“Mamma,
voglio andare in montagna con papà!”
….
“Io
in montagna con papà non ci vengo!”
Cody
fece il suo ingresso rumoroso e piagnucolante nella nostra camera da
letto mentre io ed Helena concordavamo quando e dove andare a
comprare tutto l’occorrente per la settimana bianca.
Helena
parve non sentirlo nemmeno e non si girò mentre il ragazzino
rimaneva sulla porta con le braccia incrociate guardandoci entrambi con
aria di sfida.
Dovetti
attirare io l’attenzione della mia compagna perché
si decidesse a chiedere pazientemente e con condiscendenza il
perché di tutto quel baccano.
“Ho
detto che non voglio andare in montagna con papà!”
“Tesoro,
ma non andrai solo con papà. Verremo anche io, Andrew, lo
zio Stefan e lo zio Dave. Zio Dave porta suo figlio, te lo ricordi Ian?
”
Lo
vidi scuotere il capo confuso ma subito si scurì nuovamente
in viso, risoluto a non cedere.
“…e
poi vengono anche Rebecca e suo figlio Jordan. Te la ricordi
Rebecca?”
Mentre
continuava ad elencare la folla che avrebbe partecipato alla nostra
avventura vacanziera, aggiungeva alla nostra -già
lunga- lista di cose da comprare, le calzamaglie di
lana e le maschere per il casco da sci.
Io
me stavo lì in piedi e annuivo, sbadigliando.
Non
che l’idea di accompagnarla per negozi di sport e di
abbigliamento mi attirasse più di tanto. Più che
altro fremevo al pensiero che lei volesse a tutti costi uscire a
comprarmi una tuta da sci e io non le avevo ancora confessato che non
avevo mai sciato in vita mia e non avrei mai voluto provare.
“Mamma…”
“E
poi forse ci saranno i figli di Caroline…”
“Mamma!”
“Amore?”
“Chi
è Rebecca?”
Per
un attimo i nostri sguardi si incrociarono. Mi chiedevo Helena cosa
avrebbe risposto a quella domanda, per così dire, scottante.
La
vidi fermarsi e appoggiare il foglietto svolazzante che aveva in mano
sul letto, come se potesse ingombrarle le mani e sorridere dolce e
rassicurante come solo Helena sa fare.
“è
una cara amica di papà.”
“Anche
lei è una troia?”
Il
gelo.
Credetti
di non aver sentito bene nonostante la vocetta squillante di Cody.
La
mia donna se ne stava lì, con gli occhi sbarrati, in
un’espressione ammutolita e allo stesso tempo scandalizzata
mentre il ragazzino accennava un sorriso, trionfante, ora che aveva la
completa attenzione di tutta la sala.
Persino
le colonne di maglioni di lana, pile e camicie di flanella sembravano
dondolare pericolosamente in avanti verso la figurina gelida di Helena;
o forse semplicemente avrei dovuto fare una seconda selezione
altrimenti invece che quattro trolley ne sarebbero usciti
fuori anche dodici, materiale da sci escluso.
Mi
dissi che non dovevo intervenire; era una cosa fra Cody e sua
madre, assolutamente.
“Cody,
cosa vuoi dire? Io e Andrew non abbiamo capito
bene…”
Il
tono voleva essere minaccioso ma non sortì grande effetto.
Il
figlio non sembrò né pentito né
vagamente consapevole della volgarità che gli era appena
uscita da bocca.
Anzi,
più strafottente che mai, mi gettò
un’occhiataccia come se fossi io il principale colpevole dei
suoi problemi. Non volevo essere immischiato in questa storia!
“Quello
che ho detto ma’. Io in vacanza con quella troia non ci
vado.”
“Cosa
ti fa pensare che sia una troia?”
argomentai
pacatamente. Non che fossi d’accordo con lui beninteso, ma
era ragionevole che ci rivelasse cosa gli frullava nel cervello, dove
aveva sentito quelle cose e perché le pensava.
“Andrew!”
mi attirai un’occhiata furibonda di Helena ma almeno
guadagnai la considerazione di Cody che si fece serio in viso,
stringendo le labbra in una smorfia e spostando lo sguardo da
sua madre a me.
In
quei momenti aveva un’aria molto adulta, terribilmente seria,
un portamento eretto e quasi regale nonostante il suo fisico sottile e
magro promettesse un’altezza decisamente sotto la media
– d’altra parte anche il corredo genetico parlava
chiaro-.
E
poi c’erano quegli intensi occhi nocciola, gli stessi occhi
di lei, ma erano due pozzi in cui si poteva affogare e non riemergere.
Non era certo lo sguardo tenero, calmo e riflessivo di Helena che avevo
davanti. Anzi, era piuttosto inquieto e inquietante allo stesso tempo,
misterioso con un sapore beffardo e malizioso come un bambino di undici
anni non dovrebbe essere.
“Non
sta con mio padre solo per i suoi soldi?”
accusò il ragazzino ma se avesse avuto ragione o torto non
avrei potuto confermarlo o smentirlo. Semplicemente non lo sapevo.
“Cody…”
vidi Helena che gli si avvicinava minacciosa ma Cody era troppo
concentrato su di me per badare a ciò che succedeva al suo
fianco.
Si
era fatto avanti stringendo il pugnetto in un atto ostile e ciabattando
con le sue pantofole di pelo sul parquet di camera nostra.
Avevo
sempre apprezzato il fatto che Helena non avesse voluto rivestire tutti
i pavimenti della casa con la terribile moquette blu scuro che invece
troneggia nella cosiddetta “stanza del bambino”
; poi avevo scoperto che era stato Brian a proporlo, diceva
che la moquette gli ricordava troppo quelle enormi stanze
d’albergo in cui era costretto a dormire per almeno tre mesi
l’anno – in media - .
In
quel momento –irragionevolmente - ricordo che lo avevo
apprezzato un po’ meno.
“E
mio padre poi… quello che ha fatto lo ha fatto tutto per
soldi… anche lui era una put- ” lo vidi arrivare
fulmineo e rumoroso ma non suonò violento.
Fu
solo umiliante come un qualunque schiaffo che schiocca sulle guance e
arrossa la pelle.
Gli
occhi del piccolo persero tutta la loro baldanza, rimasero
lì liquidi e smarriti, come quelli dei un cucciolo
ferito nell’orgoglio mentre Helena gli gridava che non si
azzardasse neanche a pensare una cosa del genere.
Se
ne filò via, dritto in camera, con la promessa di una bella
punizione che lo avrebbe tenuto in casa questi ultimi due giorni di
vacanza prima di partire.
Sapevo
che Helena si sarebbe ammorbidita in qualche ora, d’altra
parte rinchiudere un figlio in casa non ha mai ottenuto altro risultato
se non quello di farsi odiare profondamente. Specie quando si tratta di
un bambino di undici anni che vorrebbe giocare con i suoi amichetti ai
giardini, a pallone o in bicicletta, o pattinare sul ghiaccio al centro
di Hyde Park.
Tornai
a concentrarmi sui pantaloni di maglina che Helena aveva cacciato fuori
da chissà quale eccentrico guardaroba invernale degli anni
Novanta quando lei colpì rapida, stampandomi sulla guancia
tre delle sue cinque dita.
“Come
diavolo ti è venuto in mente di incoraggiarlo?! Ripetere le
stesse parole che ha usato lui per… Oh Dio!”
Il
braccio di Helena si abbatté rabbiosamente sul copriletto
del matrimoniale e le colonne di vestiti, camicie e magliette
crollarono miseramente, in parte sul pavimento, in parte sul cumolo di
biancheria da uomo –la mia – che era stata disposta
proprio lì accanto.
Mi
massaggiai la guancia sbattendo le palpebre, semi sconvolto e tentati
– inutilmente- di replicare:
“Helen…”
“Non
so cosa ti sia saltato in mente prima ma per piacere sparisci. Va a
fare la spesa, prepara la cena, fai qualcosa ma fallo lontano da qui. E
domani vieni con me a comprare la tuta da sci. FUORI! ”
************
“Non
ho parole! Semplicemente non so cosa pensare…”
“Hai
ragione. Ti sta davvero un incanto.”
“è
stato così…”
“insolito
ma elegante”
“spaventoso!”
“mostruosamente
bello!”
“STEFAN
OLSDAL, METTI GIU QUELLA ROBA!”
Lo
svedese appoggiò il vestito di lana grossa color panna a
collo alto che sventolava davanti allo specchio cercando di provarlo
sulla figura longilinea e sconvolta di Helena che passava in rassegna
una decina di guanti da sci di colori diversi.
“Punto
primo, siamo qui solo per la collezione da neve e poi non ho bisogno
di un altro stupido vestito.”
Lei
lanciò un’occhiata di disapprovazione alla pila di
maglioni che lui aveva ammassato, tutti con disegni equivoci
–abeti di natale, fiocchi di neve, renne e cappelli di babbo
natale decisamente fuori stagione - , un paio di felpe grigio e verde
di stampa militare che lo facevano assomigliare ad un marines, e due
sciarpe di lanona grossa color senape e magenta. Non poteva credere di
aver chiesto a Stefan di accompagnarla a comprare le ultime cose per la
montagna.
Anzi,
se il bassista non l’avesse chiamata in mattinata chiedendole
qualche indirizzo utile per rifornire il suo guardaroba montanaro forse
non lo avrebbe nemmeno invitato.
Doveva
assolutamente sbollire in qualche modo la rabbia e soprattutto aveva
bisogno di un consiglio. Essendo il migliore amico del suo
ex-compagno sembrava assolutamente la persona adatta per darle qualche
consiglio.
D’altra
parte Brian non era a casa sua né da Stefan e il cellulare
era staccato –e lei non aveva nessuna intenzione di chiamare
a casa di Rebecca-.
“Cosa
vuoi che ti dica, Lena?”
Era
solo Stefan a chiamarla così ormai.
Lo
aveva fatto Brian per un brevissimo periodo, forse quei sei mesi che
lei era ufficialmente incinta e in quanto tale andava coccolata e
strapazzata fino alla nausea. Almeno quando erano a casa,
oppure ogni volta che si sentivano a telefono, per chiamate
brevi e frequenti. Era stato l’unico periodo della sua vita
che aveva sentito Brian più di una volta al giorno.
“Dove
le ha sentite quelle cose?”
“Andiamo,
non essere ingenua. Tuo figlio ha undici anni, ha degli amici,
è più che normale che ogni tanto ripeta qualche
parolaccia.”
E
lo svedese liquidò la questione passando in rassegna i
guanti che erano sopravvissuti alla selezione di Helena.
Alle
loro spalle una commessa borbottava con la sua collega indicando lo
spilungone biondo, ridacchiavano e si gingillavano sospingendosi a
vicenda.
Erano
quanto mai irritati agli occhi di Helena mentre due o tre clienti si
aggiravano disperate per le sale del grande magazzino in cerca della
taglia o del colore giusto.
Tentò
di ignorarle afferrando Stefan per la giacca e trascinandolo verso il
reparto delle calzamaglie. Ma quelle non accennavano a smettere e non
si degnavano di fingere disinteresse.
“Capisco
che mio figlio ogni tanto possa dire
‘cazzo’ in un’esclamazione spontanea,
oppure che magari quando litighiamo possa scappagli un
‘vaffanculo’ . In quel caso saprei che è
semplicemente una cattiva influenza. ”
“Ne
parli come se te lo augurassi” ridacchiò
Stefan, andando ad afferrare le calze da neve più vistose in
mezzo a quelle esposte.
“…ma
nel momento in cui insulta Rebecca e poi suo padre cosa dovrei
pensare?!”
“Che
non ha torto. In nessuno dei due casi” Replicò
ironico concedendole un sorrisetto rilassato che fece sperare le
commesse pettegole.
“Stefan!”
lei gli sferrò una gomitata sul polso e lui di tutta
risposta le arrotolò in vita una sciarpa lunga a
maglia per poi tirarla contro di sé giocondo,
cingendole i fianchi con le lunghe braccia nervose.
Helena
resistette per un po’ e infine si lasciò
abbracciare appoggiando il capo sul suo petto –o sulla sua
pancia? Nonostante i tacchi di Helena c’erano ben quindici
centimetri di distanza fra gli occhi di lui e di lei- con un sospiro
desolato e si lasciò persino accarezzare una guancia con
affetto.
Poi
Stefan si chinò su di lei sussurrandole
nell’orecchio con fare cospiratore:
“quelle
due continuano a seguirci?”
“lo
sai che seguono te vero?” ribattè lei imbronciata.
“Si…ma
non penso che mi abbiano riconosciuto. Altrimenti mi avrebbero chiesto
subito un autografo.”
“Già,
chissà che vogliono.” Rispose lei ironica
indicandole con un cenno del capo.
“Che
vogliono?”
“Portarti
a letto”
“Ma
come pensi male!” esclamò
–fintamente- scandalizzato Stefan mentre la donna
scioglieva l’abbraccio, scrollandoselo di dosso burbera e
calpestando la sciarpa che era scivolata a terra .
“Come
pensi di scollartele di dosso?” domandò Helena a
voce abbastanza alta perché tutto il reparto, camerini
inclusi fosse messo al corrente della cosa.
Afferrò
cinque paia di guanti, sei calzamaglie, tre fasce da neve, un paio di
passamontagna e un cappellino con un pon pon arancio dirigendosi alla
cassa.
“Spiacente,
sono gay” annunciò altrettanto platealmente Stefan
con le mani a mo’ di megafono per poi seguirla ciondolando e
sogghignando fra sé e sé.
***********
Cody non riemergeva da camera sua.
Erano
passate almeno un paio d’ore da quando Helena si era
precipitata fuori di casa furibonda, sventolando in aria le chiavi
della macchina, e promettendo di investire qualunque cosa le si parasse
davanti.
L’acqua
bolliva, era tempo di calare la pasta ma nessuno era pronto per il
pranzo.
In
più lei non rispondeva al cellulare né aveva
avvertito che non sarebbe tornata a pranzo, decisamente non era da lei.
Lasciai
l’acqua ribollire sotto il coperchio e salii al secondo
piano, deciso a scoprire che ne era stato di quella piccola peste.
Già
sulle scale si sentiva un gran fracasso provenire da camera sua, uno
stereo assordante scoraggiava i visitatori ma la porta della sua camera
non era sbarrata come pensavo.
Bussai
e attesi stupidamente almeno cinque minuti lì fuori.
Quando
realizzai che non avrebbe mai potuto sentirmi mi congratulai con me
stesso per la mia idiozia e spalancai la porta con un moto di stizza.
Cody
era buttato sul suo lettone ad una piazza e mezzo, le lenzuola mezze
disfatte mentre dall’altro lato della stanza, dal mobile
televisione una musica assordante rimbombava nella stanza e fuori alla
finestra spalancata.
La
stanza era gelida e c’era una corrente tremenda.
Ma
cosa diavolo si era messo in testa quel moccioso?
Lui
continuò ad ignorarmi, raggomitolato sotto una copertona di
pile, avvolto in una delle felpone lunghissime che tanto si usavano fra
i suoi amici.
Aveva
in mano un joystick e osservava come ipnotizzato lo schermo della Tv
dove si susseguivano immagini di creature sanguinolente, uomini o
zombie , fotogrammi che cambiavano a velocità record sotto i
suoi piccoli e misurati gesti, e contemporaneamente si susseguivano dei
clic fastidiosi che dopo neanche cinque minuti promettevano
un’emicrania garantita.
Fortunatamente
dallo stereo si diffuse una litania cadenzata, una di quelle ballate
strappalacrime sull’ingiustizia dell’amore non
corrisposto, tutta acustica e ogni tanto qualche aggiunta elettrica che
però tutto sommato non assordavano più di tanto,
anzi erano quasi piacevoli.
Mentre
mi precipitavo a chiudere la finestra, inciampai nelle bretelle del suo
zaino e mi dovetti appoggiare alla scrivania per non cadere lungo
disteso.
Sul
pavimento era l’anarchia: fogli, quaderni, libri
sparsi, un portapenne con i pastelli disseminati intorno alle rotelle
della sedia, c’erano un paio di camicie che pendevano dalla
scrivania, tre paia di jeans diversi ammonticchiati sulla
comoda poltroncina che faceva da spola fra la scrivania e il
televisore, una colonna di CD che si era riversata tutta sotto la
poltroncina e nell’angolo, nascosto a chiunque si affacciasse
dalla porta, c’era un vero e proprio laboratorio del caos.
Fogli
di giornale sparsi per terra proteggevano la moquette dalla pittura che
colava dai bordi di cinque barattoli di acrilico dai colori arcobaleno.
Seguivano tre quattro pennelli grossi, un rullo impiastricciato di
verde limone e infine un catino d’acqua dal colore indefinito
in cui galleggiavano dei panni un tempo bianchi.
Dov’ero
io mentre questo ragazzino trasformava camera sua in una
tintoria-laboratorio da imbianchino?
Ma
La mia priorità, in quel momento, era la finestra.
Nel
chiuderla, mi misi davanti allo schermo cosa che infastidì
parecchio Cody che si sporgeva a sinistra e a destra per non perdere la
partita.
Lo
sentii sbottare un “e levati!” e solo quando mi
sedetti sulla poltrona quello si acquietò, tornando ad
osservare assorto una marea di bestie che assalivano il suo personaggio
sfortunatamente in fin di vita dopo il mio maldestro intervento.
Al
comparire della scritta GAME OVER a caratteri cubitali, Cody mi
fulminò lasciando cadere sul materasso il joystick con uno
sbuffo irritato.
Ne
approfittai per sporgermi verso lo schermo e spegnere, sicuro che
avrebbe protestato ferocemente.
Ma
lui si limitò a dare un calcio a quel congegno di plastica
lasciando che cadesse sullo zaino, atterrando sul morbido con un soffio.
La
sua manina corse subito alla tasca dei jeans da cui cacciò
fuori l’iPhone e si mise a giocherellare con quello, muovendo
agilmente le piccole dita come le zampette di una tipula in fuga.
“Cody?”
“Mhm…”
“Quello
che hai detto prima…”
“Mhm…”
“Ti
va di parlarne?”
Dopo
pochi secondi di silenzio, nell’intervallo fra una canzone e
l’altra, partì un frastornante duetto di chitarra
e batteria che per poco non mi rintronarono facendomi fare un salto
sulla poltrona.
Velocemente
misi in pausa lo stereo e tirai un sospiro di sollievo quando il
silenzio invase la stanza, intervallato dai rumori della strada,
attutiti dal vetro.
“Che
palle, rimetti la musica.”
Lo
ignorai ; mi bruciavano le mani tanto era forte la tentazione di
strappargli di mano quel dannato aggeggio.
“Allora?”
“Allora
cosa?”
“Dove
le hai sentite quelle cose?”
“Quali
cose?” rispose con un tono ingenuo che avrebbe facilmente
convinto chiunque non lo conoscesse bene come me o Helena
“Quelle
che hai detto prima.”
“Cos’è
che ho detto prima?” si ostinava a rispondere, evitando il
discorso e non alzava gli occhi da quel dannato schermetto.
E
io cominciavo seriamente ad averne abbastanza.
“Rispondimi
prima che ti tolga quel coso di mano. E guardami quando
parlo.”
Mi
uscì un tono talmente severo che per poco non mi convinsi di
essere il suo legittimo genitore e di star parlando con mio figlio.
Cody
alzò lo sguardo, quello sfoggio di
autorità doveva averlo sorpreso non poco.
In
fondo io ero sempre molto remissivo, non mi ero mai arrogato il diritto
di entrare nella sua vita, non avevo mai cercato di avvicinarmi a lui
facendo l’amicone, non ne avevo avuto bisogno per farmi
accettare dalla famiglia e soprattutto non avevo mai osato dargli
ordini o lezioni d’educazione.
Ero
di quanto più lontano da un padre ci fosse nel suo
immaginario, ma non ero né un amico, né un
rivale. Semplicemente una presenza “altra” come la
signora delle pulizie o uno zio che si aggira per la casa spesso ma
sempre per i fatti suoi.
Non
ne vado fiero ma non avevo mai speso troppo tempo con Cody, almeno da
quando era cresciuto. A sette anni, quando lo avevo conosciuto per la
prima volta, era ancora assolutamente adorabile, tenero e disponibile
con tutti.
In
due anni e mezzo era cambiato in maniera incredibile: non si faceva
più accompagnare al parco, preparare la colazione o aiutare
a fare i compiti né si poteva più giocare con lui
a scarabeo. Andava a scuola in autobus con il suo migliore amico e se
intravedeva me o Helena da lontano faceva finta di non vederci,
evitando di incontrarci a tutti i costi. Si vergognava terribilmente di
qualunque cosa e si incazzava per qualunque sciocchezza.
Era
semplicemente diventato un lunatico, irritante, noioso e annoiato
adolescente.
Eppure
sembrava sempre più giovane, più piccolo,
più fragile dei ragazzini della sua età cosa che
rendeva tutto più difficile; ed era decisamente poco
credibile mentre cercava di fare l’adulto.
“Dove
le hai sentite quelle cose?” mia aggiustai sulla poltrona,
ribadendo il concetto
“Non
sono vere?” replicò lui laconico e
provocatorio
“Non
lo so. Tu perché pensi che siano vere?”
“Perché
mio padre ha un mucchio di soldi. E c’è sempre
gente che ronza intorno a quelli che hanno i soldi. Specialmente le
troi...”
“Non
usare quella parola per favore.”
“Quale
parola? Troie?”
Si
divertiva a stuzzicarmi con palese divertimento mentre aveva ripreso a
battere assiduamente sullo schermo touch dell’ iPhone.
“Quella.
E quindi…” cambiai di nuovo posizione e raddrizzai
la schiena per darmi un minimo di contegno “quindi
tutte le ragazze di tuo padre secondo te stanno con lui solo per i suoi
soldi?”
“Si.”
“Non
ti sembra di esagerare?”
“No.
Tanto anche lui lo fa.”
Mi
si accese una spia. Cosa significava quella frase detta
così, con amarezza e delusione? Era solo un capriccio
dettato dalla sua natura infantile e lunatica come sembrava sostenere
Helena che sorvolava con nonchalance sul cattivo umore di
Cody? Oppure c’era veramente qualcosa che non
andava, qualcosa che lo inquietava e che non aveva il coraggio di
raccontare a nessuno di noi?
“Cosa
vuoi dire?” dovevo andarci piano se volevo saperne di
più e conquistare la sua fiducia in un colpo solo.
“Non
è così? Anche mio padre ha fatto lo stesso per
diventare famoso.”
“Cody,
tuo padre fa il musicista, mica… la prostituta
d’alto borgo.”
Quando
ero ragazzo avevo sempre trovato ridicolo come gli adulti
“addolcissero” le parole a scopo educativo facendo
sembrare tutto più grottesco.
Evidentemente
dovette pensarlo anche Cody perché si lasciò
sfuggire una risatina acuta e derisoria e scosse il capo quasi lezioso.
Osservai
per un attimo le sue dita che danzavano toccando con leggerezza lo
schermo dell’ iPhone e dopo qualche istante mi porse il
telefono facendomi segno di guardare.
Scorsi
le immagini su Google dapprima curioso e poi raggelato.
La
maggior parte era abbastanza innocua, inquadrature stratosferiche del
servizio fotografico per il nuovo album, altre erano prese a tradimento
in pose che non gli donavano molto e poi c’erano quelle,
disseminate silenziosamente per la pagina.
Foto
di lui in vasca da bagno, avvolto da una schiuma vaporosa che
sfrigolava fra le sue gambe aperte, che non lasciava molto
all’immaginazione; foto di lui vestito da donna, in
giarrettiera abbandonato languidamente su un materasso, lui avvinghiato
ad un altro uomo mezzo pelato e biondo che con grande orrore mi parve
addirittura di riconoscere in Stefan, lui – nudo-
in un mare di lenzuola nere e lucide simili a petrolio, e poi tante
altre. Non erano scandalose in sé ma quel suo sguardo
lanciato di sottecchi dietro una nuvola di fumo, quel modo lezioso e
femminile di tenere in mano una sigaretta, le spalle strette e la
schiena eretta, e la camicia sbottonata sul petto erano terribilmente
allusive.
Non
sapevo cosa dire. Non mi ero mai preoccupato di cercare la voce
“Brian Molko” su Google ma sicuramente se lo avessi
fatto ancor prima di conoscerlo avrei avuto non pochi pregiudizi.
“Allora?
Non ho ragione?” incalzava il ragazzino petulante mentre
abilmente mi sfilava il telefono di mano.
Dovevo
dire qualcosa, maledizione.
“Sai”
esitai un attimo, sentendo la bocca pastosa e inaridita “da
giovani per farsi notare si fanno tante cose. In queste foto poi tuo
padre sembra solo un ragazzino.
Non
è poi così grave no? Non è mica
porno!”
Non
suonai molto convincente ma mi appigliai all’unico argomento
che avevo: poteva effettivamente andare peggio.
Cody
sembrò capire ma non toccava a lui essere comprensivo.
Lui
faceva la parte dell’adolescente deluso e questo era il
copione.
Lo
vidi di nuovo rabbuiarsi e commentare piccato:
“e
tu immagina che uno di questi giorni quel coglione di Tom Gilligam
venga da te sventolando questa pagina di internet. O che cominci a
taggarti su facebook in queste foto facendo commenti tipo
‘frocio’ o ‘trans’ o
‘succhiam’… ”
“Ok,
ok ho capito.”
“A
che cazzo serve chiamarsi ‘Berg’ se
queste stronzate mi perseguitano comunque? ”
“E
tu cosa fai?”
“Rimuovo
il tag, segnalo all’amministrazione, ignoro, che cazzo dovrei
fare?!”
Per
poco non mi urlò addosso e tirò un pugno al
materasso con veemenza facendo rimbalzare l’iPhone
pericolosamente.
“Cody,
tutti fanno gli errori. Dobbiamo solo fare in modo che tu non ne
soffra. Questo è tutto.”
Si
arrotolò ancora di più nel pile addossandosi alla
parete, le ginocchia al petto lo facevano sembrare ancora
più piccolo e i ricci castano scuro gli coprivano gli occhi
lucidi, sembrava un piccolo barboncino con quella capigliatura
scompigliata.
Mi
venne quasi l’impulso di accarezzargli la testa ma qualunque
gesto in quel momento mi sembrava invadente e inopportuno, tanto
più che io ero solo un estraneo per lui.
“E
Will che dice?”
“Will
dice che dovrei mandarli a fanculo.”
“Uhm…
perché non inviti anche Will in montagna? Tu, Will
e Gill vi prendete una stanza, sciate per conto vostro e tu ti prendi
un po’ di tempo per pensare a questa cosa?”
Sollevò
il capo come folgorato e mi guardò per un attimo perplesso
come se stesse osservando un animale strano.
“Ma
così… all’ultimo momento…
non so se la madre li lascia venire…”
“Ci
parlo io con la mamma. Chiamalo subito e passami la mamma.”
Non
fu difficile convincere la signora Foster. In fondo era una settimana
di vacanza per tutti e lei non aveva ancora fatto programmi.
Vedevo
lo sguardo speranzoso di Cody, la sua aspettativa mentre si
mordicchiava il labbro in attesa e gli feci l’occhiolino,
complice, quando ricevetti la conferma dei nostri programmi.
Lui
mi riservò un sorriso luminoso e per l’eccitazione
prese a saltare sul materasso del letto, rischiando di sfondarlo.
Con
un urlo, si precipitò verso l’armadio e comincio a
buttare in maniera disordinata pullover, camicie e magliette sul letto,
blaterando a più non posso e lamentando la scomparsa del suo
trolley.
Ebbi
appena il tempo di gridargli che avvertisse la mamma e non facesse
troppo disordine, poi la valigia l’avrebbero fatta insieme
loro due.
Annuì
distrattamente mentre io, fiero di me stesso, mi avviavo in cucina
serafico, e orgoglioso come un padre che ha riacquistato la fiducia del
figlio.
Non
mi era mai capitato di sentirmi così bene.
Chi
l’avrebbe mai detto che avere “figli”
desse tante soddisfazioni?
Quando
rimisi piede in cucina il coperchio dell’acqua era sul
pavimento, i fornelli erano zuppi e sul pavimento c’era un
lago.
Sulla
segreteria Helena minacciava rappresaglie se non l’avessi
richiamata, il mio cellulare emetteva dei bip intermittenti, segno che
mi la mia casella di posta era piena e il gatto miagolava, aggirandosi
intorno alla sua ciotola, palesemente affamato.
Ma
non me importava niente, e mentre versavo a Junior i suoi croccantini
al filetto di salmone sorridevo come un ebete.
***************
Angolo dell'autrice
Si,
lo so, scado terribilmente nella fiction. Ma non mi pento,
pfui.
E
poi volevo affrontare questo tema da un casino di tempo.
Come
ci si sente ad essere il figlio di uno che ha una nomea
”compromettente”?
E
nel caso di Brian oserei dire che è il minimo.
Pensate
ai figli di Michael Jackson quando sono uscite le denunce per
pedofilia…
Oppure
a quelli di Rocco Siffredi (non ridete – non viene in mente
altro ù.ù) se per caso si imbattessero
in uno dei film del padre…
Insomma
c’è decisamente di peggio <.<
Così
come chissà che colpo si prenderebbero se provassero a
leggere le fiction a luci rosse che affollano i nostri fandom.
Aggiornamenti
lumaca come sempre, non mi smentisco.
Neal C.
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