Partire. Partire di nuovo, per rincorrere qualcosa che forse non esiste.
O che forse abbiamo visto noi soli. Quella sottile linea verde che compare solo
al tramonto, che si vede solo aguzzando la vista. Bella come una collana di
giada, sul collo di un uomo dai lineamenti nordici. Andiamo tutti quanti a
benedire un viaggio infinito, compiuto in una luce intensa, nel buio senza pace
che risiede nelle fibre dei viaggiatori.
Il mondo è fatto di orme che lasciamo, di conchiglie che rigettiamo sulla
spiaggia, di fili che abbiamo deciso di recidere. Appartenere ad un luogo non
significa non abbandonarlo mai, significa tenerlo stretto, nell’anima satura di
ricordi.
I viaggiatori sono come piume discrete al vento, si muovono in un ritmo
che conoscono solo loro.
Una macchina, un aereo. Il treno, forse. Quando viaggi, diventi tutt’uno con
il mezzo che ti porta a destinazione. I tuoi muscoli, i tuoi nervi, i tuoi
pensieri diventano ruote, trasmissioni, carburante. Senti il rumore della
strada, o delle rotaie, o delle nuvole addirittura, riecheggiare dentro di te,
come se tu fossi uno spazio vuoto e il suono, una palla d’aria impazzita in te.
Ma è piacevole. La testa rotola nei pensieri, che è un piacere.
Non è la destinazione che conta, ma restare sempre in movimento. Vieni,
vieni con me. Seguimi e ti mostrerò la linea verde che inseguo da quando ho
imparato a camminare. È nascosta tra le nuvole, tra i colori troppo forti del
tramonto, in alcuni occhi quando il tempo è opaco. Quando il cielo è così
triste, quegli occhi risplendono come lanterne variopinte. Hai mai visitato
l’Irlanda? No? Allora non hai mai visto i colori.
La prima volta che vi arrivò, dovette schermarsi gli occhi con una mano.
Diede, ingenuamente, la colpa al sole che brillava troppo forte, in quella
giornata così cupa. Come una scheggia di vita, sfuggita all’universo, le stava
d’avanti indifferente, nella sua grandezza. Poteva essere davvero il sole?
No, non lo era. Non era il sole a farle apparire meravigliosa, quella
terra. Erano i colori.
Il verde degli alberi, l’oro della luce che filtrava tra le foglie, e
ancora il colore bruno della terra e quello ambra della spiaggia, della sabbia
che si alzava quando cavalcava vicino alla riva, quel tratto di spiaggia in cui
il blu si trasformava in azzurro, e poi in grigio ed infine in bianca spuma, a
memoria di una donna che si dissolse nell’infinità per amore. Al blu scuro del
cielo, che sembrava una stoffa incredibilmente preziosa, su cui scorrevano perle
e diamanti. E ancora, al rosso del sole che moriva e che influenzava gli uomini,
che li spingeva ad illanguidirsi gli animi. A pensare che in fin dei conti, alla
bellezza ci si può abbandonare.
Tutti quei colori.
Si potrebbe morirne.
E allora c’era un solo attimo, un solo modo attraverso cui goderne e
rimanerne ancora vivi.
Cavalcando, tutti i colori si mischiavano, diventavano più tenui, come se
venissero filtrati dal movimento, e l’aria diventava più pungente, per supplire
alla mancanza d’intensità. Era come svanire nei colori, smembrarsi in quella
sensazione di poesia. Inspiegabilmente bello, come quando si è nell’occhio del
ciclone e si sopravvive alla furia. E si sopravvive a tutto il resto, solo per
poter guardare, ancora, quanto meraviglioso sia. Restare vivi per poi essere
annientati dai colori, dagli odori, dal desiderio bruciante del viaggio che,
davvero, è l’unica cosa che a volte ti spinge a rialzarti, a rifare la valigia,
a comprare quel biglietto, a baciare quegli occhi, a dire addio un’altra
volta.
***
Perdonami se mi sono presa questa libertà tesoro, spero non l’avrai a male.
Ma per un attimo, ho voluto entrare nella tua testa, e vedere con i tuoi occhi,
e cercare di capire cosa poteva esserci di tanto bello, in quella terra che tu
ami così tanto, e che io non ho mai visitato.
Buon compleanno tesoro, e…buon viaggio.
Artemisia