L'abbraccio
L’abbraccio
L’aria
intrisa di neve le sferzava la faccia con
cattiveria,
ghignando della sua muta rassegnazione. Non aveva esitato un attimo a
lasciarsi cadere, le spalle rivolte al suolo per poter guardare ancora
una volta negli occhi il suo giustiziere, per poterlo accusare ancora,
e renderlo definitivamente consapevole della sua colpa.
Era stato forse quando aveva teso le dita curiose alle ombre, credendo
di vederle agitarsi con foga, chiamandola; quando le lacrime che fino a
poco prima le avevano terso il volto si erano placate, e il dolore che
la consumava era svanito, soffiato via dall’aria gelida della
Russia; sì, in quel momento un uomo finemente vestito,
l’enorme corporatura dietro la giacca firmata, la aveva
afferrata per una spalla, staccandola con violenza da quello strano
contatto con la notte.
Si erano fissati negli occhi, per un lungo istante; lei aveva rivisto
le dita ruvide che si premevano sul collo di sua madre, le stesse che
si erano serrate intorno alla lama che aveva definitivamente distrutto
la sua famiglia. Cercava lei, così aveva detto, molto tempo
prima. Cercava una bimba di appena sei anni, forse senza sapere neanche
lui il motivo.
Era stato informato, forse in via del tutto istigatrice,
dell’attenzione che da un po’ di tempo si era
concentrata sulla piccola mortale, che pareva via via esser circondata
da una maggiore quantità di buio; antichi rancori lo avevano
riarso, e nella definitiva certezza che un nemico di vecchia data aveva
deciso di dar forza al suo sangue, aveva capito che non gli doveva
lasciare il tempo di selezionare un candidato adeguato. Individuata la
vittima, non gli restava che cancellarla.
Eppure, no, no; qualcosa era andato storto. Nella sua dannata
arroganza, la bimba aveva lasciato stare la disperazione per far posto
alla rabbia, motrice della sua salvezza, che le avevano permesso non
solo di fuggire, ma di far sì che molti anni passassero
prima di esser di nuovo individuata. Una giovane donna, che sapeva
leggere nelle rughe del mondo solo distruzione e dolore, perennemente
afflitta dalla prova della perseveranza; l’animo temprato a
sopravvivere a ogni contraccolpo morale, gli occhi devastati dalle
lacrime, unico sfogo di quella sua infinita pena.
Voleva ucciderla, e guardare il sangue che si portava via ogni cosa,
lasciando solo l’agonia; le aveva già strappato
quell’ultima scintilla, abbandonandola a una sofferenza senza
fine: un uomo a cui forse sarebbe potuta esser legata per sempre
giaceva poco più in là, tra le macerie, in un
misto di bianco e porpora.
E proprio nel momento in cui sarebbe potuta crollare, ecco che in suo
soccorso erano giunte le fredde e remote tenebre; le era bastato
guardarle incupirsi, diventare tangibili, per sentire di nuovo la forza
scorrerle nelle vene, come lava liquida che scivolava tra le sue labbra
e le inondava la gola. Forse se le avesse toccate, non ci sarebbe stato
modo di impedire che ne diventasse parte.
Ma l’uomo l’aveva spostata di peso, rendendola
partecipe della gravosa situazione in cui si trovava; e dopo quel lungo
sguardo, carico di rimorsi, lei si era rimessa in piedi decisa, i pugni
serrati lungo i fianchi.
-Bah, voi Ventrue, tutti uguali-.
Una voce, dall’angolo più buio del magazzino,
emerse, dipingendo di furia gli occhi dell’uomo che si
stagliava di fronte alla ragazza.
-Vai Nina. Scappa-.
Quelle parole erano state pronunciate con una calma innaturale, cariche
di certezze e portatrici di dubbi. Eppure lei sapeva che non
c’era altra via, doveva ascoltarle. Nell’esatto
istante in cui quell’angolo recondito parve attirare
maggiormente l’attenzione del suo aggressore,
scattò verso le scale, lanciandosi in una disperata corsa
verso l’alto, in cui il conto dei piani andava perdendosi
nelle grida che, più in basso si facevano sempre
più vicine.
“Mi sta seguendo. Mi sta seguendo, dannazione”.
Il tempo cambiò la sua unità, allungandosi e
contraendosi nei pianerottoli identici, i gradini ripetuti e forse
già percorsi poco prima; fu l’aria fredda che le
sbatté in faccia quando finalmente spalancò la
porta che dava sul tetto a restituirle la consapevolezza dello scorrere
immutabile dei giorni.
Da dentro l’edificio giungevano i suoni di un inseguimento
furioso; si guardò intorno allarmata, e si rese conto che
l’unica via di fuga era il precipizio.
Si diresse al parapetto improvvisamente quieta. La sua
volontà le imponeva di non consegnarsi; se la morte doveva
arrivare proprio quel giorno, per lo meno non doveva esser portata
dallo stesso individuo che aveva sterminato ogni cosa cara aveva al
mondo.
Si arrampicò sul muretto, e guardò in basso. I
fiocchi di neve turbinavano quasi gioiosi, e l’asfalto della
strada svaniva in una bruma biancastra. Tirò un profondo
respiro, assaporando gli odori taglienti della sua terra, quindi si
voltò proprio quando il suo inseguitore sorpassò
la porta.
E si lasciò cadere.
Fissò i propri occhi dentro quelli dell’uomo, un
istante infinito in una dimensione sconosciuta, in cui le sue accuse
tagliavano le pupille dell’altro, dilatandole di orrore e
sorpresa. E quando l’ultima immagine dell’assassino
dei suoi genitori le giunse al cervello, un sorriso rassegnato le
comparì in volto: due tentacoli d’ombra lo
trapassavano, uno al cuore e l’altro al collo, facendolo
boccheggiare mentre il sangue sgusciava via in flutti gioiosi,
dipingendo di vermiglio la tela ghiacciata della neve.
Le ombre che la avevano sempre accompagnate in tutta la sua vita, da
quando, quella notte di tanto tempo addietro, aveva visto i corpi
esanime dei suoi parenti giacere ai piedi di uno sconosciuto, vestito
in maniera impeccabile.
-Dannato Ventrue- sibilò, prima che la caduta si
impossessasse di lei.
Lame di vento le tagliavano i capelli in ciocche scomposte, e i piccoli
fiocchi le colpivano la schiena come punture d’ago; i suoi
occhi osservavano il cielo grigio farsi sempre più distante
e sfocato, mentre i rumori non riuscivano più a
raggiungerla, a parte un sussurro indistinto mischiato al fischio del
vento.
-…ancora… solo un po’ più in
basso…-
-Sto arrivando- fece in tempo a rispondere lei, prima che divenne
consapevole di quanto vicino fosse il suolo.
Fu questione di secondi; la sua pelle percepì la
solidità dell’asfalto svanire dentro
l’ombra che la avvolse; in un primo momento credé
di aver perso i sensi, ma impiegò poco a capire che quel
buio non era dovuto alle palpebre serrate (che invece restavano aperte
a guardare il cielo divenuto notturno) ma alla solidità
della tenebra che la aveva salvata dalla morte.
Un sorriso trasparì stanco, ma ad ogni modo felice, quando
riconobbe le armi artefici della morte del suo perseguitatore; i
tentacoli d’ombra che avevano strappato
l’opportunità a un uomo di trascinarla in qualcosa
che era tutt’altro che buio.
-Sei stata brava ad arrivare fin qui- le disse una voce maschile. La
stessa che la aveva raggiunta dall’angolo, nel magazzino.
-Mi hai seguita fin qui, in basso?-.
-No, sei tu che hai seguito me- rispose –E comunque, se per
te questo è “basso”, allora hai ancora
molto da imparare-.
Nina strizzò gli occhi, incuriosita.
-Cosa devo imparare?-.
-Ah!- le disse la voce –Davvero tante cose. Ovviamente, solo
nel caso in cui tu abbia deciso di restare con quelle ombre che ti
hanno accudito fin ora-.
In silenzio, continuava a restare sospesa per aria, appoggiata su una
nube di oscurità, finché l’uomo non
parlò di nuovo.
-Vuoi venire con me?-.
-Dove?- chiese, esitante.
-A casa, Nina. In fondo all’abisso-.
Attese un attimo, poi si rigirò in quelle tenebre a fissare
ciò che c’era dietro di lei.
-Sì- disse, come chi ha sempre saputo qual era la cosa
giusta da fare.
Dopo un attimo, la netta sensazione che qualcosa le stesse toccando il
collo la colpì più forte del gelo; e, in un
attimo, riaprì gli occhi su una nuova esistenza.
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