Liaisons dangereuses
Quel giorno il cancelletto era malchiuso, semplicemente
accostato, il martelletto della chiusura penzolava nel vuoto e la sua
catenella ogni tanto sussultava quando un leggero colpo di vento si
faceva sentire.
Mi sono sempre chiesto come, nella periferia di Londra, a migliaia di
chilometri dal mare, in piena campagna, anzi per essere più
precisi, in uno di quei quartieri residenziali per ricchi benestanti,
potesse soffiare il vento. Da dove vengo io, nello Yorkshire, non
c’è un alito.
Un altro segno di stranezza era la cassetta della posta, che straripava
di lettere.
Helena non è certo quel tipo di persona che lascia marcire
la corrispondenza in quella scatola di latta con la sciatteria di certe
donne in carriera, super impegnate, certi fuoriclasse che non possono
spendere neppure un minuto del loro prezioso tempo per la cura della
casa.
No, non era da lei. Doveva essere successo qualcosa che
l’aveva distratta, che aveva sconvolto i suoi programmi, la
sua prima giornata di ferie dopo più di sei mesi di intenso
lavoro.
Con la chiave alla mano, percorsi il selciato fino alla porta di casa,
fiero di poter ammirare il giardino che io stesso avevo rimesso a posto
senza dover ricorrere al giardiniere che puntualmente veniva una volta
al mese a dare una sistemata.
Era una tradizione consolidata, risaliva al tempo in cui Helena ed io
ancora non ci conoscevamo.
In un anno che abbiamo convissuto non ho mai osato dire la mia ma
guardavo spesso, con malinconia, l’erba tosata al millimetro
come fosse una crudeltà.
Ho sempre amato il prato all’inglese*, un prato un
po’ più selvaggio e campagnolo e vedendolo ridotto
ad uno zerbino mi metteva tristezza.
Non ci misi molto a capire il perché di tutte quelle
novità: in soggiorno trovai una giacca di pelle nera buttata
sul bracciolo di un divano, un bicchiere di acqua prosciugato,
abbandonato sul tavolino, un pacchetto di sigarette Wiston rosse a
fargli compagnia, mezzo vuoto e senza accendino.
Dalla cucina delle voci, una bassa e pacata, l’altra acuta,
nasale e concitata, si sovrapponevano e si accavallavano, ogni tanto
quella più bassa, femminile e terribilmente paziente taceva
e ascoltava i passi pesanti dell’interlocutore sul
piastrellato.
“Cody si è accorto che qualcosa è
cambiato, che mamma e papà non si amano più, che
non siamo più una famiglia…”
“Helena, Cody è mio figlio! Certo che siamo una
famiglia!”
”Ascoltami, non voglio dire che tu non sia suo padre. Voglio
solo farti capire che ormai siamo una famiglia… diversa.
Più ampia.
Non so come devo dirtelo, Brian, ma vorrei che Cody sapesse che
può contare anche su Andrew quando ne ha bisogno!
Così come può contare su
Rebecca…”
Ci fu un attimo di silenzio e poi uno sbuffo da parte di lui. Per un
momento mi sentii un intruso e mi chiesi se dovevo ascoltare di
nascosto e poi, a discussione finita, fingere di essere appena tornato,
ignaro di ogni cosa, o se dovevo intervenire e fare la mia parte.
In fondo quella discussione mi riguardava personalmente, o meglio
riguardava il mio ruolo nella famiglia della mia donna.
“Lasciamo Rebecca fuori da questa storia, per
piacere” replicò aspro, Brian.
Mi avvicinai alla porta della cucina socchiusa e intravidi
l’ex marito della mia donna accendersi una sigaretta con
gesti bruschi e nervosi, scuotendo l’accendino più
volte perché quello si decidesse ad accendere.
Vidi Helena sospirare profondamente e rispondere con un filo di voce,
rassegnata:
“Certo, Brian.”
“Ma perché questa settimana?! Perché la
settimana che io avevo prenotato una vacanza per me e per Cody?!
Perché, con trecentosessantacinque giorni l’anno,
avete scelto proprio quei fottuti sette giorni, cristo
santo!”
“Perché la settimana prossima abbiamo preso le
ferie sia io che Andrew e Cody non ha scuola.
Non vogliamo rimandare ancora e non so quando tu sarai ancora
disponibile con il nuovo tour e tutto il resto.”
Helena aveva appena finito di parlare quando feci il mio ingresso in
cucina.
Non potevo origliare ancora o forse volevo semplicemente chiarire la
situazione.
“Buongiorno amore” mi avvicinai per
schioccarle un veloce bacio sulla guancia, mentre quella, dopo un
momento di iniziale sorpresa mi sorrideva, rilassata.
“Brian” gli feci un cenno di saluto,
appoggiando su una sedia la borsa da lavoro e togliendomi la giacca
nera di quel completo che faceva tanto uomo d’affari.
“Andrew” ricambiò lui, secco,
mentre si avvicinava al tavolo e lasciava cadere la cenere della
sigaretta nella tazzina da caffè ancora incrostata.
“Amore è rimasto del caffè, te lo
riscaldo?”
“No grazie. Piuttosto… a cosa si deve questa
riunione di famiglia?” scherzai osservando la
reazione di Brian che sbuffò, scrollando le spalle,
risentito.
“Sei profetico; neanche a farlo apposta stavamo parlando di
questo.” Ritorse Molko sputando una nuvola di fumo
che mi fece arricciare il naso.
Forse lo fece apposta. Di certo sapeva che odio il fumo e solitamente
impedisco a chi mi sta intorno di appestare l’aria, fosse
anche una semplice “innocua” sigaretta.
Ad ogni modo mi limitai ad allontanarmi da lui, verso la finestra e,
senza neppure chiedere, spalancai le ante perché
entrasse un po’ d’aria pulita.
“Andy, ti ricordi quando parlavamo di portare Cody sulla
neve?”
“Ah si, che idea carina.”
“Verrebbero anche Brian e Rebecca. Così magari
Cody potrà… abituarsi a tutti
noi.”
Accolsi la notizia con un sorriso poco entusiasta e
un’inquietudine inspiegabile.
Avevo la strana sensazione che sarebbe stato un esperimento disastroso,
che la convivenza civile con Brian Molko non avrebbe mai
funzionato. Il mio sesto senso mi gridava a gran voce di
oppormi all’utopia della famigliola felice che Helena
prospettava.
Sapevo che stava parlando della settimana prossima, mi aveva
già accennato di aver parlato con Alicia e Tim che ci
avrebbero lasciato la casa mentre erano in vacanza alle Bahamas.
Tra l’altro io non ero mai stato sulla neve.
In campagna, dove ho vissuto fino a vent’anni fa, la neve era
un odiato nemico che annunciava drammatici giorni di
inattività, il gelo dei campi e la rovina delle piante da
frutta.
Insomma non avevo mai contemplato la possibilità di andare a
“divertirmi ” sulla neve.
Quando Helena mi aveva accennato la cosa avevo già pensato
che avrei trovato qualche scusa per essere il meno presente possibile e
non trovarmi a dover ammettere che non sapevo sciare.
Mi sentivo un po’ provinciale per questo quasi come se fossi
il topo di campagna della situazione.
“Helena, io non ho mai detto che sarei venuto volentieri,
tanto meno in compagnia di Rebecca.” Aggiunse Brian
con voce annoiata, tornando poi ad aspirare dal cilindro di tabacco che
impugnava fra le dita, con piccoli gesti vezzosi, tremendamente
femminili. Questo devo ammetterlo aldilà del
fastidio del fumo, guardare Brian impugnare una sigaretta era qualcosa
di più unico che raro.
C’era una leggerezza in quel gesto, un’eleganza
subdola, sfacciatamente provocatoria che riusciva a catalizzare
l’attenzione degli spettatori sulle sue piccole mani avorio e
poi sulle sue labbra rosee che lambivano il filtro bianco. Ci
si poteva godere ogni istante, come in uno di quei vecchi film degli
anni trenta, lenti, con attori pacati e austeri pure nel momento
massimo di azione.
Una misura nei movimenti che incantava come se quel gesto fosse stato a
lungo studiato, provato e riprovato davanti ad uno specchio da un
attore consumato.
Ancora una volta mi assalì
quell’inquietudine vaga che non seppi spiegarmene la ragione
con la lucidità che mi contraddistingueva.
“Brian, per favore, è importante per Cody!
È importante per noi. E per me.”
Concluse il diminuendo Helena, enfatizzando con un piccolo gesto, il
pugno della destra stretto, le fragili dita avvolte l’una
sull’altra per scaricare la tensione e frenare
l’esasperazione.
“Ho detto che voglio Rebecca fuori da questa
storia…”
Poi improvvisamente chiesi, con un sospiro comprensivo che sfoderavo
solo nei momenti più inopportuni. In quei momenti se mi
fossi guardato allo specchio probabilmente mi sarei preso a schiaffi da
solo.
“Chi è Rebecca?”
Brian per poco non sgranò gli occhi ma mi riservò
solo un piccolo guizzo di sorpresa prima di lasciarsi andare in una
risata ironica che mi punse sul vivo.
Era ragionevole che io non sapessi niente di questa Rebecca, sarebbe
stato ragionevole che Brian, con la pazienza e
l’amabilità che lo contraddistingueva nei momenti
in cui era di buon umore, mi spiegasse tranquillamente di chi stavamo
parlando. Non potevo certo conoscere tutte le frequentazioni di Brian,
una rockstar che vedeva più facce in un’ora di
quante ne vedessi io in una giornata. Ma allora, se avevo ragione,
perché ero arrossito come un peperone e mi vergognavo come
un ladro?
“è la sua compagna.”
Spiegò brevemente Helena con voce sommessa ignorando
totalmente il suo ex compagno.
Brian la sentì lo stesso e affondò la cicca mezza
spenta nella tazzina di caffè, lasciandola a mollo in quel
residuo di polvere e acqua scura.
“Non è la mia compagna.”
Mi parve un’osservazione stupida. Se non era la sua compagna
allora chi era? Da quando aveva paura di chiamare le cose con
il loro nome?
Questo non era da Brian. O forse era un Brian molto diverso
da come l’avevo conosciuto.
In realtà, sarà stata al massimo la sesta volta
in un anno che condividevo il mio spazio vitale con lui più
a lungo dei cinque minuti canonici, buoni per i convenevoli e due
saluti.
Forse stavo semplicemente scoprendo chi c’era dietro quel
sorriso impeccabile e quella voce nasale e dolciastra sempre
cerimoniosa.
“E quindi chi è?” chiesi ancor
più stupidamente. Volevo a tutti i costi provocare
in lui una reazione, capire anche solo un attimo come ragionava. Ero
curioso come un ragazzino che esplora un insetto, osservandolo
affascinato oltre la spessa superficie del vetro del barattolo sotto
cui lo tenevo prigioniero.
“è la mia scopata”
ribattè lui e prese a studiarmi come se si aspettasse che io
mi ritraessi scandalizzato come una donnetta puritana.
Helena intervenne in quel confronto per sottrarmi ai suoi occhi
indagatori.
Era incredibile come Helena riuscisse ad attrarre immediatamente
l’attenzione di Brian.
Come se lui non potesse ignorarla, come se le riconoscesse una qualche
autorità.
Non che lei potesse zittirlo ma sicuramente poteva osare interromperlo
senza ricevere un’occhiata derisoria. Credo non volesse
essere severa o bacchettona, eppure le sue parole mi suonarono come una
predica:
“ Ed è così che la
presenterai a tuo figlio?”
“Oh no, per lui lei sarà la mia
‘amichetta’ ” le
rispose a tono, con un cinguettio che sapeva tanto di presa in giro e
che, non so perché, le strappò un sorriso. Non me
ne capacitavo.
Cosa c’era da sorridere? Se era uno scherzo era di
cattivo gusto!
“Ma il problema non si pone dal momento che non ho intenzione
di portare Rebecca con me.
Penso che inviterò Stef e Dave”
commentò sovrappensiero lanciando occhiate smaniose al
tavolo, al bancone della cucina e infine ad ogni superficie piana ,
chiaramente alla ricerca di qualcosa.
“Ma non doveva essere una riunione di famiglia?
Cosa diamine c’entra… Stefan? ”
Sapevo davvero poco di Stefan. Non conoscevo nemmeno il cognome.
Sapevo a stento della sua esistenza da quando aveva telefonato, un
giorno, per parlare con Helena, non so di che. Ricordo che questo
episodio mi aveva ingelosito e avevo preteso di sapere almeno chi
fosse, cosa facesse, se fosse un amico di famiglia e simili.
Ad ogni modo non vedevo alcuna connessione fra lui e la nostra
settimana da famigliola felice.
Per non parlare di quell’altro, Dave , che non avevo mai
sentito nominare.
“Stef è quanto di più vicino ci sia ad
una famiglia per me.” Concesse Brian,
pensoso, poi commentò, irritante come
sempre “altrimenti sentiti pure
in diritto di invitare chi vuoi”
In quel momento trillò il suo telefono in salotto, cosa che
lo costrinse ad allontanarsi pigramente dal tavolo della cucina a cui
si appoggiava con i gomiti, uscendo dal nostro campo visivo.
Dopo qualche minuto di silenzio fra me ed Helena Brian
annunciò ad alta voce che andava a prendere Cody a casa del
suo amichetto.
Poi, dopo il fruscio di una giacca, lo stridore della porta che si
apriva e si chiudeva con un tonfo, pensai che ancora una volta questa
decisione era rimandata al giorno dopo.
Non avremmo rivisto Brian prima di allora.
*******************
Riposi i vestiti da lavoro ben ripiegati su di una sedia, in camera, e
decisi di farmi una bella doccia calda.
A Londra, di questi tempi, tirava ancora aria invernale,
benché ci si aspettava che sarebbe giunta la primavera, a
fine marzo.
In più io sono un tipo freddoloso che non disdegna quasi mai
una bevanda o un bagno caldo.
Tra me e me pregustavo già una serata con Helena tutta per
me.
Mi sentivo in vena di romanticherie, volevo stringerla e sussurrarle
parole dolci , accarezzandole una guancia morbida e rosea con la mia
solita premura.
Lasciai la manopola dell’acqua aperta finché la
vasca non fu riempita e ci versai dentro bagnoschiuma e sali
marini da bagno.
Mi spogliai completamente e mi infila nella vasca abbandonandomi con un
brivido alla carezza tiepida dell’acqua schiumosa.
Prima di andare a vivere a Londra anche quest’usanza mi era
sconosciuta.
Oggi mi chiedo come abbia potuto vivere senza.
Chiusi gli occhi per un attimo e poco dopo mi parve di avvertire lo
sgradevole odore di un bastoncino di incenso che fumava lavanda.
Mi risollevai a malincuore mentre le acque intorno a me si agitavano e
vidi entrare lei avvolta in un asciugamano, i capelli sulle spalle,
sciolti dallo chignon in cui spesso erano costretti e con un lamento
attirai la sua attenzione:
“Helen! Cos’è questa puzza?”
Lei mi osservò mentre io tornavo ad adagiarmi sulla
superficie concava della vasca e mormorò in tono burbero,
con un mezzo sorriso:
“Credo che ci sia un conflitto di interessi in
atto.”
Sbuffai, strofinando il naso con due dita e poi chiesi speranzoso, e
perché no, con una punta di
malizia: “Perché non
mi raggiungi qui?”
Lei fece finta di pensarci, sedendosi accanto a me, sull’orlo
della vasca;
mi sussurrò qualcosa nell’orecchio, con dolcezza
come il fruscio indiscreto del vento che sibila negli orecchi, quasi
subdolo.
Io mi protesi in avanti per incontrare le sue labbra carnose, un
fiorente bocciolo che si schiudeva sotto i colpetti gentili della mia
lingua che saettava cercando la sua avidamente.
“Aspetta…” appoggiò
entrambe le mani sulle mie spalle, allontanando il viso dal mio.
Non riuscii a reprimere un mugolio contrariato e accavallai le gambe,
rigido, strofinandomi contro la vasca da bagno.
“… fammi spegnere l’incenso. O forse ti
sei abituato al fumo?” si prese
gioco di me lei lanciando un’occhiata divertita
alle mie gambe che si intrecciavano fra loro.
Era bastato poco e già fremevo mentre il mio corpo si
risvegliava e un calore bruciante risaliva dal basso ventre.
Quel colloquio con Brian mi aveva stancato, era stato
l’ennesimo impiccio di una giornata di lavoro che si
trascinava lentamente dalle otto di questa mattina.
Sospirai, cercando di calmare i bollenti spiriti e frenare la
voluttà e l’istinto di toccarmi.
Quella stanchezza era cosa ben diversa dalla spossatezza che ti fiacca
nell’animo e nello spirito.
Ero improvvisamente stanco di aspettare, quando avevo sperato a lungo
in questo momento, fra una telefonata, un incontro di lavoro,
un telegramma da New York, un pranzo d’affari e tante carte
da firmare.
Affondai la testa nell’acqua e accarezzai la manopola
dell’acqua fredda meditando di abbassare la temperatura
corporea che era rapidamente salita mentre nella mia mente si
affollavano fantasie e immagini di lei.
Non osai raffreddare troppo l’acqua della vasca, temevo che
l’avrebbe fatta rabbrividire e quasi non mi accorsi di quanto
rapidamente ella fosse scivolata fuori dall’asciugamano,
lasciandolo ripiegato e in ordine sul ripiano di marmo del lavandino,
di fianco alla vasca.
Me la ritrovai in grembo, fra le gambe, con i capelli umidi appoggiati
sul mio petto mentre accarezzava qualche pelo ribelle che stava
ricrescendo dopo la cera.
“Domani vado dall’estetista, prenoto anche per
te?”
Sentii solo l’eco di quella domanda che mi
rimbalzò in testa solo per un attimo: sentivo il peso delle
sue curve sulla mia pancia e sulle mie cosce, sentivo la sua pelle
bagnata strusciare contro la mia virilità, messa
sull’attenti.
Presi a baciarle il collo, sforzandomi di farlo il più
dolcemente possibile.
Sono un cavaliere a letto. Cerco di contenermi e mi controllo fino alla
paranoia, voglio che niente vada storto.
Ma mentre cercavo di girarla, stuzzicandole la base del collo con la
lingua e facendo pressione sul suo fianco perché accettasse di
soccombere al mio peso e invertire le posizioni, lei sembrava prendere le
distanze appiattendosi contro la fredda ceramica della vasca, dandomi
sollievo e lasciandomi profondamente insoddisfatto.
“Cosa ne pensi di Brian?”
Brontolai, ferito, mentre prendevo fiato, respirando pesantemente come
un bagnante che è scampato
all’affogamento. Non potevo credere che stesse
menzionando Brian - o anche semplicemente che ci stesse pensando!
– in questo momento.
Mentre le baciavo il collo, mentre mi scioglievo sentendola fra le mie
gambe, mentre volevo solo seppellirla sotto di me e farla mia, contando
ogni singolo gemito che si sarebbe lasciata sfuggire la sua bocca,
paffuta e rosea come una tenera guancia infantile, mentre io vivevo tutto
questo, lei pensava a Brian.
“Non ci penso. Perché dovrei pensare a Brian
mentre faccio sesso con te?” ribattei, brusco.
Non avrei dovuto mostrarmi così seccato. Adesso
avrebbe pensato…
“Sei geloso?”
Ecco appunto. Non riescii nemmeno a smentirla.
Come potevo dirle che quell’uomo mi metteva una strana
soggezione? Che mi infastidiva la sua continua presenza?
Era terribilmente invadente e onnipresente in ogni gesto di
Cody, in ogni richiamo di Helena, era una presenza implicita
che sembrava permeare quella casa come uno spettro maligno.
“Senti, Helena, perché non ci
trasferiamo?”
“Che cosa?”
“Voglio comprare una casa mia.”
Vidi che mi guardava perplessa. Non capiva. Come avrebbe potuto?
In fondo non era lei la seconda scelta. Non era lei
il “nuovo” compagno. Lei per me è la
prima, metaforicamente parlando – si capisce
– .
Le ho dedicato tutto me stesso, per me non esiste nessun altra.
E so che anche per lei sarebbe lo stesso se non fosse per la presenza
di lui che rovina sempre tutto.
Lei mi ama, con tutta sé stessa, ma non riesco a sentirmi
l’unico e il solo. Sono l’eterno secondo.
“Cos’ha che non va questa? È casa
mia.”
“Non è casa tua.”
“Cosa?”
“Non è solo casa tua. E casa vostra.”
“Vostra?”
“Di te e lui”
era turbata. Potevo vedere le sue sottili, scure sopracciglia
inarcarsi, le linee del viso che si avvallavano con quella sua adorabile
fossetta che le deturpa il mento,era buffa e
straordinariamente bella, persino mentre mi guardava con una profonda
inquietudine negli occhi.
“Andrew, per piacere, piantala di dire sciocchezze.
Io e Brian ci siamo lasciati da più di un anno e non hai
nessun motivo per pensare che questa casa sia più sua di
quanto non sia tua.”
Non è vero. Lo sapeva e non lo voleva ammettere. O forse
semplicemente non lo voleva vedere.
Feci cadere il discorso. Non avevo voglia di litigare ma mi era
anche passata la voglia di fare sesso.
In realtà non avevo voglia di niente ed era abbastanza
triste che una cosa del genere potesse deprimere i miei appetiti sessuali
con grande facilità.
Mi strinsi a lei e poi mi distaccai accarezzandole per un attimo il
volto distante; non mi prestava attenzione, aveva lo sguardo fisso sul muro,
sulle piastrelle avorio del bagno o forse sul pannello di legno dove
sono riposte le mille bottigliette magiche, shampoo, balsamo,
bagnoschiuma, crema idratante, sali da bagno, aromi naturali ed effetti
speciali per annaffiare l’acqua di spumose schiume.
Volevo costringerla a guardarmi, seguii la linea del collo e affondai
sempre di più nell’acqua, nelle clavicole
sporgenti, adoro quella cassa toracica così stretta, pizzicai
i seni con malizia, e sentivo i suoi capezzoli rispondere con solerzia al
calore della mia mano.
La palpavo con movimenti circolari e avvolgenti ma lei apparve quasi
infastidita dai miei gesti amorevoli e si ritrasse di nuovo offrendomi il
fianco e la spalla dura su cui appoggia il collo cignesco,
accartocciato contro l’osso mentre il suo sguardo mi trapassò
da parte a parte.
“Volevo sapere cosa ne pensavi di questa settimana di vacanza
con Brian…”
Avevo gli occhi liquidi, la bocca arida in fondo e la saliva che si
raggrumava ai lati, sarebbe colata giù se non fosse stata impedita dalla
lingua e dal muro dei denti, l’acqua mi bolliva intorno e mi
sentii pulsare come un vulcano che sta per esplodere e non ne potevp
più di sentir parlare di Brian.
“Io…” ingoiai la saliva, la mia gola non
era più tanto secca ma la voce che ne uscii continuava
ad essere rauca e raschiosa come la ghiaia
“penso…che sia una buona
idea…”
Non fu soddisfatta della mia risposta, non potetti fare a meno
di giustificarmi:
“non possiamo parlarne…dopo?”
le lanciai uno sguardo significativo.
Scosse la testa. Io infilai giocosamente la mano sotto la sua ascella
pizzicandole i peletti, residuo di una cera di qualche tempo fa che
aveva bisogno di essere ripassata e con le mani sotto le ascelle la
sollevai come si fa con un bambino piccolo, esultando come un
papà giocondo e lei reagii con una risatina divertita che
mi rilassò.
La appoggiai con delicatezza nella pancia della vasca da bagno e calai su
di lei mordicchiandole a turno i capezzoli intirizziti dal freddo che
protestavano per essere stati esposti all’aria esterna.
“Io spero…che con Brian… vada tutto
bene…che a Cody
piacerà…” mormorò con voce
carezzevole e finalmente ansimante Helena mentre la mia lingua scendeva a
tradimento a corteggiare la peluria scura, appena sotto quel
raggrinzito buco che chiamano ombelico.
***************
Note
* Al contrario di ciò che normalmente si pensa, quando si
parla di prato all’inglese non ci si riferisce a quei bei
giardini senza neanche un filo d’erba fuori posto, tipico dei
giardini rinascimentali, ma di un prato un po’ selvaggio, con
l’erba alta, e meno curata, ma più
“esotica”, con piante di diversa provenienza, dai
cactus alle magnolie , e disposizione varia, tutt’altro che
regolare.
Angolo
dell’autrice
Sono tornata con Andrew.
Semplicemente amo il suo punto di vista, mi lascia la
possibilità di raccontare una storia, di intervallarla con
quel tocco di introspezione che guasta sempre (ma che si annida ovunque
e non può essere lasciata fuori da ospite indesiderata
qual’è) e darmi l’occasione di
scrivere dei miei beniamini.
Volevo solo precisare che l'etichetta "AU" non è proprio
esatta.
Il racconto non è assolutamente estraneo al
contesto reale ma diciamo che quest'ultimo è meno "storico"
e specifico del solito.
Un avvertimento: questa storia avrà dei ritmi molto lenti.
Maledico me stessa perché non mi sarei dovuta imbarcare in
un’altra impresa di questo genere quindi preparatevi a
perdonarmi di tutto e di più.
Il titolo è tratto dal romanzo di Chaderlos de laclos -
letteralmente "le relazioni pericolose" - da cui è stato
tratto il film con Michel Pfeiffer e John Malkovic.
Dimenticavo il solito mantra: non li conosco, non loro non conoscono
me, è tutto falsissimo, e sicuramente loro stessi
sconfesserebbero tutto questo se mai capitasse loro di leggere il
racconto (notare il periodo dell'impossibilità
ù.ù)
Neal C.
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