*
Mentre si dirige verso la fermata,
Seamus ingoia rapido l'ultimo pezzo di pane tostato e si pulisce le
dita sporche di marmellata con un tovagliolo. Non osa guardare il suo
orologio: non ha nessuna intenzione di sapere quanto è in ritardo.
Rachel lo infilerà nello spremiagrumi e lo centrifugherà ben bene,
ignorando qualsiasi patetica giustificazione che lui cercherà di
propinarle.
Magari posso dirle che la valvola
della caffettiera è saltata e che ho dovuto pulire l'intera cucina,
riflette Seamus. Scuote la testa. No, troppo patetica. E comunque deve
averla già sfruttata.
Appallottola il pezzo di carta tra due
dita e lo getta nel cestino accanto alla scalinata che conduce ai
binari della metropolitana.
« Scusami » lo chiama una voce roca,
languida.
Seamus alza il viso. Una donna dai
capelli color miele è appoggiata con la schiena al parapetto. Indossa
un vestito blu chiaro, con le spalle scoperte, così lungo che l'orlo
striscia sul marciapiede. Sembra pronta per una pièce teatrale. Piega
la testa, corruccia la bocca, così rossa che sembra una chiazza di
sangue appena sopra il mento, poi gli strizza l'occhio.
« Vuoi sapere quale sarà il tuo
futuro, zuccherino? ».
« Io- » dice Seamus, incerto. Si
blocca con un piede sul primo gradino. La donna sorride, poi si passa
un dito sulle labbra.
È pazza, si rende Seamus. Del
resto, solo chi ha qualche problema mentale potrebbe girare alle
cinque delle mattino con un abito da cocktail che sembra appena uscito
da un negozio di lusso. Scrolla le spalle, distoglie lo sguardo e fa
per scendere le scale, ma non ci riesce.
È come se fosse stato pietrificato.
Un ragazzo con un cappello di lana e
la barba malfatta lo urta alla spalla sinistra e lo sorpassa. Non si
volta per sibilargli un'imprecazione, non borbotta. Infila le mani in
tasca e sparisce nel tunnel grigio e nero, senza dare alcun cenno di
averlo anche solo visto.
Aiuto, pensa Seamus. I piedi
sembrano essersi fusi nel marmo. Si sforza di tirare la bocca, di
urlare, ma tutto quello che ne esce è solo un sussurro strozzato.
La donna getta indietro la testa, come
una modella, poi scoppia in una profonda risata di gola, si solleva
dalla balaustra e danza verso di lui, i tacchi che si alzano e si
abbassano senza sforzo, come se galleggiasse nell'aria. Gli prende la
mano irrigidita, stende le dita contratte una a una e poi ne accarezza
il palmo con un lento movimento circolare. Seamus, impotente, vede la
sua unghia bianca e curata tracciargli ghirigori sulla pelle, passare
tra le linee tracciate nella carne. Sente il suo polso congelare, le
sue gambe cristallizzarsi in pietra. La schiena è bloccata a metà da
un peso invisibile.
Aiuto.
« La Linea del Successo. Oh, ma è
interrotta, tesoro » esclama la donna con le sopracciglia sollevate
per la sorpresa. Sorride ancora e i denti le luccicano al debole
chiarore del mattino. Il suo profumo costoso e penetrante, nauseante,
inonda Seamus. Scapperebbe se potesse. Si divincolerebbe, se solo la
strega – perché è una di loro, l'ha capito, ma non subito, e si
picchierebbe per questo – si distraesse.
« Che Linea del Destino strana che
hai, tutta spezzata. Oh, beh » mormora con la sua voce profonda. Il
suo dito continua, inesorabile, a tracciare il suo disegno. Seamus lo
segue, impotente, rinchiuso nel suo stesso corpo. Le poche persone che
si affrettano verso la fermata non li degnano di uno sguardo. Seamus,
disperato, sbuffa per richiamare la loro attenzione, ma si sente
premere un indice freddo sulle labbra.
« Ssh » sussurra la strega. « Nessuno
ti potrebbe sentire. È così inutile affaticarsi, non trovi? » Lascia
allungare le ultime parole, se le rigira tra quelle labbra senza la
minima sbavatura come caramelle. « Abbiamo quasi finito ». L'unghia si
ferma alla base del pollice.
« La linea della Vita... oh! ».
Spalanca la bocca, solleva una mano a coprirla; ma i suoi occhi
luccicano, esaltati, trionfanti. « Pare che si interrompa proprio
adesso » lo informa. Lo accarezza sulla guancia, mentre il sorriso
crolla in un ghigno. « Strano, vero, non trovi? Un presagio di morte,
proprio adesso... ».
Il suo viso è vicino, talmente vicino
che è deformato: un'unica iride lo fissa, il naso è un triangolo
storto, il ricciolo che le rimbalza sulla fronte uno scarabocchio. No,
pensa Seamus. La sua testa inizia a vorticare. Non posso
veramente morire. Non ora.
« Proprio qui, davanti a te » la
strega fa si indica, poi stende un braccio all'infuori con un ampio
movimento, come se fosse pronta a inchinarsi di fronte a un pubblico.
L'aria attorno a lui si increspa, e si
scalda. Il tempo di battere le palpebre, e già qualcuno gli sta
respirando sul collo. Due persone.
D'improvviso le catene che lo
trattengono si sciolgono, la presa sul suo torace si allenta. Seamus
batte le palpebre, apre la bocca, senza capire, mentre l'incantesimo
gli cola sulla pelle come cera calda. Si getta in avanti, tira una
spallata alla strega, che soffia irritata, barcolla, si rialza, muove
un passo in avanti – lento, sei lento, gli urla la sua mente,
mentre il corpo si tende allo spasmo.
Si sente afferrare alle caviglie.
Inciampa. Mette le mani davanti a sé per attutire la caduta, per
potersi dare la spinta necessaria a sollevarsi di nuovo, ma è troppo
tardi, troppo. Il suo mento sbatte contro il selciato con uno schianto
secco. Sapore di sangue sulla lingua. Lampi gialli e viola esplodono
intorno a lui. Geme, ma non demorde.
Combattendo contro il mondo che sembra
oscillare, scrolla le gambe legate, si divincola. Rotola sulla
schiena, si porta le ginocchia al petto, si tocca le caviglie: stoffa.
È legato con due nastri di seta color porpora.
Magia.
Due uomini, assieme alla strega che si
sta massaggiando un braccio, si chinano verso di lui. Uno di loro
serra tra i pugni i capi dei due lacci, come un guinzaglio. Li lascia
andare, e loro gli galleggiano accanto, docili, simili a serpenti
incantanti. Soddisfatto, incrocia le braccia muscolose. È calvo, con
una cicatrice irregolare che gli corre sul cranio.
« Non puoi scappare » gli dice, mentre
stuzzica i suoi nastri con un mignolo. Loro si arricciano con un
rumore di carta strappata. Scrolla le spalle. « Anche se sento freddo
alla testa, senza il mio turbante. Ehi, Doe ». Si volta verso l'altro
tipo. « Ci diamo una mossa? Ho già mal di testa, non vorrei che con
questo vento peggiori ».
« Un attimo, che devo godermi il
momento » lo blocca Doe, in tono monocorde. Si spazza via un granello
di polvere invisibile dalla giacca gessata. Ha una faccia talmente
anonima che sembra quasi non avere lineamenti. Gli abiti gli scivolano
addosso come se fossero appesi a un manichino. Tocca con la punta
della scarpa lucida il fianco di Seamus, poi si umetta le labbra con
la lingua. « Aspetta ».
La strega batte il tacco sul marciapiede. « Dai, su » lo esorta, la
voce morbida che diventa sempre più acuta, a scatti. « O altrimenti ci
verranno a prendere... e tu non vuoi essere preso, John, vero? Ti
ricordi cosa è successo alla Black, vero? ».
Mentre i tre discutono, Seamus cerca
una via di uscita. Si batte sul fianco, segue con lo sguardo le prime
macchine che compaiono e lo abbagliano con i loro fari troppo
luminosi, per poi scivolare via ignare. Le scarpe e gli stivali dei
passanti deviano dai tre maghi, come respinte da una forza invisibile.
Urlare? Si rende conto che non servirà
a nulla: potrebbe gridare per ore e ore fino a bruciarsi la gola e a
squartarsi i polmoni e non servirebbe comunque a nulla. Si divincola,
scalcia, i pugni stretti, ma un gesto distratto gli riattacca le
braccia lungo i fianchi.
Doe lo rimira come se fosse una cavia
da laboratorio pronta per essere dissezionata. Punta verso di lui il
suo sguardo acquoso, distante, fisso su un punto al di là della sua
testa. Anche quando si china e lo mette seduto con un gesto brusco è
sempre lontano, con la testa piegata, come se stesse ascoltando una
radio a volume troppo basso.
Seamus muove di scatto il collo per
tirargli una testata, ma l'uomo, avvantaggiato dal fatto che possiede
ancora un paio di spalle che rispondono ai suoi comandi, si tira
indietro.
Uno schiocco di dita, e una bacchetta
corta e tozza compare nella mano di John Doe. Il mago la punta sul suo
collo, poi scende verso il busto. Seamus si lascia sfuggire un
singhiozzo di paura. Lo stomaco gli annoda, il suo corpo si contrae
per sottrarsi a un urto che non è ancora arrivato – ma arriverà, pensa
Seamus.
« Per favore, fai silenzio » gli
ordina piatto Doe. Gli batte la bacchetta sulla tempia. « Non ti
ricorderai di me, immagino. Avrai rimosso dalla memoria tutto quello
che mi riguarda. È così che facciamo: dimentichiamo ». Scrolla Seamus
per il bavero della giacca. « Io, però, ricordo tutto ».
Di colpo Seamus diventa tremendamente
consapevole del suo corpo che vive, del suo petto che si alza e
abbassa sempre più rapido, e si chiede se morirà davvero, perché forse
è solo una variante dei suoi incubi, forse si sveglierà davvero nel
suo letto e la punta della bacchetta è in realtà qualche oggetto che
gli sta disturbando il sonno.
Non è vero.
« Nella Foresta Proibita. No? » chiede
Doe, al frenetico cenno di diniego di Seamus. Il mago esala un lungo
sospiro. « Immagino. Sono cambiate molte cose, da quando ci siamo
incontrati per l'ultima. Io sono cambiato, almeno » continua, come se
stesse recitando una preghiera.
Dietro la sua testa dagli sciapi
capelli castani si fa strada un ricciolo di nebbia. Seamus spalanca
gli occhi, mentre l'aria si addensa, si ingrigisce, si trasforma in
ombra.
« Hai cercato di uccidermi » gli fa
notare il mago, senza espressione.
Ad apparire per primi sono i capelli.
Una cascata di boccoli neri, lunghi, che fluttuano senza peso.
« Sono caduto a terra. Ho provato un
dolore inimmaginabile. Come se venissi squartato. Come se venissi
sciolto nell'acido ».
Vero. Vero, vero, vero.
Il viso è un ovale perfetto. Gli
zigomi sono scolpiti nel marmo.
« Avresti... » Seamus deglutisce.
Chiude gli occhi. Quando li riapre, la banshee sta muovendo le sue
mani bianche e assassine. La creatura oltrepassa l'energumeno calvo
senza essere vista, come un fantasma.
« Avresti fatto lo stesso con me »
dice con voce rotta. Ricorda la sua presa sudata sul manico della
bacchetta, il Mangiamorte che cadeva e sembrava un soldatino di
plastica, così stupido, a pensarci bene, così stupido...
« Patetico » commenta la banshee,
secca. Lo fissa con degnazione, il portamento eretto. « Sono davvero
queste le tue ultime parole? ».
John Doe lo ignora. « Ti ho visto
fuggire tra gli alberi, prima del buio. E poi, poi qualcuno mi ha
afferrato ». La lingua, rosa e brillante rispetto al volto esangue,
passa ripetutamente sulle labbra. « Mi ha scrollato. Mi ha modificato
» sussurra.
« Volevi sistemare le cose, figlio di
Ryan ». La banshee si china anche lei, potente, forte, seguendo un
movimento che è già stato ripetuto per giorni, settimane, mesi.
Attraversa la testa di John Doe, che si irrigidisce. « Io l'ho fatto »
gli dice dolcemente.
« No » esala Seamus. Il suo pugno si
contrae a fatica, lottando contro la magia che cerca di aprirlo. Non
vuole morire. Non adesso. Non ora.
Ha già freddo. Chissà se avrà freddo.
Vuole vivere. Il cuore gli batte all'impazzata. Si chiede se almeno lo
vedranno, il cadavere. I polmoni pompano aria.
« Ti ho cercato » dice John Doe. La
sua voce è sdoppiata, come se a parlare fossero un uomo e una donna
nello stesso momento. « Ho impiegato anni per trovarti ».
Il mago lascia andare il bavero della
giacca e Seamus rimane con la schiena eretta, come una bambola
abbandonata al muro. Rimane solo la banshee, pallida e delicata, con
un sorriso mozzafiato e splendente – bramoso, si dice Seamus – che
mette in mostra i denti perlacei. Nessuno sarebbe in grado di capire
cosa si nasconde dietro la facciata di finta carne, finti boccoli,
finte vene che corrono in superficie. Si getterebbero tutti davanti ai
suoi piedini, se la potessero vedere, si rende conto Seamus, in un
ultimo sprazzo di lucidità.
Ai margini del suo campo visivo, John
Doe sta ancora parlando, ma la sua bocca si muove a vuoto, come se lui
e Seamus fossero separati da una lastra di vetro. L'uomo con il
turbante ride in silenzio. Il tacco picchietta ancora sul marciapiede,
toc toc toc, ma il rumore che produce sembra così lontano,
così insignificante. C'è solo la banshee, come nei suoi incubi, come
nei suoi cento e duecento dannati sogni che gli hanno trivellato il
cervello. Ci sono solo la banshee e il suo alito che puzza di cadavere
e formalina.
Un lungo lamento esce dalle labbra
della banshee e avvolge Seamus. È una nenia antica quanto la terra
verde dell'Irlanda e lui si rende conto che è come se la conoscesse a
memoria, come se fosse stata riposta a marcire in un angolo della
mente per lungo tempo. Lo avvolge, lo comprime, lo trascina verso il
basso. Si sente piccolo e insignificante, un
bambino tremante accovacciato sul marciapiede, un ragazzino di
dodici anni che scappa da una creatura rattrappita urlante, con
unghie che cercano di afferrarlo per i capelli.
*
Seamus sta affondando. Il canto,
sempre più acuto, sempre più potente, lo porta via e lo cancella. Non
sente più le gambe, le gambe sono fredde. Lui, lui non vuole morire,
pensa, mentre galleggia. È difficile lottare. Il suono si chiude sopra
di lui e lo avvolge in un bozzolo.
Naftalina.
Lui non vuole morire.
Si aggrappa all'ultimo barlume di vita
che gli è rimasto. La banshee canta e canta, così forte che, in uno
sfarfallio di palpebre, Seamus riesce a vedere la sua ugola nera e
profonda.
Io-
Il braccio, il suo braccio è libero
dalla magia.
voglio-
Ora ci sono il suo cuore che vuole
scoppiare, la testa che pulsa, i polmoni che collassano. John Doe alza
la bacchetta grigia.
Vivere.
Seamus appoggia la mano sul busto
della banshee, poi spinge. Affonda fino al braccio nel petto della
creatura, con un grido muto.
Il tempo si ferma. Il mondo, i
Sopravvissuti, l'insegna della fermata della metropolitana: tutto si
fonde in una chiazza indistinta. I contorni delle cose si sfaldano e
si sciolgono nel nulla. Nella terra senza lineamenti ci sono solo loro
due, Seamus e la banshee, l'uno sopra l'altra.
Lei sussulta. Lo stridio incespica, si
abbassa in un roco borbottio e alla fine si interrompe bruscamente.
Seamus respira aria e fiori marci, ma è vivo, ancora, si dice con
gioia esaltata, con furia animalesca, mentre le sue dita frugano.
« Cosa stai facendo? » gracchia la
banshee. Pieghe verdastre le si stanno formando attorno al naso, sulle
guance, sotto le palpebre, sul collo tornito. Spalanca gli occhi e
Seamus può vedere le sclere farsi sempre più gialle e acquose. I
capelli si appiattiscono e le radici diventano lucide, untuose.
Seamus si muove nella carne cedevole.
Sa dove deve andare, perché lei lo sta chiamando, nascosta sotto
strati e strati di muscoli, tendini e arterie, e lui non può fare a
meno di obbedire alle sue richieste. Dopotutto, lei è parte di lui.
La creatura avvizzisce di fronte a
lui. Il naso diventa adunco, la pelle cede. Le mani si caricano di
macchie scure e le vene affiorano in superficie. Si incurva, si
rattrappisce. Mentre la bocca si contorce come un serpente per tentare
di contenere le tre chiostre di denti che stanno sputando, la strega
geme.
« Stai... stai revocando... » sputa
tra un singhiozzo e l'altro.
Seamus, dominato dall'istinto, stacca
la magia dal cuore della banshee e la trascina a fatica tra gli organi
bitorzoluti. La perla di luce pulsa, tiepida, tra le dita appiccicose.
Sorride di gioia, quando la magia gli solletica il palmo, birichina.
Quando lascia scivolare fuori il braccio, sporco di materia verdastra,
un bagliore improvviso lo acceca.
La banshee si accartoccia su se
stessa, fiaccata dall'aggressione, sconfitta, dolente. Un fioco
lamento le esce dalla bocca avvizzita, troppo debole per uccidere.
Alza lo sguardo umido sul volto trionfante di Seamus.
« Non potrai sfuggire al tuo destino,
figlio di Ryan. Potrai scappare da me, ma non dalle conseguenze »
profetizza con voce flebile. « Ricorda, figlio di Ryan. Ricordalo bene
» lo ammonisce.
Ma Seamus non l'ascolta. Alza la testa
e lascia cadere la perla di luce dalle sue mani chiuse a coppa alla
lingua. Quando inghiotte, la magia gli esplode nel corpo come
dinamite. Gorgoglia nel suo sangue come vino. Seamus ride rivolto
verso il cielo grigio, una risata gioiosa, da bambino, mentre il suo
arto ricresce. Slancia le braccia verso il cielo e urla, un grido
liberatorio, da vincitore, così forte che la mandibola inizia a
dolergli, ma non gli importa, non adesso, perché le ferite gli si
stanno ricucendo e stanno scomparendo, perché gli oggetti voleranno
ancora accanto a lui.
E così, quando il tempo gli cade
ancora sulle spalle, quando i negozi e i condomini si raddrizzano e il
semaforo ricomincia a lampeggiare, dalle mani di Seamus esplode una
fiammata libera che avvolge tutto. Come prima, si ritrova a pensare,
stupefatto, stordito, mentre il fuoco gli lambisce le dita senza
fargli male. Come quando era bambino e lasciava galleggiare fiammelle
nell'aria.
Poi l'incantesimo finisce. In piedi,
barcollante, tremolante, confuso, lascia scorrere lo sguardo sui corpi
riversi a terra, pallidi, addormentati. Dal viso insipido di John Doe
scorre un rivolo di sangue. È come se scorresse sul vetro. Le orecchie
gli ronzano. È frastornato. Si guarda intorno e non sa più dove
veramente dove si trovi. Il potere gli fluisce nelle carni e lui si
sente così completo, così vivo. Le mani sono incontrollabili. Vuole
trasformarsi in saetta, vuole gridare fino quando la gola non si
seccherà e le ginocchia cederanno e anche lui crollerà, si sdraierà e
rimarrà lì a ridere, a bruciare, a chiudere gli occhi e a sentire
quanto è pieno, quanto sembra scoppiare.
È libero.
Qualcosa fischia dietro di lui. Seamus
non fa in tempo a voltarsi, ad alzare le braccia per proteggersi, che
viene raggiunto da un colpo alla testa. Male. Dolore.
Il mondo si offusca, svanisce. Cade nel vuoto.
*
La pelle sotto l'orecchio è tirata e
pulsante. Seamus grugnisce. Si sforza di sollevare le palpebre, ma le
ciglia sono incollate e c'è troppa luce, fuori. Lui è abituato ad
alzarsi all'alba. Piano, solleva cauto un indice – è come se lo stesse
estraendo da un guanto troppo stretto, si dice – e sonda il lato della
testa.
C'è un foruncolo.
Che strano, pensa, trasognato,
mentre inizia a grattare con l'unghia e ondate di dolore gli
raggiungono, come al rallentatore, i nervi. È da quando aveva sedici,
diciassette anni che non gli spuntava un vero brufolo. Gli davano un
tremendo fastidio, stava sempre lì con la bacchetta per
farseli scomparire... anche se non ha mai toccato l'apice di
Eloise Midgen, che era andata persino in infermeria... ma dove
sono?
Seamus raccatta i brandelli di ragione
che gli vorticano nel cervello senza scopo e cerca di dare loro un
senso. Muove le gambe, che sono indolenzite. Terreno morbido,
umido, registra. Aggrotta le sopracciglia. Si trovava nel suo
letto... falso. Era alla fermata della metropolitana, era
morto, era vivo, era di nuovo se stesso.
Un pugno l'ha tramortito, quello se lo
ricorda bene; eppure sulla nuca non ci sono né lividi, né bernoccoli.
Si tocca la mandibola. Si era appena rasato, ma ha già un accenno di
barba ispida.
Si siede. È al centro di una radura
erbosa, circondata da alberi nodosi, con le chiome che svettano verso
l'alto. Il cielo ha quel colore trasparente e luminoso tipico delle
giornate senza pioggia e senza sole. Un corvo – no, forse un gufo –
plana alto nel cielo. Seamus lo segue con lo sguardo.
Indossa delle scarpe da tennis
consunte, sporche di fango sulle punte e grigiastre ai lati. C'è una
macchiolina rossa sulle stringhe della destra.
« Fuliggine » elenca Seamus. La sua
voce è sorda e viene presto assorbita dal bosco. « Sangue ».
Poi, finalmente, capisce.
Si rialza di scatto, le radici
prendono il posto delle fronde, ha le vertigini, ma non cede. Si
addentra nell'intrico di rovi, muschio e rami, li scosta a grandi
bracciate e avanza, veloce, sempre più veloce. Sassolini sotto i
piedi, come l'altra volta.
Neppure questo è un incubo.
« No » ansima. Ha sbagliato. « No! »
grida, ma il suo, in mezzo all'indifferente Foresta Proibita, è lo
squittio di un patetico bambino che si è perso. « Farò quello che
vuoi. Ho sbagliato, lo so, lo so, ho sbagliato. Farò quello che vuoi,
ma ritorna » soffia. « Ti prego ».
Nessuno gli risponde. Seamus sferra
una manata al tronco di un albero. Lancia un grido di dolore, quando
schegge di corteccia appuntite come aghi gli si conficcano nel palmo.
Se la sfrega contro i jeans – sono vecchi, quei jeans, li aveva
buttati via solo qualche anno fa, si erano scuciti, strappati e il
bottone era caduto sul pavimento con un toc e dovevano restare
tra i fondi di caffè e le bucce di banana.
Stringe i denti, mentre si afferra il
polso e le ferite iniziano a schiumare. Per prima appare la Torre di
Astronomia, la più alta, storta, con il tetto distrutto. Le finestre
sono in frantumi. L'ultima volta che l'ha vista era un ammasso di
rocce e pezzi di legno.
Dalla voragine che si è aperta – l'ha
sentita, l'esplosione, eppure non si è voltato – rotolano via pietre.
Gli uccelli si posano sulle rovine, l'uno accanto all'altro, in
silenzio.
Io volevo solo sopravvivere,
pensa Seamus. Nient'altro.
Patetica
giustificazione, risponde una voce di anziana donna.
Il sentiero ingombro di sassi e
tronchi si trasforma in un sentiero di terra battuta. Seamus si lascia
dietro i fantasmi delle lezioni di Cura delle Creature Magiche e di un
irsuto guardiacaccia dal sorriso bonario.
C'era Dean, nel castello, a scuola, a
Hogwarts. C'erano Neville e Luna Lovegood e Lavanda Brown e Hermione e
Ron e Harry e facce terrorizzate e gente accartocciata negli angoli.
È stato un egoista.
Doveva vivere.
Ti prego, chiede, e mentre lo, pensa,
per un attimo si porta le mani al volto. Fa' che almeno non siano
morti tutti. Almeno questo.
Forse i Mangiamorte hanno vinto. Li
immagina, grossi avvoltoi, che sfilano in mezzo ai cadaveri. Vede un
Harry Potter che non è più un pazzo, non uno sposo, ma un morto, con
la cicatrice viola che gli taglia in due la faccia e gli occhiali in
frantumi sul naso. Voldemort ghigna.
Morti.
Mi dispiace.
Sono parole abbastanza inutili,
gli fa eco la vecchia.
Ai margini della Foresta, dove gli
alberi cedono spazio a cespugli che frusciano, un uomo vestito di un
mantello scuro è accasciato sopra una chiazza di sangue. Seamus non ha
bisogno di scoprire il suo viso premuto sul terreno per sapere chi
sia. Lo aggira, codardo, troppo codardo per avvicinarsi alle braccia
abbandonate, ai pugni ancora contratti. Rivede occhi lattiginosi fissi
su di lui e volta brusco le spalle al corpo senza vita di John Doe.
*
Con la mano sana – l'altra pulsa
ancora, ma non gliene frega niente, potrebbe anche andare in cancrena,
per quanto gli riguarda – solleva un'asse di legno e lascia penzolare
fuori dalle macerie un biscotto grigiastro, un lembo di una coperta a
fiori. Si fa strada nel cumulo di macerie, estraendo con cautela
frammenti di tazza, un attizzatoio corroso dal fuoco. Mentre se lo
rigira tra le dita e pensa che potrebbe utilizzarlo come arma, si
irrigidisce.
Tende l'orecchio.
Dal castello sta giungendo un brusio,
un coro di sommesse voci umane, come se si stesse risvegliando da un
lungo sonno. O forse è il vento che ulula e lo si inganna, ma è
sufficiente per alimentare le sue speranze. Magari c'è ancora
qualcuno, là dentro, qualcuno di vivo che si benda le ferite, che vaga
per i giardini smarrito quanto lui. Oppure ci saranno solo stanze
piene di detriti, aule con i calderoni vuoti e gargoyle di pietra
addormentati nell'atrio.
Non gli è rimasto molto in cui
credere, dopotutto.
Si volta verso la strada battuta,
verso l'intrico di rovi dal quale è emerso. Il mormorio continua.
Coglie parole come guerra, stanchezza, dormire. È
così stanco. Ed è solo, solo come non è mai stato, come se davvero
fosse l'ultimo uomo sulla terra.
Una goccia di pioggia gli cade sulla
guancia e Seamus se la sfrega via con il palmo della mano. Gli tornano
in mente il suo appartamento minuscolo, il viso appuntito di Jocelyn,
lo sbrigati tonante di Rachel, ma tutto gli sembra così
distante, tutto gli sfugge dalla sua presa. Chissà se si ricorderanno
di lui, si chiede. O forse è stato tutto cancellato, come se al posto
di correggere un errore con un tratto di inchiostro si avesse
sostituito l'intero foglio.
Un passo, poi un altro. Non ha più
nulla, nemmeno una bacchetta, solo un vecchio pezzo di ferro stretto
tra le dita. Non sa cosa lo attenderà, ma continua ad avanzare.
Cammina verso le torri storte, verso
Hogwarts, la sua scuola, la casa che ha distrutto. Il brusio cresce,
insieme al vento. La pioggia inizia a cadergli sulle spalle, sulla
maglietta annerita, sui tagli che ancora bruciano.
Hogwarts.
Note dell'autore:
Se siete veramente arrivati fin
qui, prima di tutto grazie, grazie infinite. Secondo, vi
pago l'oculista, promesso XD
Questa storia si è classificata quarta al contest «Dieci
decimi di contest» indetto da Ferao sul forum di
EFP, e ha vinto il premio originalità. Ringrazio
ancora moltissimo la giudicia e il giudizio che mi ha
postato. Ferao, se passi di qui ancora grazie, grazie
veramente! :D
Poi, beh, che dire? Posto qui le note che ho inviato
anche alla giudice, se a qualcuno interessassero (lo
so, sono una barbara che fa copia-incolla XD):
Questo what if credo che nasca
dal fatto che le pagine finali dei Doni della Morte
non mi sono mai, mai piaciute XD. Non che mi
aspettassi di vedere Harry Potter morto (no, quello
sarebbe stato anche peggio!) però devo dire che quando
Voldemort è stato ucciso ci sono rimasta un po' così.
E la sensazione è aumentata quando ho letto l'epilogo
XD.
Io sono sempre stata convinta che la famiglia Finnigan
avesse una banshee che li tormentasse ogni morte di
parente: è così che mi spiego lo spavento di Seamus
quando, al terzo anno, si vede saltare fuori
dall'armadio il Molliccio trasformato XD. Lei salta
fuori al momento opportuno e i due stringono un patto:
lei ha ucciso Voldemort e salvato tutti quelli che non
erano già morti, lui in cambio le ha consegnato la sua
vita – quando sarebbe morto – e la sua magia, che in
un certo senso l'ha «umanizzata» e le ha permesso di
distruggere gli Horcrux rimanenti (dopotutto,
racchiude in sé sia la magia «umana» sia quella tipica
di una creatura fantastica). Anche se ha avuto degli
effetti collaterali, che derivano anche dal fatto che
Seamus, preso dalla paura, abbia mal formulato la sua
richiesta, desiderando solo «sistemare le cose»: lei
ha fatto un po' quello che voleva, ponendo anche le
condizioni per uccidere Seamus più tardi. All'inizio
volevo chiuderla con un finale di quelli che ti
lasciano con l'amaro in bocca, poi durante la
scrittura le mie convinzioni sono diventate sempre
meno decise e alla fine ho optato per il finale
aperto: lascio a chi legge la scelta, se farla finire
«bene» o «male» :D
Per la violenza, ho cercato di non inserire troppo
sangue, anche se un po' ne è scappato: infatti ho
preferito concentrarmi su vari aspetti (la «paura», la
sensazione di essere perquisito, piuttosto che il
dolore fisico – se non si conta l'emicrania, ovvio
XD).
C'è una cosa, all'interno della storia, che mi
interessa giustificare: i maghi si avviano al
Ministero della Magia a piedi, perché potenzialmente
tutti gli altri mezzi erano pericolosi. Per evitare
qualche irruzione poco piacevole di Sopravvissuti
all'interno dell'edificio, il Ministero ha vietato
Materializzazione, Metropolvere e Passaporte. Ordinare
un intero stock di Mantelli dell'Invisibilità, anche
di quelli che si sfilacciano, sarebbe stato alquanto
improbabile, farli andare con le scope impensabile. Ho
pensato all'Incantesimo di Disillusione, ma sarebbe
stato un po' straniante, vedere camaleonti umani
gironzolare per Londra XD. E poi si muovono all'alba
perché, beh, farli muovere al calar della notte
avrebbero svegliato tutti, in pieno giorno ci
sarebbero stati troppi curiosi XD
Scrivo anche due cosine sui prompt (e poi basta,
perché è diventato un papiro): per il proverbio
africano è come se l'avessi spezzato in due: lui si
alza sempre all'alba, ma cerca anche di contrastare il
suo destino – prima stringendo il patto, poi, spinto
dal senso di sopravvivenza, revocandolo – ma non ci
riesce. Alla fine i giochi sono già fatti e Seamus si
troverà al punto di partenza, sconfitto.
Poi con le tre
parole «Insipido», «Languido», e «Turbante» ci ho
modellato un po' le tre figure dei Sopravvissuti. E
non è un caso se il tizio «insipido» si chiami John
Doe XD è il nome che danno per indicare una persona
la cui identità è sconosciuta XD.
Ancora
grazie per aver letto! :3
Hika
|
|