[La
storia
precedente.]
Sono
passate diverse settimane da quel giorno orribile e, per fortuna, non
ha più avuto alcun genere di sogni più o meno
imbarazzanti ed intimi che come protagonista volevano l'olandese.
Non
ci ha più pensato, davvero.
Non
è rimasto fisso allo specchio del bagno, sfiorandosi il collo
ed i bottoni della camicia, rimuginando su quanto fossero vivide le
sensazioni di quel sogno che sembrava non avere mai fine.
La
cosa peggiore non sono i baci; non più, dopo che la febbre è
passata ed è tornato a ragionare lucidamente. Dopotutto, ogni
cosa era finzione, ma...
Quella
tazza.
La
stramaledetta tazza fatta col sembiante del musetto dolce di un
coniglietto bianco. Un piccolo pensiero che non sarà costato
niente, in termini economici, ma che lo ha fatto riflettere così
a lungo da diventare matto, perché quella tazza esiste
davvero.
È
una brava persona, è gentile, bisogna conoscerlo meglio.
Parole
di un Danimarca troppo stupido e buono per capire quanto quelle
osservazioni lo infastidissero, anziché spingerlo a sforzarsi
un po'.
Sulle
prime Olanda non dice niente, limitandosi a fissare il norvegese come
fosse un normalissimo pezzo d'arredamento apparso per magia davanti
alla porta di casa. Se è sorpreso non lo lascia vedere molto,
a parte forse un lieve inarcarsi di sopracciglia.
Le
sue occhiate -inutile dirlo- irritano moltissimo l'ospite, il quale
medita seriamente, per almeno cinque o sei volte, di andarsene senza
emettere un suono.
«Vuoi
entrare?», gli chiede, infilando con
noncuranza un pollice nella tasca dei jeans strappati. Jeans che
Norvegia fissa con discreto disappunto, censurando una dozzina di
battute su adulti che giocano a fare i ribelli adolescenti.
«No,
mi godo il design della porta»,
ribatte piattamente.
«Sei
simpatico come ricordavo», sussurra
l'olandese, facendosi da parte e lasciandolo finalmente mettere piede
in casa.
Non
la osserva più di tanto, anche se non può fare a meno
di notare quanto tutto sia perfettamente in ordine, e c'è un
profumo, insistente come se ormai le pareti ne fossero impregnate, di
tabacco dolce e speziato.
«Sei
fortunato. Se avessi suonato cinque minuti dopo non avrei sentito.»
Lo
guarda e si accorge che tira fuori dalla tasca posteriore una piccola
paletta dal manico arancione.
«Coltivavi
erba?»
«È
solo così che mi vedi?»
Rispondere
ad una domanda con una domanda, cosa c'è di più
irritante? A parte Danimarca che canta a squarciagola mentre fa il
bagno con le sue amate paperelle.
Anche
la prontezza nel ribattere è fastidiosa, per Norvegia, perché
ha sempre creduto di essere il principe assoluto in quel settore.
Apre
la bocca per replicare, ma l'olandese non attende. Gli fa cenno di
seguirlo e lo accompagna in cucina, dove, senza informarsi se voglia
qualcosa, in men che non si dica inizia a preparargli il caffè.
Norvegia
si fissa le scarpe, andando a sedersi al tavolo della cucina, a
disagio e fuori posto.
È
una brava persona, è gentile, basta dargli un'occasione.
«Io...»,
comincia, schiarendosi la voce.
«Ti
è piaciuta la tazza?», lo
interrompe, mettendogliene sotto il naso una normale, colma di un
interessante liquido dal quale dipende in maniera vergognosa.
Si
sente infiammare lentamente le guance e le mette le mani attorno,
sfiorando involontariamente le sue dita che ci sono ancora vicine.
Gli si avvita lo stomaco e la sensazione è la cosa più
spiacevole che avrebbe mai potuto provare in sua presenza.
Per
alcuni secondi tutto diventa nero, tanto da spaventarlo, e teme di
essere leggibile come un diario dal lucchetto saltato.
«Volevo
ringraziarti», butta fuori a fatica,
veloce ma in tono calmo.
Olanda
si arresta con la mano sul pacchetto di sigarette e lo lascia dov'è,
voltandosi a guardare la testa bionda china sul tavolo. «Fai
sul serio?»
Reprime
un lamento infastidito, poi lo guarda negli occhi, ostentando tutta
l'indifferenza del mondo.
«Quella
dannata pioggia l'ho presa per colpa tua, sono stato male per colpa
tua, ho dovuto subire i tormentati monologhi di Dan, le sue (tue)
tisane e brodini per tre giorni (e di questo incolpo sempre te), ma
mi hai portato a casa. Quel che è giusto è giusto.»
Si
ferma, picchiettando con l'indice sulla tazza del caffè, se la
porta alle labbra e conclude la spiegazione prima di bere un sorso.
«Inoltre il regalo mi piace.»
Sente
un leggero calore diffonderglisi nelle guance e si nasconde
provvidenzialmente sorbendo la bevanda con estrema lentezza.
Olanda
non si siede e lo scruta con espressione seria, accigliata.
«Lasciando
perdere il fatto che non mi ritenga responsabile del tuo malanno, sei
venuto sin qui per ringraziarmi per una tazza?»
Il
caffè quasi gli va di traverso, ma resiste. Sì, è
andato ad Amsterdam per quello. Missione compiuta? Evviva?
«Esattamente»,
mormora con dignità, finendo il caffè ed alzandosi
lentamente.
Olanda
lo osserva a lungo, rischiando di metterlo in serio disagio, ma,
entrambi orgogliosi, si fissano senza battere ciglio per un lungo
minuto. Infine, l'olandese fa un cenno con la mano ed esce dalla
cucina.
«Vieni
con me.»
Il
suo cuore si stringe, così come lo stomaco. Non è che
l'abbia detto in un tono particolarmente equivoco, ma si trova pur
sempre in casa sua ed ha ancora addosso i rimasugli di quel
lunghissimo sogno. Ce l'ha appiccicato come una pellicola sottile
dalla quale è faticoso liberarsi.
Preme
leggermente le mani contro il corpo, distraendosi con il tessuto
morbido dei pantaloni, mentre un angolo della sua mente pensa che
avrebbe dovuto telefonargli, mandargli un messaggio tramite
Danimarca, oppure scrivergli una mail.
Quel
confronto diretto è scomodo, visti i propri trascorsi onirici.
«Non
vieni?»
Olanda
è sulla soglia della cucina, a guardarlo con la mano sul
fianco. «Credi che voglia portarti
nella terrificante e fumosa Serra dei Drogati?»
Si
muove per seguirlo, rigido, ottenendo un brontolio di approvazione.
Niente serra, niente piante strane. Lo porta nel posto più
meraviglioso del mondo.
Sgrana
gli occhi, interessandosi.
«Siamo
ancora a casa tua?»
Olanda
sorride impercettibilmente con gli occhi. «Ti
piace?»
È
una stanza piuttosto grande, con due divani non troppo di lusso e
tutto l'occorrente per prendersi cura di quelle amorevoli,
bellissime, morbide ed assolutamente irresistibili creature.
Coniglietti.
Di
ogni colore, di diverse razze, intenti a sonnecchiare, a rosicchiare
qualcosa o a coccolarsi tra loro. Niente gabbie in vista, solo una
calda e luminosa stanza d'appartamento nella quale sembrano,
paradossalmente, inseriti meglio che in un prato.
«Questo
è-»
«Il
Paradiso?», termina in tono divertito
l'olandese, entrando nella stanza e chinandosi per prendere tra le
mani una pallina di pelo bianca, con una macchia a forma di cuore
dietro la schiena. È un ariete nano, la punta delle buffe
orecchie abbassate di un tenue avana.
Gli
si avvicina con quell'animaletto e glielo tende. «Lei
è Nijntje, la mia donna»,
dichiara serio. «Puoi tenerla in
braccio, è tenerissima anche con chi non conosce.»
Norvegia
non se lo fa ripetere due volte, non ci prova neanche a fingere che
non gli interessi. È una sua debolezza, ma Olanda ha una
stanza piena di coniglietti adorabili, quindi anche lui,
tecnicamente, ha una fissa per quegli animali.
Alza
le braccia e prende la pallina di pelo, così piccola e morbida
che con i due palmi la contiene quasi tutta. Se la avvicina al viso e
si sente sciogliere qualcosa dentro mentre col suo musetto gli
esplora la faccia, amichevole e curiosa.
«Da
quando vivi con tutti questi conigli?»,
mormora, per una volta in vita sua interessato a qualcosa che
riguardi il caro amico di Danimarca.
«Da
sempre. Trovo che siano gli animali più dolci del mondo. Tu
no?»
Annuisce,
arrossendo e lasciando che la piccola gli si arrampichi sulla spalla
e si appallottoli lì, zigando piano e con soddisfazione.
Solleva la mano e la gratta tra le orecchie, amorevole come sa essere
soltanto con loro e con i bambini molto piccoli. O con suo fratello.
«Sembra
che tu le piaccia», osserva,
mettendosi a coccolarla anche lui e scontrando le sue dita, di tanto
in tanto, con quelle del norvegese.
Lo
stomaco di Norvegia si avvita, sembra costringersi tutto in un punto
ogni qualvolta capita. Coglie quei segni e si demoralizza, perché
quella è la vita reale e lui non dovrebbe assolutamente
sentirsi così.
Per
lui.
«Certo»,
borbotta, ingoiando ogni forma di imbarazzo e sostenendo con
inespressività completa il suo sguardo smeraldino.
Non
sembra male, Olanda. Non visto così. Non sembra affatto male,
come dice Dan.
È
sicuramente colpa di quella stanza.
«Pare
che alla fine qualcosa in comune ce l'abbiamo, mh»,
gli sussurra, in un tono non insinuante, non fastidioso, non
trionfante. Normale, semplicemente deduttivo.
Norvegia
annuisce ancora, colpito e sorpreso. «Come
lo sapevi?»
«Cosa?
Che ti piacciono i conigli?»
«E
che mi dà fastidio il tuo fumo. Da quando sono qui non hai
acceso una sola sigaretta. Sfiori il pacchetto che immagino tu abbia
in tasca e lo ignori.»
«L'hai
notato?»
Olanda
fa un piccolo sorriso simile a una smorfia, ma non gli sta affatto
male. «Diciamo che so osservare e ho
un migliore amico che parla troppo. Spesso di te.»
«Quell'idiota»,
sbuffa, avvicinandosi a uno dei divani e sedendosi vicino ad altri
due coniglietti che, quasi immediatamente, balzellano lì e gli
si appallottolano contro la gamba in cerca di coccole.
«Lo
sai che è innamorato di te, Nor?»
«Assurdità.»
Si
avvicina e gli si siede accanto, ma ad una certa distanza. Norvegia
cerca di non ripensare a quel sogno vivido, perché c'era un
divano anche lì ed erano soli allo stesso modo. Ricorda
persino la sensazione delle dita sotto la camicia, il suono che ha
fatto la stoffa quando l'ha strappata e i bottoni si sono dispersi.
Coccola
teneramente i due coniglietti, più la preferita dell'olandese
che sembra averlo preso in simpatia, sforzandosi di spezzare quella
sensazione di déjà-vu grazie alla loro presenza.
«Che
cosa intendi fare con lui? Tiene a te da morire.»
Norvegia
inarca un sopracciglio, infastidito dalla sua insistenza, e si mette
a guardarlo con il viso appena voltato.
«È
per questo che mi facevi quelle stupide domande, l'altra settimana?
Volevi sapere cosa provassi per Danmark?»
«Non
c'è nulla di sbagliato in questo.»
«Sono
affari miei, ovviamente è molto sbagliato.»
«È
mio amico e non voglio che tu gli faccia del male.»
«Perché
non te lo prendi tu, allora.» Lo
provoca deliberatamente, con quell'insinuazione, ma non si aspetta il
suo sguardo severo e la risposta secca, brutale.
«È
quello che farò.»
Danimarca
e Olanda...? Non ci ha mai pensato, non seriamente.
Lancia
un'occhiata alle ciocche sparate per aria e si dice che sarebbe
proprio un bel duo, quello: la coppia dai capelli stupidi, da
riconoscere da dietro anche a distanza. Sibila qualcosa e si porta un
coniglietto davanti al naso.
«Meraviglioso,
mi trovi favorevole. Potrei anche aiutarti se in cambio mi facessi
coccolare questi coniglietti una volta a settimana.»
Olanda
fa un piccolo sorriso storto e si sfilaccia il jeans strappato sulla
coscia.
«Sei
un tipo che si accontenta di poco.»
«No,
sono un gran romantico e tifo per la vostra storia»,
dice in maniera piatta.
Olanda
si volta, piazza il gomito sullo schienale e lascia che il palmo
della mano gli sostenga il peso della testa inclinata. «Non
ti importerebbe proprio?»
Il
norvegese si china e raccoglie altri animaletti, portandoli sul
divano e mettendoseli in grembo, come se progettasse di farsi
ricoprire da loro e sparire alla sua vista.
«Hai
frainteso la sua adorazione per me»,
sussurra dopo un po', innervosito, sforzandosi di guardarlo in faccia
più a lungo possibile. «Siamo
una famiglia, ognuno di noi è il pezzo unico di un
grande puzzle. Dipendiamo gli uni dagli altri e l'unica cosa che
interessi a Dan è di potermi stare vicino. Non confondere
questo con l'amore.»
Sembra
pensare alle sue parole, soppesarle, poi si avvicina un po' e allunga
l'altra mano per accarezzare la schiena di uno dei coniglietti. Sono
così piccoli e la sua mano è tanto larga che basta poco
per dispensare coccole a quasi tutti, finendo ancora per incontrare
le dita gelide di un norvegese sull'orlo del collasso emotivo.
«Non
me n'ero mai accorto», mormora, quasi
sovrappensiero. «I tuoi occhi non sono
blu. Sono sempre stato convinto che fossero blu, invece, ora che li
guardo da vicino, mi accorgo che sono... indaco?»
Il
cuore comincia a battergli così forte che si chiede se sia mai
successo, prima, ad eccezione di qualche battaglia ormai sepolta dal
tempo. Come può fargli appunti del genere? Che senso ha
mettersi a parlare del colore dei suoi occhi?
«Non
avevo mai avuto l'occasione di guardarti bene. È una scoperta
interessante», continua, catturando un
coniglietto e portandoselo sul petto, per poi lasciare che gli si
arrampichi su per la spalla.
Lo
aiuta tenendogli il palmo sul sederotto, sorridendo con uno sguardo
laterale alla bestiola. Un sorriso ed uno sguardo dolce che Norvegia
non si perde, ma può finalmente respirare di nuovo con calma,
perché non ha più le sue dita caldissime vicino alle
proprie.
«Ci
siamo già guardati negli occhi, Ned. Quando si parla con
qualcuno è buona creanza farlo, quindi se sei improvvisamente
guarito dal tuo daltonismo posso solo farti le congratulazioni. Fai
finta abbia applaudito.»
Non
è questo quello che vorrebbe dirgli; probabilmente non
dovrebbe dire nulla e basta.
«I
tuoi occhi sono spesso socchiusi ed annoiati»,
insiste l'uomo, il quale, dopo essersi assicurato dell'equilibrio
raggiunto dal coniglietto in spalla, torna a concentrarsi
completamente sull'ospite. «Anche quel
giorno sotto la pioggia non riuscivo veramente a vederli. Oggi invece
ti sto guardando e vedo indaco.»
Fa
un piccolo sorriso, davvero microscopico, tanto che Norvegia crede di
esserselo immaginato.
Lo
riaccompagna alla porta dopo avergli fatto smarrire la cognizione del
tempo. Il cielo si sta scurendo e Norvegia deve prendere un aereo per
tornare a casa, ma staccarsi dalle soffici e dolci creature è
stata un'impresa.
Come
si congeda da lui, ora?
Una
parte del norvegese vorrebbe scusarsi per essere sempre così
scorbutico e freddo, l'altra gli sta sibilando di chiudere il becco e
di non pensarci neppure, perché è solo fedele alla
propria natura.
Si
volta e se lo trova quasi addosso.
Sgrana
gli occhi e stringe le labbra, il respiro mozzato dall'incredibile
vicinanza.
L'olandese
è chino su di lui, per un lunghissimo momento la punta del
naso di Norvegia sfiora le sue labbra.
«Ned»,
esala, la voce sottile e la schiena premuta contro la porta.
«Avevi
qualcosa tra i capelli.»
Il
tono di Olanda è così intenso da fargli provare quasi
dolore fisico.
Lo
osserva allontanarsi da lui e tornare dritto, un piccolo pelucco di
polvere stretto tra due dita. «Sarà
stato qualcuno dei miei piccoli.»
Vorrebbe
darsi un colpo al centro del petto ed uno in testa: il primo per far
riprendere piena funzionalità a cuore e polmoni, il secondo
per chiamare a raccolta il senno. Che sia finito sulla Luna? Gli
serve un carro? Un ippogrifo?
«Ho
un problema, Nor.»
Oh,
beh, sapessi io come me la sto passando...
«Non
sai come chiedermi un prestito per comprarti dei pantaloni decenti?»
Ha
preso tempo per pensare, con quella frecciata, perché ora
gli chiederà perché ha passato buona parte del suo
tempo a fissargli le labbra e lui non sa cosa rispondere.
Gli
dirà: volevi assicurarti della loro forma come io ho fatto
con il colore dei tuoi occhi, oppure volevi semplicemente baciarmi?
Ti chiedi come sarebbe nella vita reale?
Olanda
si guarda un attimo le gambe con fare truce. «A
me sembrano normali.»
Torna a piantargli gli occhi in faccia e si porta le mani ai
fianchi. «Il problema è
che non so come salutarti, perché per la prima volta da
quando ti conosco sono stato bene insieme a te.»
«Un
ciao e grazie di essere passato sarà sufficiente”,
commenta placido.
«Sono
sorpreso di ritrovarmi a pensare al fatto che Dan abbia ragione su di
te. Non credevo avrei mai dato credito a quelle parole senza fine
spese per tessere le tue lodi.»
«Tranquillo,
io ancora non credo a quelle su di te.»
Sfiora
la porta alle spalle cercando di ritrarsi, perché ha
l'impressione che lui si avvicini. Non è così, è
colpa della sua altezza, della prospettiva... Olanda non ha motivo di
avanzare. Non lo abbraccerà come fa sempre con Danimarca, non
gli scompiglierà i capelli. Deve solo respirare e contare i
secondi che lo separano dalle scale là dietro. Deve smetterla
di guardarlo, deve girargli la schiena ed uscire.
«Per
rivederti in maniera pacifica come oggi devo farti un altro regalo?»
Il
norvegese si aggrappa alla propria capacità di non apparire
sorpreso, ma mentalmente sente la mascella arrivargli al petto. Vuole
rivederlo? E perché il cuore ha ricominciato ad assordarlo?
«Perché?
Non hai paura che ti sottragga un coniglietto alla volta? Potrei già
averne uno sotto il cappotto.»
L'uomo
sorride senza muovere le labbra. È una luce diversa che gli
appare negli occhi e, a tal proposito, Norvegia sta pensando che non
siano proprio verdi. Non crede di aver mai visto in natura un colore
così ammaliante.
… Ammaliante?
Ha
la febbre di nuovo, è una ricaduta. Garantito.
«Devo
perquisirti per stare sicuro?»,
sussurra, ma senza fare alcun cenno di toccarlo.
È
una fortuna, perché la nazione nordica non sa quanto
autocontrollo gli sia rimasto, a furia di perdersi in quegli inutili
pensieri.
«Sei
in grado di rispondere ad una domanda senza porne un'altra?»,
ribatte con un sospiro, ostentando irritazione ed incrociando le
braccia per difesa.
«Se
mi si fanno le domande giuste. Sono un tipo diretto.»
Norvegia
inarca un sopracciglio, appoggiandosi così forte alla porta da
ringraziare si apra verso l'interno, evitandogli possibili cadute.
«Perché
vorresti che tornassi?», gli chiede
allora, sforzandosi di non sembrare così interessato alla
risposta, ma fremendo di agitazione.
Lo
osserva, però non resta in silenzio a lungo, non tanto,
comunque, da farglielo pesare come un macigno di disagio.
«Sono
stato inaspettatamente bene, come ti ho detto.»
Norvegia
continua a scrutarlo in maniera piatta, come aspettandosi altro.
Altro che arriva dopo una manciata di secondi, scanditi da respiri
lentissimi.
«Credo
che tu possa piacermi, Lukas.»
Qualcosa
si spezza e i suoni si azzerano.
Al
nordico sembra di essere finito improvvisamente in una stanza piena
di nebbia, dove l'unica cosa da guardare, l'unica che abbia un senso,
sono quegli occhi di un verde che non ha riscontro nel mondo che
conosce.
Oppure
c'è, quel colore, è impossibile che non esista da
alcuna parte oltre che in lui. Come il viola di Eirik, come quello di
Tino, come il turchese di Berwald: l'unicità di ogni colore è
che appartiene ai loro volti e lo stesso è per quel verde, non
deve stupirsi.
Nella
fitta nebbia che lo avvolge, nell'assenza di stimoli sensoriali quasi
totale, si chiede se non sia appena svenuto o stia facendo un altro
sogno.
«Sei
reale questa volta?» Lo mormora con
labbra insensibili, la voce inudibile.
Credo
che tu possa piacermi, Lukas.
Il
nome proprio, il nome umano che gli ha dato Danimarca nei tempi più
moderni, diverso da quello che usava da giovane, è un nome che
gli è molto caro. Sentirlo pronunciare da lui gli fa percepire
le gambe instabili e detesta capire che non è solamente
attrazione fisica.
È
stato bene anche lui, quel giorno.
Olanda
non ha fumato, non ha fatto discorsi senza senso, non sembra un
idiota, ha passato ore ad accarezzare coniglietti insieme a lui e a
sorridere in quel modo particolare. Doveva sforzarsi per non finirgli
troppo vicino, tanto si sentiva attratto.
Attratto?
Sì, è il termine giusto.
È
attratto, contro ogni logica, contro ogni convinzione di sempre, da
un uomo che ha avuto sotto gli occhi da troppo tempo e che non
conosce per niente.
Ha
bisogno di sentire quanto sia vero. A costo di lasciarlo sconvolto, a
costo di dovergli dare in seguito una botta in testa e cancellargli
la memoria con minacce terribili.
Deve
sentirlo. Allunga la mano, se lo tira addosso ed è una vera
sorpresa quando l'olandese -Jan- non fa niente per opporre
resistenza.
Gli
finisce contro e restano labbra contro labbra, senza una parola,
senza un sussulto, senza muoversi oltre.
Norvegia
deglutisce a vuoto, la mano stretta a pugno poco sotto lo scollo
della sua maglietta nera. «Che cosa
succede se lo faccio?», gli chiede e
si chiede a voce alta, abbastanza fermo da non far trapelare tutta
l'incertezza, la paura e la confusione che sta provando.
Olanda
preme le mani sulla porta, raddrizza la schiena e inclina la testa,
restando a portata di bacio.
«Succede
quello che vogliamo entrambi.»
Alza
lo sguardo al suo: non vede bugie, non vede prese in giro, non vede
ironia. Non vede neppure un desiderio sconfinato, ma quello va bene,
l'avrebbe terrorizzato.
Sono
entrambi uomini di poche parole, tranquilli e controllati. Sente che
stanno ingaggiando una lotta silenziosa, rimanendo così vicini
senza che nessuno dei due compia il primo passo. Oppure l'ha già
fatto lui, afferrandolo in quel modo e tirandoselo contro? Non ne è
sicuro.
Il
corpo formicola, ma tutta l'eccitazione è concentrata in un
punto ed è il suo cervello. È lì che si origina
il dolore peggiore, che si sente tendere all'inverosimile verso la
sua bocca senza riuscire davvero a colmare la distanza, come se
corresse in un corridoio senza fine.
«Sono
diretto e anche impaziente», sussurra
Olanda, sfiorandolo con un respiro leggero prima di baciarlo, giunto
per primo al limite dell'attesa.
Norvegia
si aspetta di tutto e non si aspetta niente.
Crede
che il suo corpo reagirà per allontanarlo, perché non
possono bastare una tazza, un comportamento gentile ed un pomeriggio
pieno d'intesa, per fargli volere quell'uomo. Non bastano sogni senza
senso portati da una febbre ridicola.
Ma
alla fine le sue reazioni sono più sincere dei ragionamenti
contorti e si ritrova capacissimo di ricambiare, di accogliere la sua
lingua, di meravigliarsi per il sapore fantasma di nicotina che
sembra la cosa più naturale e bella del mondo.
Il
modo in cui lo bacia, sicuro e dolce, spazza via ogni dubbio, ogni
senso di assurdità.
Non
è andato lì per quel motivo, ma è talmente
felice di sentirselo contro il corpo che potrebbe anche chiedergli di
non farlo partire, di tenerlo in casa come uno di quei coniglietti.
No,
forse non si umilierebbe in quel modo, ma può sicuramente
perdere altro tempo così, sciogliendo la presa alla sua
maglietta per cercarlo e chiuderlo in una specie di abbraccio sulla
schiena.
Il
suono delle labbra che si trovano continuamente scatena in lui una
produzione eccessiva di ormoni della felicità, dandogli un
senso di appagamento pari a cinque tazze di caffè. Schiocchi
lenti, per nulla imbarazzanti.
Olanda
bacia benissimo e questa non è una sorpresa.
Che
gli piaccia da morire è la sorpresa.
Geme
qualcosa in fondo alla gola e prova un sottile piacere nel sentirlo
mugolare allo stesso modo, forse anche più perso di quanto non
sia lui.
Apprezza
che non cerchi un contatto ulteriore, che sembri bastargli un bacio
lunghissimo e sentito; che non tenti, in poche parole, di spogliarlo,
toccarlo o portarselo a letto come quello del sogno, troppo
insistente e provocante.
Anche
quella è una sorpresa ed è estremamente rilassante.
Apre
maggiormente la bocca guidato dalla sua mano sul viso e sente la nuca
picchiare contro la porta alle sue spalle. Le dita dell'olandese che
gli toccano il viso scivolano in basso fermandosi al collo, passando
dietro per trattenerlo. Gli solleva il mento col pollice puntato
sotto e si separa di poco, gli occhi chiusi ed il respiro pesante.
«Sai
di buono.»
Norvegia
sente di diventare una pallina di rossore ad un commento del genere.
Non può replicare nulla, nulla di sensato o di non acido;
preferisce zittirsi e tendersi verso di lui per tentativi, godendosi
quell'espressione che non ha mai visto prima.
Le
fronti si appoggiano una contro l'altra e Olanda sospira, cercando di
ricatturarlo.
«Aspetta.»
Non
sa come abbia potuto dirlo, come sia riuscito a mandare in pausa le
cellule che si tengono per mano e lottano insieme per riavvicinarlo a
lui.
«Credevo
volessi Dan.»
Qualcosa
che non avrebbe voluto dire in un momento del genere, ma che lo
disturba da ore. Se deve lasciarsi baciare in quel modo tenero e
profondo, se deve amoreggiare con quel tipo dai capelli impossibili,
deve sapere fino a che punto gli sta dando una parte di sé e
quando sia lecito ritirarsi.
«Stavo
controllando quanto foste legati dal tuo punto di vista»,
gli risponde, riaprendo gli occhi e prendendo a sfiorargli il mento
con il polpastrello.
«Perché
volevi assicurarti che io e te non fossimo rivali»,
continua Norvegia, cercando di capire, di non ascoltare la voce
interiore che gli sta suggerendo l'altra eventualità, la meno
probabile, la più incredibile.
Se
Olanda è davvero un tipo diretto glielo dirà, deve
soltanto aspettare e riuscire a non baciarlo di nuovo finché
non l'avrà fatto. Semplicissimo, certo, ma è meglio che
chiuda gli occhi, prima di bloccarlo contro la porta al suo posto e
prendersi altri centinaia di baci tremendamente voluti.
«Lui
era il mio rivale», rivela, dando
piena realizzazione ai suoi più oscuri desideri, qualcosa di
nascosto ed inagibile persino a se stesso, accessibile solamente
all'indifesa psiche lasciata in balia di sonno o malessere.
«Ho
sempre avuto gli occhi su di te.»
«Basta
così, ho capito.»
Non
lo mette a tacere perché non voglia ascoltare, ma è
imbarazzante. Troppo intimo, troppo intenso, affrontare quel qualcosa
che viene rivelato all'improvviso.
Inoltre
non regge più il suo sguardo.
«Impaziente
come me», commenta divertito,
avvicinandosi ancora e baciandolo solo sulle labbra, senza tentare di
approfondire come prima. «Tornerai,
Lukas?»
Si
lascia baciare, immobile come una statua, ma è caldissimo e di
tanto in tanto la sua bocca non risponde ai comandi, ricambia i
piccoli baci e li trasforma in deboli morsi, rabbrividendo quando gli
sfiora la gola con la punta delle dita.
«Ci
sono i coniglietti, quindi sì.»
È
una risposta sterile, colma di un assenso timoroso e timido, ma
l'altro capisce che c'entra anche lui in quel sì, che
condivide il desiderio di vedersi ancora, che non tornerebbe soltanto
per coccolare gli animaletti.
«Non
ti offende il mio modo di parlare?» Norvegia
solleva il mento, costringendolo a distanziarsi un pochino andando
all'indietro.
«Sto
iniziando a capire cosa vuoi dire veramente, quindi no, Lukas.»
«Non
ti illudere di capirmi così bene»,
bofonchia, assottigliando lo sguardo, la nebbia che torna ad
infittirsi nel momento in cui si sente stringere. «E
perché ora mi chiami Lukas?»
«E
perché tu non mi chiami Jan?»
Domanda
con domanda, è proprio irritante e quel che è peggio è
che lo lascia senza parole. Non può accadere, non deve
succedere ad uno come lui, allenato al botta-e-risposta.
«Jan.»
Lo
dice e non scoppia nessuna bomba, le finestre non esplodono, il tetto
non crolla. Il cuore continua a galoppare, aggiungendo ulteriori
battiti al minuto, e Olanda sembra apprezzare il modo in cui l'ha
pronunciato, offrendogli uno sguardo senza precedenti, ma non è
la fine del mondo e sono ancora in piedi, appiccicati.
«Spero
di sentirlo spesso d'ora in poi»,
commenta.
Si
sforza di non fuggire, di non mandarlo via, di non lasciarlo lì
con frasi che servirebbero solamente a rovinare quel giorno, a
perderlo totalmente per proteggere il proprio ego. Si sforza di
ascoltarsi e di essere onesto, riconoscendo l'effetto di quelle
parole su di lui, accettando di non voler tornare ad Oslo con la
stessa fretta di prima.
Non
può parlare di amore, ma prova dei sentimenti.
Forti,
deboli o appena scoperti, nascenti o sepolti da anni, non lo sa.
Ci
sono e li sente, per il momento potrebbe lasciarsi convincere che sia
infatuazione?
Dimentica
ogni altro ragionamento nel momento in cui è lui stesso a
baciarlo di nuovo, senza averlo deciso, smarrendosi completamente.
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