(N.d.A. Ebbene sì, stasera sono
stato a vedere Harry Potter
e L’ordine della fenice e mi è venuta l’ispirazione… Ron
e Hermione sono perfetti assieme.
Li ho immaginati così, in un momento ipotetico in cui si
sono rifugiati nella stanza delle necessità ad esercitarsi sulla difesa contro
le arti oscure. Enjoy!)
“Expelliarmus!”
Le loro voci si erano incrociate. Pareva l’autunno, quando
il vento spazza via le foglie, e vento e foglie, disfandosi l’uno nell’altra, danno l’impressione di
sovrapporsi, e che quell’unico istante in cui
entrambi sono sospesi assieme nel niente, sia l’attimo della creazione e della
distruzione di tutto l’universo. Nonostante questo,
era inverno.
Quell’inverno, l’esercito di
Silente funzionava, funzionava perché era il suo
inverno, perché erano giovani, Harry era giovane, la
minaccia di una possibilità concreta per cambiare le proprie vite, per timbrare
l’essenza dell’aria con il marchio Grifondoro, era
giovane.
Ron Weasley
però, funzionava un po’ meno. Come sempre nella sua vita, Ron
sembrava funzionare meno. Ron non era bravo come
amico, né come ragazzo, non era il migliore dei figli, né si distingueva a
scuola o nel Quidditch. Il mediocre
Ron, con i capelli rossi, il fisico allampanato e la
sensibilità di un bradipo. Quello che a faccia faccia con Hermione Granger, non aveva tempo nemmeno di pronunciare la S della
parola Stupeficium, prima di ritrovarsi con il culo per terra dall’altra parte della stanza.
Ora la sua bacchetta, era per terra.
Lo sguardo azzurro spalancato stava scivolando per l’appunto
sul pavimento, dove giaceva sconfitta la sua bacchetta, tra gli echi del legno
nella stanza, in quel giorno d’inverno.
Hermione sorrideva appena,
teneramente. Ma Ron Weasley, anche nel momento in cui il suo sguardo si
spezzettò di nuovo in quello di Hermione, dall’altra
parte della sala, non era in grado di vederlo. Per lui era un sorriso di pena.
In effetti, era la pena della vincente, sul perdente.
“Mh…”
“Riproviamo Ron,
dai…”
“Na, lasciamo
perdere Hermione…”
Con il passo curvo e stanco, una smorfia di quelle nel suo
stile, si lasciò cadere a terra, seduto contro il muro, dopo aver raccolto la
sua bacchetta da terra. Lo sguardo si piantò sulle sue scarpe e lì rimase anche
nei secondi dopo, in cui Hermione si avvicinò a lui.
“Coraggio Ron, puoi farcela!”
Non la guardava nemmeno quando lei
ritrasse la mano che stava per posargli su una spalla. Lo sguardo smarrito di
lei, in un attimo, lo sguardo adiacente alla calorosa consapevolezza del
baratro, che si concentrò su ogni muro della sala.
“No, che cazzo, non posso.”
Le mani di lui penzolavano dalle
ginocchia, con un gesto stizzito.
Gli occhi azzurri gli si rialzarono senza forza su di lei, e
la guardò perdersi con un respiro profondo, quasi dovuto ed improvviso, sui
muri attorno; come se d’improvviso trovasse gli spazi troppo piccoli, o
l’inverno fuori troppo freddo. Non ebbe tempo di
accorgersene, ma fissandola, ne rimase completamente sbigottito, al
punto da sentire un colpo duro allo sterno. Ma solo il
suo respiro balbettava nel silenzio.
“Alzati.”
“No.”
“Ho detto alzati, Ronald!”
Lo sguardo nero, da caffeinomane,
si rinfrancò nel suo come il francobollo sulla lettera. Quando
non si attacca bene e gli assesti un pugno deciso per farlo completamente
aderire, là, là dove è il suo posto. Con tanta forza
che Ron dovette ritrarre il viso indietro, mentre i
capelli gli sfioravano il muro gelato, d’improvviso. Non ebbe la voce
per rispondere, e affogò in un altro respiro che balbetta
e non mente e sentendo la voce aggrapparsi allo stomaco per non uscire dallo
stomaco, richiuse le labbra che erano pronte a parlare.
Pronte ed incoscienti.
Ma non si mosse, rimase con le labbra serrate, le mani a
penzoloni oltre i jeans che si serrano in uno sforzo
di volontà involontaria, una sulla bacchetta, l’altra sul suo pugno.
“Ron…”
Avrebbe quasi voluto supplicarla, ma non lo sapeva.
In effetti, erano tutti e due in
quel raro momento in cui sei ancora così giovane da non sentire nemmeno una
delle piccole voci del tuo inconscio. E non le senti,
perché sei talmente in mezzo a quel trambusto adolescenziale che non sai
assolutamente distinguere una sola voce, in quel coro così ben disposto a
confonderti.
Avrebbe voluto supplicarla, in realtà, di non dire mai più
il suo nome in quel modo, appoggiandolo alle labbra così, come se ci premesse contro con tutta la sua forza…
Quella forza.
Quella che permeava interamente Hermione
Granger, scatenando in Ron quella
che sembrava nascosta – mai ammessa - e feroce stima, e qualcosa di più
profondo e muto, che taceva le parole non richieste.
Non si mosse, rimase immobile, senza riuscire a trattenere
l’impulso di abbassare gli occhi, senza riuscire a respirare, con le labbra
ancora serrate in quella smorfia sconfitta e rassegnata, amareggiata, che gli
si attaccava addosso così spesso.
Hermione non trattenne più la mano
che bruciava nel ritrarsi, anche quella così spesso, e lo afferrò per la
spalla, tirando il maglioncino
granata.
“Dai…”
Il gesto era simbolico, quasi quello di una bambina che tira la manica di un adulto.
Perché Hermione
Granger dopotutto era quella bambina che tira la
manica di un adulto, nel profondo, proprio nello stesso posto in cui Ron Weasley era innamorato di
lei.
Incapace peraltro di rendersi conto, anche solo di quella
richiesta disperata e pacifica, Ron non fece altro
che emettere un roco verso di disapprovazione, lanciando uno sguardo da ragazzo
scontroso che ha voglia di bisticciare, dritto tra gli
occhi scuri di Hermione. Una fucilata veloce, dritta
al cuore di lei, che eppure sembrava alla vista
rafforzato, mentre dentro ogni volta di più si incrinava.
Non rispose ancora, chinando la testa di più sulle sue
scarpe.
Fu allora che il gesto di Hermione
si ripeté, e divenne più profondo e violento, strattonandolo per la maglia
mentre reciprocamente Ron si proponeva appena in
avanti con un gesto istintivo del braccio, afferrandole con le dita strette la
stoffa della camicia sul braccio.
Ottenne il sorpreso gemito di dolore di Hermione,
che lo spinse allora istintivamente contro al muro sempre stringendo la sua
maglia che ora gli si attorcigliava sgretolandosi in mille pieghe, attorno al
collo.
E’ che come in tutte le migliori cose nella vita, non c’era stato bisogno né di parole, né di raziocinio.
Ora c’era l’eco del lamento di Hermione,
che ancora digrignava i denti, scivolando in ginocchio di fronte a Ron. Le braccia d’istinto si lasciarono, e ricorsero al
riparo.
Hermione si massaggiava il
braccio, Ron la spalla.
Entrambi, apparivano molto più consapevoli di un dolore più
profondo, non chiaramente distinguibile dalla paura e dalla gioia, il reale
bisogno delle loro reciproche attenzioni curative.
Evitando accuratamente lo sguardo l’uno dell’altra, non
guardavano niente e tutto, tamburellando contro muri e immagini troppo veloci,
nell’immaginazione, con gli occhi tremanti di chi ha guardato per un attimo sul
baratro. Ma un attimo così piccolo, da non poterlo
distinguere da un sogno.
Lucido.
Erano entrambi così zitti che cantilenavano perfino gli
specchi della stanza delle necessità. Si fissavano le spalle con la coda
dell’occhio, tra i riflessi, l’un l’altra. Si
guardavano le spalle, da loro stessi. Non sembrava esserci una parola, nemmeno
una sola, da poter dire.
E per quei numerosissimi,
preziosissimi, istanti, ad entrambi pareva di non averne mai conosciuta una di
parola. Non avrebbero saputo dire, né da quanto tempo, né in che modo, erano
vivi sotto forme definite. Né la magia avrebbe potuto
sconfinare in tanto infinito.
E fu soprattutto quando entrambi
alzarono gli occhi.
Allora la mente, prima lucida, si affollò di domande, punti
interrogativi capovolti, svolazzanti, senza basi né completi,
diagonali e di profondità differenti. Di parole, che
sembravano tagliare l’anima in pezzettini. Ed entrambi sentirono in modi differenti, il pulsante bisogno di
dichiararsi un affetto a parole, a parole di qualunque tipo. Un ti voglio bene, un mi dispiace, un per sempre…
“Cazzo Hermione…”
O qualcosa del genere. Qualcosa che comprendesse nuova violenza, a squarciare le paratie
dei dubbi. Qualcosa che potesse lanciare benzina sul fuoco, e accrescere
il fumo così tanto da rendere possibile uno svenimento
che liberasse da tutti quegli insopportabili, impossibili da decodificare,
sentimenti.
Lei aprì le labbra sporgendosi in avanti all’improvviso,
quasi da toccargli con le spalle le ginocchia. In realtà solo le punte dei
capelli gli accarezzarono i jeans, ma le mani rimasero
abbandonate stavolta tra le sue cosce inginocchiate sul pavimento freddo. Come
se avessero incrociato le bacchette in un incantesimo qualunque, quando erano
ancora fragili e mollemente lasciate andare dalla loro forza che li
abbandonava, ora, facendoli restare vittime di qualcosa di tremendamente,
spaventosamente, razionale.
Sei un cretino, avrebbe voluto dire
lei. Stava caricando dentro si sé tutta la forza e la
rabbia necessarie per inghiottire i chili sovrabbondanti di desiderio misto a
dolore, prima di emettere quel fiato ricco di forme, dalle sue labbra. Stava
lì, con i capelli che scivolavano di millimetro in millimetro sui jeans e sulle mani di Ron, le
labbra pronte ad emettere il fiato vincente, sibilato, che non lascia scampo. Ron con la schiena premuta contro il muro come se cercasse
in esso una spinta per potersi anche solo avvicinare,
ma trovando solo un riparo e un carnefice.
E tutto era un momento.
Un momento, come d’autunno.
Come le loro voci incrociate.
Come il silenzio e le spinte
violente l’uno contro e verso l’altra.
Questione di quegli attimi, solo uno, due,
due secondi e mezzo, pieni di un cortocircuito di emozioni, quelle stampate
nello spazio tra il passato e il presente, e nel tempo che intercorre tra le
labbra e occhi.
E fu soprattutto quando entrambi
alzarono gli occhi.
…
Poi Hermione non emise quel fiato.
Scivolò senza essere toccata, nella sua razionale volontà. Ferrea e
inconsistente assieme, come la tramontana o il mistral.
Si premette sulle ginocchia per sentire la durezza
irresistibile del terreno, si alzò.
Si alzò perché non era capace che di rendersi completamente
nelle mani della sua scellerata mania di ragionamento, perché mordendosi le
labbra si sentiva migliore come sempre. Senza contare i morsi al cuscino.
E lui rimase a guardarla senza
fermarla. E con la smorfia in faccia, fu soprattutto quando
lei non ci fu più, che sentì che l’autunno era finito.
E si era fatto inverno.