Cap. 1 –Fake
Tales Of San Francisco
C’è chi pensa che la California non sia altro che
il paradiso dei surfisti: sole, mare e bionde da paura, con delle tette
da mozzare il fiato.
Case smisurate, piscine d’ordinanza in giardino e ricche e
annoiate signore che prendono il sole coi cocktail in mano, mentre i
mariti discutono di affari e lavoro giocando a golf.
Sono solo immagini da cartolina, false come l’idea che
s’è diffusa nelle teste delle persone.
Solo i tramonti sono dannatamente veri, e splendidi. Quelli ve li
raccontano per come sono davvero, per fortuna.
Ma il resto no, proprio no.
Prendete me, ad esempio.
Odio il mare, il surf e l’unica bionda che contemplo
è un sonoro boccale di birra. Sono bassa, capelli scuri,
anzi neri, e l’aria di chi ci è finito per caso,
in quel mondo da ricchi.
Abito a San Francisco, circondata da un paesaggio urbano che non ha
eguali al mondo.
La mia è un’abitazione come tutte le altre, niente
a che vedere con le ville megagalattiche di Beverly Hills.
Eppure, ci sto bene qui. Da dio.
È casa mia.
Perché c’è tutto un sottomondo, un
universo parallelo, a cui la gente non pensa mai, quando gli nomini la
California.
Soprattutto qui.
C’è una magia tutta particolare che pervade questa
città, che si diffonde nella nebbia che la ricopre nelle
mattine d’estate, nella baia e nel Golden Gate Bridge che
l’attraversa, nel prendere un tram e percorrere le sue strade
completamente abbandonati ai propri pensieri.
Uno spettacolo a cui assisto ogni giorno, senza che mi venga mai a noia.
E poi…è ricca di cultura.
Non cultura statica, fine a se stessa. Qui tutto ha una funzione, tutto
può portare a qualcosa di nuovo e rivoluzionario. Chiedetelo
a chi ha vissuto la beat generation, o ha visto nascere il movimento
hippie.
Anche la musica gioca un ruolo fondamentale. Da San Francisco
provengono gruppi come Grateful Dead e Jefferson Airplane, pilastri
della psichedelia, e, per andare un po’ più terra
terra, gruppi punk-rock fondamentali, tipo Rancid e Green Day, per non
parlare degli alfieri del lo-fi, i Pavement, che hanno dato origine a
quel movimento che oggi tutti si ostinano a chiamare indie.
La persona comune mica ci pensa a queste cose, quando sente nominare la
California.
Pensa che sia roba da freak, da “alternativo dei miei
coglioni”. E invece per me è assolutamente la
normalità.
Comunque sì, è da quando sto al mondo che mi
nutro di pane e musica.
C’era da aspettarselo, che finissi in un gruppo.
Sapete, quei manipoli scalcagnati di ragazzetti, armati di tutte le
migliori intenzioni del mondo e una sana voglia di fare caciara, che
prendono in prestito il garage da mamma e papà per dare
sfogo alla loro…beh, chiamiamola ‘vena
artistica’.
E dire che ho rischiato grosso.
Ho seriamente corso il rischio di farmi inghiottire dal business
selvaggio, dalla tentazione di vendere a caro prezzo le mie idee, anche
le più idiote, per comprare una villa in riva al mare.
Fino a circa tre anni fa suonavo.
La chitarra.
Sembrava che non dovessimo finire mai di fare musica, e invece
è accaduto.
È stato come se ci stesse per cadere una tegola in testa e
noi ce ne fossimo accorti, ma non ci siamo spostati nemmeno di un
millimetro, perché ormai era inevitabile l’esserne
colpiti.
Ci eravamo arresi a quella fine indecorosa, perché altro non
potevamo fare, e anche il nostro orgoglio, la nostra intelligenza, la
nostra speranza che fosse solo un bluff, ne erano al corrente.
All’apice del successo, ci siamo sciolti.
Mio fratello, il batterista, non sopportava più le pretese
da primadonna della cantante.
A dire il vero nessuno di noi la reggeva più, ma lui fu
l’unico ad avere il coraggio di spiattellarglielo in faccia,
senza paroline dolci ad indorare la pillola.
C’era qualcosa che non andava, e lo si poteva leggere a
chiare lettere sui nostri visi stanchi, nei nostri occhi disincantati,
che avevano visto di tutto, fino a quel momento con sguardo distante e
pronto a giudicare le sventure altrui, spesso con patetico cinismo.
Ma quando certe cose ti vengono a toccare, ti strappano con forza da
quel mondo onirico e quasi irreale in cui ti sei rifugiato, comprendi
quanto possa essere bastarda la vita. Quanto ti remi contro quando
avresti bisogno soltanto di un po’ di pace, quando ti porta
su strade che hai sempre deprecato e che adesso percorri quasi di
corsa, pur di arrivare dove vorresti, e chi se ne frega se questa
intrapresa è la via più lunga e tortuosa che ci
possa essere, e non è nemmeno detto che ti porti fino in
fondo.
Pazienza.
La parola che più di ogni altra sfuggiva dalle mie labbra
pallide, quasi esangui.
Lei se ne andò, e sembrò una liberazione, ma era
solamente il biglietto d’ingresso per l’inferno,
timbrato senza la minima sbavatura.
Se ci ripenso, mi sale una rabbia indescrivibile.
Perché, sinceramente, non sono stata capace di gestirmi. E
d’altronde non potevo lasciare che fossero gli altri ad
occuparsi di me.
Io, Dave e Keith abbiamo provato a cercare un’altra voce, ma
mancava sempre qualcosa, quel valore aggiunto che, in fondo, ci aveva
spinto a suonare come dannati per locali, fino a che un tizio di una
casa discografica non ci aveva notato e fatto firmare un contratto.
Abbiamo deciso che forse era meglio se ci fossimo dedicati a
qualcos’altro.
Gli Unnamed non esistevano più, da un giorno
all’altro.
Era incredibile. Ma terribilmente reale.
Vivo disperatamente aggrappata ai ricordi, lo so. E forse nemmeno
dovrei, ma ho i miei buoni motivi per farlo.
Mi servono per non ricadere negli stessi errori da cui sono
già passata.
Non devo dimenticare chi sono, e cosa ho fatto.
E poi, beh…ci spero ancora.
Ho ancora voglia di suonare a giro, di scatenarmi con la chitarra e di
far vedere al mondo di cosa sono capace.
Nonostante siano tre anni che non tocco la chitarra. Nemmeno per
spolverarla.
Prima che agli introiti, pensavo alla musica.
Scrivevo come una dannata, quasi fossi in preda a un fervore mistico.
Giravo sempre per le strade della mia città, per le strade
di qualsiasi posto in cui suonassimo, munita di blocco e penna.
Mi sentivo in perenne dovere di fermare le impressioni che traevo dai
luoghi che visitavo, la gente con cui camminavo per strada, i pensieri
vaganti che affollavano la mia mente.
Non credo ci sia stato un solo momento, nella mia vita, in cui la mente
sia stata completamente sgombra, vuota.
Mai.
Sembrava che niente potesse fermarmi, e invece c’ha pensato
quella fottuta stronza, a farmi volare basso.
Di più. A farmi proprio precipitare. Come una specie di
Icaro: mi stavo avvicinando troppo al sole, questa palla di fuoco
così ammaliante ha sciolto la cera che teneva insieme le mie
ali, allora ho iniziato a precipitare verso il mare, ma
l’aria umida appesantiva quelle che ormai erano un informe
agglomerato di piume appiccicose, e così ho finito per fare
un bel tonfo in acqua e andare giù, sempre più
giù, senza poter fare niente, immobilizzata dalla mia stessa
debolezza.
Siamo riusciti a incidere due soli album. Il secondo mi piaceva da
morire.
Perché era nato da sudore e sofferenza. Era vissuto, ancor
prima di venire al mondo, e per questo aveva assunto ai miei occhi un
fascino tutto particolare.
C’era tutta la mia anima lì dentro. Tutto il mio
marciume, edulcorato da una certa lucidità di cui, per
fortuna, erano provvisti gli altri. Soprattutto mio fratello.
È un prodotto diretto, crudo, malato. Sì, un
prodotto. Fa schifo come parola, ma non posso farci niente.
Questo era, per la casa discografica.
Ci siamo fermati nel bel mezzo della nostra rabbia, e nel frattempo
è anche aumentata.
Perlomeno dentro me.
Mio fratello Keith non lo vedo mai.
Adesso fa il tecnico del suono, e gira per gli Stati Uniti insieme a
gruppi che hanno avuto più fortuna di noi.
E membri meno teste di cazzo.
Dave, il bassista, ogni tanto trova ingaggi come turnista, e nei tempi
di buco aiuta i suoi nel loro negozio. Una libreria.
Vado spesso a trovarlo. Mi piacciono i libri, e anche i suoi genitori.
Mi trattano come fossi loro figlia.
Quanto a me…beh, nemmeno mi sono presentata.
Frances. 23 anni.
Sì, lo so, ho un nome da principessina rincoglionita.
Mio fratello ha ovviato al disturbo che mi ha sempre provocato
l’essere chiamata per intero, e così mi chiama
Frankie. Decisamente meglio.
Insomma, io…ho aperto un negozio di tatuaggi.
Ormai ci sono dentro, a questo mondo così freak. E non me ne
dispiaccio nemmeno un po’.
È un ambiente sincero, tutto sommato.
Mi hanno sempre detto che ho una mano ottima per questo genere di cose.
Lavori precisi, in cui devi essere bravo a riprodurre ogni minimo
particolare e, se vuoi, sfogare la tua fantasia.
Sono rari quelli che si affidano al tuo estro per un tatuaggio, ma
qualche pazzo ogni tanto capita.
Come quel ragazzo che è venuto un paio di giorni fa.
Un bel viso, devo dire. Tratti dolci, circondati da capelli scurissimi,
che ricadevano distratti sui suoi occhi.
Mi ha dato la sensazione di averlo già rivisto.
È entrato sorridente, chiedendo se poteva farsi un tatuaggio.
“Certo!” ho esclamato. Sono qui per questo, in
fondo.
Ero contagiata dal suo buonumore. Sembrava comunicarmi un invito a
lasciar perdere, almeno per qualche attimo, la ridda di elucubrazioni
che stava affollando la mia testa, come al solito, e a godermi le
piccole gioie della vita.
Come, ad esempio, fissare il suo viso e pensare quanto fosse carino, se
solo si fosse spostato un po’ i capelli dagli occhi.
E soprattutto capire dov’era che l’avessi rivisto.
Mi sono soffermata un attimo ad osservarlo, mentre mi stava spiegando
cosa avrebbe voluto tatuarsi.
Sono rimasta incantata dalle sue braccia.
È estate. Il clima qui non è mai stato
particolarmente torrido. A volte, anzi, fa quasi freddo.
E lui indossava una semplicissima maglietta a mezze maniche, bianca.
Temerario.
Il braccio sinistro era pieno. Non c’era un solo centimetro
di pelle che non fosse tatuato. Colori vividi, immagini variegate e una
voglia incredibile di raccontare qualcosa di sé attraverso
esse.
Ho già visto parecchie persone ricoperte di tatuaggi, ma
nessuno li indossava con tanta naturalezza come lui.
L’altro braccio, invece, era quasi vuoto. Ma vedevo sbucare
timide, dalla manica, alcune immagini, e mi è venuto da
pensare che fosse solo una fase transitoria.
Non era la prima volta che vedevo quei disegni. Ma non stavo tentando
nemmeno di cercare di ricordarmi DOVE, e QUANDO, li avessi notati.
Perché semplicemente, lo avevo rimosso.
A volte, quando pensi troppo a cose che ti occupano la testa e non
vogliono saperne di lasciare sgombro il campo, ti rendi conto di quanto
vengano tralasciati i dettagli.
E in quel momento mi stavo maledicendo per aver archiviato una certa
fetta di ricordi in maniera così grossolana.
Perché io ero più che certa di aver visto quei
tatuaggi, in precedenza.
“E insomma, l’idea sarebbe questa, magari se ci
vuoi mettere del tuo sei liberissima…ehi?”
Cazzo, se c’è una cosa che non ho mai sopportato
di me, è proprio questa.
Perdermi nel mio mondo mentre qualcuno mi parla.
Mi sono ridestata di colpo, ritrovandomi i suoi occhi piantati in
faccia.
Ero rimasta impietrita.
Due bellissimi, profondissimi, occhi.
Un colore indescrivibile, che passava, a seconda della luce, dal
nocciola al verde con una disinvoltura sconcertante.
Quegli occhi…non mi erano nuovi nemmeno loro. Adesso la
curiosità si stava facendo sempre più forte.
‘Chi accidenti sei?’ chiedeva incessantemente una
vocina nel mio cervello.
E insieme a lei, volevo saperlo anche io, con tutta me stessa.
“Uh…ah, sì! Va bene!” ho
esclamato, senza riprendere il respiro.
“Dì la verità” ammiccava
divertito “non mi hai ascoltato, vero?”
“Ehm…” stavo arrossendo copiosamente
“è che mi ero messa a guardare i tuoi tatuaggi,
e…cavolo, sono belli davvero!” sono riuscita solo
a balbettare, grattandomi la testa per l’imbarazzo.
Cretina.
Ha sorriso di nuovo, e mi ha ringraziato per il complimento.
Dopo mi ha spiegato di nuovo cosa voleva.
L’ho fatto accomodare, e mi sono messa a preparare tutto il
necessario per iniziare il lavoro.
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