Niente di nuovo sul fronte meridionale
Seriamente,
il sorriso di Romano in questa icon mi ucciderà. Guardatelo!
Non è un amore? *amore per Romano*
In
ogni caso, salve a tutti, io sono Niki e questa è la
One-Shot
più lunga che abbia mai scritto finora: il contatore di fiumidiparole,
infatti, segnala un bel 5236.
Niente di nuovo sul
fronte meridionale
è... Cielo, non so neanch'io perfettamente cos'è.
Mi
è venuta spontanea, si è scritta da sola senza
che io ci
pasticciassi troppo sopra e questo spiega l'insolita lunghezza (tutte
le mie One-Shot solitamente arrivano massimo massimo alle 2000 parole).
Il titolo per questa
storia è preso dal romanzo di Erich Maria Remarque ossia Niente di nuovo sul fronte
occidentale
di cui avevo letto un brano nell'antologia in seconda media che mi
è rimasto particolarmente impresso. Non so quanto
effettivamente
sia giusto riferirsi al fronte italiano come "meridionale" ma ci
suonava bene.
L'IC dei personaggi è, come al solito, il mio tallone
d'Achille. Mi rimetto al vostro giudizio, fatemi sapere.
Non c'è tanto da dire in più, solo che
è dedicata al mio adorato cupcake, Red Fox,
con cui ho un'intesa riguardo ai pairing che rasenta la perfezione. Ti
voglio bene, mia cara!
Prima di lasciarvi al testo un paio di puntualizzazioni (ci saranno
anche delle note in fondo, ma le più urgenti eccole qui):
- L'età minima per arruolarsi erano i diciott'anni;
- La storia è ambientata nel 1916 ma non ha una collocazione
geografica ben precisa. Posso dirvi che sicuramente non è il
fronte nel Trentino dove si scatena in quel periodo la Strafexpedition
dell'Austria contro l'Italia traditrice della Triplice
Alleanza (avevo bisogno di un fronte più tranquillo per le
irrilevanti offensive di questa storia). Per il resto potete immaginare
quello che volete;
- Le trincee erano scavate a "zig zag" in modo che, se il nemico fosse
riuscito a sfondare in un punto, non avrebbe avuto la traiettoria di
tiro completamente libera da ostacoli. Inoltre quelle italiane e quelle
austriache erano all'incirca separate da 10-20 metri e quindi i soldati
potevano capire perfettamente che cosa succedeva nel campo avversario;
- L'attacco nella guerra di trincea si svolgeva solitamente
così: i soldati dovevano arrampicarsi lungo le pareti del
fossato, salire allo scoperto, superare il filo spinato dei nemici
senza rimanerci impigliati, dovevano gettarsi nei fossati nemici e
lottare corpo a corpo. Il “Bravo Soldato” doveva
andare
all’attacco in posizione eretta e a testa alta (strisciare a
terra o gettarsi in una buca come si insegna oggi ai Marines era una
vigliaccheria che veniva processata da un tribunale militare). Anche se
erano già stati inventati i carri armati, le armi chimiche,
i
sommergibili, i siluri e le mitragliatrici, all'inizio della guerra i
comandanti li rifiutarono perché "poco onorevoli" in
confronto
ai classici cannoni, fucili e baionette;
- I prigionieri italiani venivano mandati nei durissimi campi di lavoro
forzato austriaci. Ad aggravare la situazione, già di per
sé complicata, si aggiungeva il fatto che l'Austria-Ungheria
reputava l'Italia come la più infima delle traditrici - per
essere uscita dalla Triplice Alleanza ed entrata in guerra al fianco di
Francia, Inghilterra e Russia, come già detto - e i capi di
governo imperiali erano riusciti a trasmettere questo odio anche ai
sudditi che di consequenza disprezzarono ardentemente gli ex-alleati i
quali, se fatti prigionieri, avevano un trattamento di favore.
- Essere feriti in guerra, per quanto crudele possa sembrare, divenne
l'unica via di fuga nelle menti di molti soldati: per essere rimandati
a casa, si giungeva addirittura ad auto-mutilarsi - in modi che vi
risparmio di conoscere - ma se si veniva scoperti si veniva fucilati.
Per evitare dimostrazioni del genere, il Generalissimo del Regio
Esercito italiano praticava la decimazione ossia prendere a caso uno su
dieci e passarlo alle armi. (Come
farsi amare dai propri soldati, manuale per il vincente generale a cura
di Luigi Cadorna, Savoia Editore)
Disclaimer -
L'autrice non ricava neanche una lira da questa storia; Axis Powers Hetalia
appartiene agli avente diritto.
Se APH mi appartenesse metterei più in mostra il lato
coraggioso
di Veneziano e Romano che, se ci basiamo sulla storia nei libri di
testo, viene particolarmente fuori nella Grande Guerra. Max Schwarte -
militare tedesco e scrittore di guerra - afferma, nella sua opera Der gross krieg (La Grande Guerra), "Pareva
impossibile, che un esercito il quale usciva da una catastrofe come
quella di Caporetto, avesse potuto riprendersi così
rapidamente" e perfino un giornale di Vienna, la Neue Freie Presse,
elogia il Regio Esercito così "L'esercito
italiano è in piedi. I vuoti sono stati colmati;
specialmente
l'artiglieria è stata ricostruita. Non si possono negare ai
soldati italiani grandi elogi per il loro spirito e la loro resistenza
agli attacchi".
(Se vi interessa qualcos'altro sulla resistenza italiana sul Piave,
ecco qua il link)
Niente di nuovo sul
fronte meridionale
Si
può professare qualunque fede, si può militare
in qualunque partito: quando si tocca la Patria si tocca
l'essenza
dell'anima nostra.
Vittorio Emanuele Orlando
Sa
bene di essere considerato come carne da macello, adatto solo a far da
tiro a segno per gli austriaci durante un attacco che servirebbe a
guadagnare un misero centinaio di metri e un migliaio di caduti. Non si
lamenta quando lo mandano praticamente a pedate in prima linea
piazzandogli fra le mani un fucile che sa a malapena imbracciare
nonostante qualche mese di addestramento. Si limita a ribollire di
rabbia e frustrazione per essere coinvolto in una guerra che a lui non
interessa: gli austriaci, personalmente, non gli hanno fatto niente di
male, perché mai dovrebbe lasciare l'affetto dei suoi cari
per
essere gettato in una buca esposta a tutte le intemperie a combattere
per cose che non lo riguardano?
Prende il fucile fra le mani, senza pensarci, e ripete i movimenti per
pulirlo che ha imparato nell'addestramento, come una macchina.
Suo fratello freme per raggiungerlo sul campo. Aveva contato i giorni
sul calendario che mancavano al suo diciottesimo compleanno fin da
dicembre dell'anno precedente e, ad ogni croce che disegnava, Lovino
perdeva un battito del cuore. Ora Feliciano è ad addestrarsi
-
probabilmente nello stesso posto dove lo è stato lui,
magari
dorme nella stessa brandina dove ha passato numerose notti insonni -
aspettando con trepidazione il momento in cui potrà servire
degnamente il suo Paese, usando parole sue. Il maggiore,
però,
non riesce a non pensare al nonno che li ha cresciuti quando i genitori
sono morti, ora solo con Giorgio* che ha tredici anni e ha
ancora paura
del buio: Feliciano ha sbagliato a lasciarli, facendosi imbrogliare
dalla gloria che ti promettono. Non c'è gloria nella guerra,
non
c'è niente di dolce nel morire crivellato di colpi sotto il
fuoco nemico, non c'è niente di eroico in questo lungo
massacro,
in questo lento stillicidio.
"Se continui così lo incepperai".
Una voce lo riscuote dai suoi pensieri facendolo precipitare di nuovo
in quella trincea piena di fango: il ragazzo al suo fianco, un po'
più vecchio di lui, gli sorride cordiale inclinando
leggermente
la testa. Lovino finisce di torturare la sua arma e l'appoggia alla sua
destra senza nemmeno ringraziarlo del suo accorgimento che potrebbe
avergli salvato la vita in vista del prossimo scontro. Avanzare con
un'arma non funzionante è un suicidio nei già
suicidi attacchi a cui il Generalissimo li manda senza scrupolo. Chi va con Cadorna, è
sicuro che non torna.*
"A che ora ci mandano
al massacro?" domanda invece portandosi le
ginocchia al petto e intrecciando le dita sporche di terra e polvere da
sparo davanti ad esse.
"Non si sa. I generali stanno ancora discutendo" continua a sorridere,
tranquillo come se fosse nel salotto di casa sua e non in una buca
sotto il tiro degli austriaci. Come diamine fa? Questa cosa gli
dà sui nervi.
Lovino borbotta qualcosa sull'incompetenza dei comandanti e sul senso
di questa guerra ma approfitta della pausa per tirare fuori dalla tasca
della divisa la lettera che stava scrivendo al nonno per poi venire
interrotto da un falso allarme. L'altro ragazzo continua a fissarlo -
sente il suo sguardo smeraldino su di sé - per poi
cominciare a
canticchiare sommessamente una melodia che sa più di
spagnolo che di italiano alzando gli occhi verso il cielo.
Decide di non badarci e torna a rileggere un paragrafo che non lo
convince ma non fa in tempo a correggerlo che il capo del battaglione
arriva e inizia a dare le disposizioni per il nuovo attacco. Le ascolta
con noncuranza e, quando si mette nella sua posizione per l'avanzata
nella terra di nessuno, il
ragazzo di prima gli si fa vicino.
"Spero che riusciremo tutti a sopravvivere" dice, speranzoso,
imbracciando il fucile che sembra essere fatto apposta per lui, per
incastrarsi con naturalezza sulla sua spalla.
"La metà di noi morirà appena metterà
il naso
fuori da questa fossa" sa che è la verità, non
gli piace
illudersi "Chi ti dice che non sarà il tuo turno?".
"O il tuo" ripete quello "Spero di no, per l'appunto. Ci vediamo quando
ci daranno il permesso per mangiare. Com'è che ti chiami?".
Ha un sorriso ebete da perfetto imbecille, ecco cosa pensa quando
l'altro gli pone la domanda. "Lovino Vargas" borbotta fra i denti quasi
non volesse farsi sentire, ma in fondo che problema c'è a
dargli
il suo nome? Probabilmente al termine di quella giornata uno dei due
sarebbe morto, preferibilmente l'imbecille.
"Piacere Lovino" china il capo per assentire "Io sono Antonio, Antonio
Fernandez Carriedo".
E poi è di nuovo battaglia, di nuovo sangue, di nuovo morte.
Ha lasciato fuggire un austriaco, durante la conquista di una nuova
postazione: aveva una caviglia slogata e Lovino lo teneva in pugno
puntandogli la baionetta sul collo. Sarebbe bastato un solo movimento
del braccio per tranciargli la trachea e strapparlo alla vita, ma si
era visto riflesso nelle lenti degli occhiali del soldato e aveva avuto
paura di diventare un mostro spietato. Aveva abbassato l'arma
indicandogli la direzione in cui erano arretrati i suoi compagni e lo
aveva incitato con un movimento della testa.
Quello aveva sgranato gli occhi, stupefatto, ma si era affrettato a
rialzarsi - il terrore che l'italiano potesse cambiare idea gli donava
le forze che gli servivano - ed era sgusciato fuori dalla buca
dicendogli "Grazie". Lovino l'aveva osservato zoppicare via sotto il
fuoco, stupito quanto lui: sapeva parlare italiano. Contro chi diamine
stanno
facendo la guerra? L'Austria-Ungheria o altri italiani?
Con in mano la ciotola col rancio e il fucile in spalla, si muove lungo
la trincea per cercare un posto non troppo sporco o affollato dove
poter accendere un fuoco e mangiare in santa pace. Poi lo vede, o
meglio, l'altro lo nota
e alza un braccio per farsi individuare: il ragazzo dagli occhi
smeraldini
è seduto vicino al fuoco insieme ad altri due uomini, che
però stanno riposando un poco approfittando del momento di
tregua, e gli fa cenno di avvicinarsi. Lovino si lascia cadere al suo
fianco con un mezzo sospiro e allunga le dita verso la fiamma sperando
di scaldarle un po' prima di dedicarsi al suo pasto.
"Sono felice che tu sia vivo" Antonio sorride benevolo prima di
addentare la sua galletta.
L'altro si stringe nelle spalle. Sa che morirà qui, al
freddo e
nel fango, ha avuto questa sensazione appena ha messo piede nella
trincea. È
solo questione di tempo prima che riveda i suoi genitori.
Inizia a mangiare in silenzio la sua brodaglia insapore ignorando
quegli occhi verdi che lo scrutano con attenzione prima di puntarsi
verso il cielo scuro della notte, la voce che ricomincia ad intonare la
stessa
canzone di prima e la testa che ondeggia leggermente per seguire il
ritmo
della melodia.
"Sei spagnolo, che ci fai qui al fronte?" gli domanda Lovino lasciando
cadere il
cucchiaio nella scodella vuota. La Spagna non è in guerra,
vive
in pace la sua vita lontano dalle armi. Perché qualcuno da
quel Paese
combatte per l'Italia?
"Sono italiano" dice con calma. Ha un accento perfetto, nessuna
flessione che tradisce la sua provenienza iberica "I miei genitori sono
spagnoli, trasferitisi qui per motivi di lavoro dopo il matrimonio. Io
sono nato e cresciuto in Italia".
Lovino si arriccia un ciuffo di capelli fissando da un'altra parte,
raccoglie le ginocchia al petto e sta in silenzio.
"Tu che ci fai al fronte?" Antonio gli rigira la domanda incrociando le
gambe per stare più comodo.
"Leva obbligatoria" risponde spiccio.
"Sei del '96*" constata.
"La carne da macello" annuisce.
Silenzio.
"Siamo tutti carne da macello" ribatte muovendo il braccio destro per
indicare i soldati.
Lovino mugugna qualcosa ma viene attirato dalla voce del corriere che
gli consegna una lettera. Ringrazia velocemente e la apre con talmente
tanta foga da rompere completamente la busta: riconosce la calligrafia
di Feliciano - minuta, proprio come lui, piena di ghirigori infantili
dovuti alla sua indole artistica - che gli racconta della sua vita al
campo d'addestramento. Trattiene il respiro e rimane in apnea per un
tempo interminabile quando legge che presto sarà in prima
linea
con lui. "Mi avevano
messo nelle truppe di riserva" c'è scritto "Ho
detto che volevo stare in prima linea. Il Comandante, invece di
arrabbiarsi per la mia sfacciataggine, mi ha posato la mano sulla
spalla e ha detto commosso che avrebbe voluto avere altri soldati
valorosi come me. Ha detto, inoltre, che avrebbe voluto darmi una
medaglia per il coraggio ma al momento non ne aveva ma avrebbe scritto
ai suoi superiori per segnalare il mio ardimento" Lovino
sente lo stomaco che si chiude e la
bile che risale. Accartoccia la lettera con rabbia, vorebbe gettarla
nel fuoco, ma alla fine la mette in tasca come un amuleto. Nonostante
tutte le cose assurde ed inconcepibili che Feliciano scrive quella
è la prova che è ancora vivo e quindi
può essere
salvato.
"Brutte notizie da casa?" è ancora quel
ragazzo di sangue spagnolo che pare molto interessato a farsi gli
affari altrui.
"Non sono cazzi tuoi".
Antonio pare accusare il colpo: chiede scusa, non era sua intenzione
impicciarsi delle sue faccende private, e torna a guardare il cielo
stellato riprendendo lo stesso motivetto.
"È
spagnolo?" Lovino è incuriosito da quelle parole, che
sembrano
così simili all'italiano ma scivolano via più
velocemente
e portano con sé la sensazione del sole della Spagna.
Quello sorride nuovamente - ma non gli viene una paralisi facciale? - e
annuisce "È
una canzone popolare: parla di una donna che ha visto il marito partire
per la guerra e prega che ritorni sano e salvo. Appropriato, non
trovi?" rimane in silenzio per un secondo prima di riprendere, gli
occhi limpidi che appaiono ombrati da qualche fosco pensiero "La
cantavo sempre per mio fratello minore".
"Anche lui è al fronte?".
"Sì: è una leva del '96 proprio come te, ma
è
stato assegnato a nord" torna a fissare il cielo e adesso
Lovino capisce che in realtà sta osservando la Stella
Polare.
Che sia un modo per far arrivare al fratellino la sua voce?
Prende un grosso respiro "Mio fratello minore è partito
volontario appena ha compiuto diciotto anni e ora ha finito
l'addestramento. Si è offerto per la prima linea qui
e i comandanti non potevano credere alle loro orecchie: altra carne da
macello, per di più spontanea" non sa perché stia
raccontando ciò, ma gli pare la cosa giusta da fare, dopo la
confessione dell'altro.
"Almeno tu potrai difenderlo" gli fa notare "Vorrei avere anch'io
questa possibilità".
Lovino sente il "Mi spiace" salirgli sulle labbra, ma lo ingoia.
"È
stato bello parlare di nuovo con te, Lovino, ora vorrei riposare.
Sveglia pure questi due: è l'ora del cambio" è
tornato a
sorridere, proprio come un bambino. Il ragazzo annuisce e quello si
sdraia, non dopo aver pregato un po' e baciato il crocifisso che tiene
al collo, e poco dopo dorme già.
Obbedisce alle istruzioni di Antonio per poi sdraiarsi accanto a lui,
vicino al fuoco. Cade fra le braccia di Morfeo quasi immediatamente
mentre ancora giura a se stesso che proteggerà il piccolo
Feliciano a tutti i costi.
Le labbra di suo fratello, solitamente sempre aperte in un sorriso
radioso, sono una linea retta, tesa fino allo spasmo.
Era
arrivato un mattino
presto, dopo un paio di giorni da quando Lovino aveva ricevuto la
lettera, in una divisa troppo grande che mette in evidenza il suo
fisico gracile che sembra poter essere spezzato da una folata di vento.
Lo aveva abbracciato - non con il solito allegro trasporto - sollevando
appena un angolo della bocca e poi si era subito informato su quando
avrebbero sferrato un'offensiva.
L'eccessivo patriottismo l'avrebbe portato alla morte, questo Lovino lo
sa bene e vuole evitarlo. Da quando è arrivato hanno
sferrato
due attacchi e si sono dovuti difendere tre volte dagli austriaci e
Feliciano per poco non si era preso una pallottola nel cuore in uno di
questi scontri: fortunatamente suo fratello era stato abbastanza
rapido di riflessi per farlo spostare e, in cambio di un colpo mortale,
era stato preso di striscio sulla spalla.
Il minore, inoltre, ha preso in simpatia Antonio e si siedono sempre
accanto nelle pause del conflitto alché Lovino si vede
costretto
a sedere con i due per continuare a controllare il fratello.
"È
simpatico, gentile
e cortese" gli dice una notte Antonio, mentre montano di guardia e
Feliciano dorme tranquillo qualche metro più in
là "Sei
fortunato ad avere un fratello così".
L'altro mugugna per assentire, ben conscio di quel grosso regalo che la
Fortuna ha voluto concedergli e per questo è terrorizzato di
perderlo. Feliciano è il migliore dei tre Vargas:
è un vero
artista (gli intenditori d'arte trovano alcuni fra i suoi lavori
"sublimi"), un ragazzo vivace,
solare e allegro nel fiore degli anni. Se uno dei due deve proprio
morire in questa guerra, Lovino si offrirebbe spontaneamente alla Nera
Signora per salvarlo.
Assorto in questo cupo pensiero, viene riportato coi piedi per terra
dal comandante che annuncia
un nuovo attacco. Feliciano salta in piedi e imbraccia il fucile
portandosi affianco del fratello e del nuovo amico. Quando ordinano di
avanzare è uno dei primi che scavalca agilmente il filo
spinato
e avanza a testa alta lungo i metri che lo separano dalla trincea
nemica; Lovino, nonostante solitamente aspetti qualche secondo prima di
lanciarsi all'attacco, insegue prontamente il fratello che continua a
correre verso la meta e infine salta dentro la fossa. Rimane sempre
incantato e spaventato nell'osservare il repentino cambio di
personalità di Feliciano: in condizioni normali non farebbe
male
ad una mosca, ma in battaglia semina il panico fra i suoi avversari e
li uccide senza pietà, proprio come questa guerra vuole.
Ancor prima di sentirlo, lo sparo, Lovino ne ha il presentimento:
proprio come i gemelli che dicono di condividere un legame speciale e
se uno soffre anche l'altro ne risente, l'italiano si sente morire. Si
volta verso il fratello, alla sua destra, e lo vede cadere in ginocchio
mentre dietro di lui appare un austriaco con gli occhiali che tiene in
mano la pistola fumante che ha terminato la breve vita di Feliciano
Veneziano Vargas. Con gli occhi sgranati, nota che non è un austriaco con
gli occhiali qualsiasi, ma l'austriaco
con gli occhiali a cui ha salvato la vita nemmeno un mese prima.
È
un attimo. Lovino
Romano Vargas ruggisce come un leone ferito ma ancora combattivo e fa
un passo in avanti verso l'austriaco che nel frattempo l'ha
riconosciuto. "Tu!" urla dimezzando la distanza ad ampi passi "Tu,
brutto figlio di puttana, hai ucciso mio fratello! È questo il
ringraziamento che si usa dalle vostre parti?".
L'austriaco
capisce, sgrana gli occhi e guarda l'arma. Apre la bocca per tentare di
dire qualcosa e preso dal panico alza il braccio per puntare
nuovamente, ma viene
gettato a terra prima che possa fare alcunché dall'italiano
che
inizia a
prenderlo ferocemente a pugni: non vuole ucciderlo subito, sarebbe
troppo clemente da parte sua, ma vuole fargli provare un minimo del
dolore nel petto che sente e che gli fa sanguinare il cuore ad ogni
battito. Tira fuori la pistola dalla cintura, quella che il nonno aveva
usato durante la spedizione per combattere i Borbone sotto il comando
di Garibaldi e che gli ha regalato prima di partire per il fronte,
mentre l'austriaco balbetta un "Mi spiace, non lo sapevo! Ti prego, non
uccidermi: ho una moglie e un figlio piccolo a casa!" per poi sparargli
a bruciapelo nella croce degli occhi.
Rimane fermo, immobile. Potrebbe morire proprio adesso e non se ne
accorgerebbe, forse sarebbe una liberazione dal dolore che gli opprime
il petto e non lo fa respirare bene. Poi inizia a piangere, prima piano
e silenziosamente poi il velo di lacrime diventa così spesso
che
non vede più il volto insanguinato dell'austriaco sotto di
sé e i singhiozzi sono così forti che attirano
l'attenzione dei soldati nelle vicinanze. Due mani forti e calde lo
sollevano dal cadavere e lo trascinano in un angolo riparato e nascosto
nel buio dove -
forse - sarebbero stati al sicuro dai proiettili vaganti: Antonio lo
stringe a sé facendogli affondare il viso nella divisa
sporca -
di fango? Di sangue? - dove le lacrime e i gemiti muoiono sulla stoffa
grezza. Gli posa un palmo sul collo, all'attaccatura dei capelli
ramati, e l'altro sulla schiena scossa da brividi mentre il viso si
appoggia sull'elmetto del giovane Vargas per circondarlo con il suo
calore da ogni parte.
Rimangono così per un tempo infinito, Lovino che urla per
sfogare il dolore riempendo di pugni innocui il petto dell'altro e
Antonio che subisce in silenzio e cerca di tranquillizzarlo con lievi
carezze nei punti dove poggiano le sue mani, poi
odono chiaramente
il "Ritirata!" impartito dai comandanti che inutilmente avevano tentato
di sfondare la trincea dietro quella conquistata. Si separano di scatto
e il
maggiore si arrampica per primo seguito poi dall'altro che si era
attardato un secondo a chiudere gli occhi al fratello - ancora sgranati
per la sorpresa - e aver sottratto il portafoglio all'austriaco con gli
occhiali - che tanto, a lui, non serve più.
Roderich Eldestein.
Seduto accanto al fuoco e ad Antonio, Lovino rigira fra le mani il
documento d'identità che ha ritrovato piegato in quattro nel
portafoglio. Roderich
Eldestein, nato a Vienna il 26/10/1889.
Accartoccia il foglio e lo getta fra le fiamme, condannandolo
così - in mancanza di qualcuno che lo riconosca - ad una
sepoltura anonima ed indecorosa, lontana dalle lacrime dei familiari.
Estrae anche una foto in bianco e nero: un uomo e una donna, il primo -
in piedi dietro la sedia su cui siede lei - nella divisa militare
austriaca, mentre la seconda in eleganti abiti borghesi. Sul retro, in
una calligrafia elegante, è riportato "Franz und Margherita Eldestein"
che devono essere i genitori dell'austriaco. Dunque conosceva
l'italiano perché sua madre lo è.
C'è un'altra foto che ritrae una giovane donna dai lunghi
capelli
scuri, sorridente, che tiene in braccio un bimbo di un anno, forse uno
e mezzo. Dietro, la scritta "Elizaveta
und Karl* Eldestein"
probabilmente la moglie e il figlio piccolo ai quali si era appellato
l'austriaco per ottenere un'altra clemenza.
Lovino osserva attentamente la fotografia, ma non la riesce a vedere
realmente, la lancia il più lontano possibile e si copre il
viso
con le
mani ancora sporche. È
colpa sua, se Feliciano è morto, è tutta colpa
sua: per
non vedersi come un mostro negli occhi di quell'austriaco aveva
condannato il suo amato fratellino a morte. Antonio smette di stringere
le fasciature alle mani - si è tagliato i palmi col filo
spinato
per aiutarlo durante la ritirata - e gliene poggia una sul capo, libero
dall'elmetto. "Lovino..." tenta ma viene azzittito ferocemente
dall'interpellato che cerca di togliersi le dita del ragazzo,
intrecciate alle sue ciocche ramate.
Il corriere interrompe la schermaglia allungando una lettera verso il
più anziano. Lui si guarda le mani, con i tagli profondi che
già macchiano inesorabilmente le bende, e fa cenno di
consegnarla all'altro. "Perché cazzo l'hai fatta dare a me?
Prenditi la tua fottutissima lettera e vai al diavolo!" strepita
Lovino, appena il corriere se ne va,
sventolandogliela sotto al naso.
"Se la prendessi in mano la sporcherei di sangue e le parole verrebbero
coperte. Potresti leggermela tu? Per favore" la voce di Antonio diventa
sempre più bassa fino ad arrivare ad un roco sussurro.
Lovino deglutisce, la rabbia, il dolore e la frustrazione spariti - o
per lo meno accantonati - nell'udire quel tono inaspettato. Gli osserva
le mani, la macchia di sangue che si allarga fin troppo velocemente per
il palmo. "D-Dovresti andare in infermeria" gli consiglia "Ti potrebbe
venire una setticemia e moriresti nel modo più idiota che io
abbia mai visto finora".
"Morirei per aver aiutato un amico nella ritirata: se non
c'è un
minimo di cameratismo fra di noi, la guerra non la vinceremo di certo.
Andrò dopo in infermeria, prima leggi la lettera".
Il più piccolo lo guarda seccato - maledetto testardo! - e
sbuffa ma fa come gli è stato chiesto: gira la
busta e
"José Fernandez Carriedo*" legge il mittente.
"Mio fratello" a quel nome Antonio si sporge verso di lui,
preoccupazione e curiosità che appaiono contemporaneamente
sul
suo volto.
L'apre con cautela, inghiottendo la bile che gli sta salendo in gola
per
via della vocina nel suo cervello che gli dice che lui non
riceverà più lettere da Feliciano, e tira fuori i
tre
fogli che la compongono. "Ma è in spagnolo!" si lamenta
riconoscendo la lingua "Dovrai fare da solo, io non lo ho mai studiato".
"Prova a leggerlo con un accento convincente" sorride, divertito
all'idea "Riuscirò a capire, fidati".
"Vuoi prenderti gioco di me, bastardo?" sbotta piccato.
"Non lo farei mai" si mette a ridacchiare socchiudendo gli occhi.
Lovino gli sferra un pugno sulla spalla, irato, e quello si lascia
sfuggire un gemito di dolore. "Come sei permaloso" si lamenta
massaggiandosi il punto dolente.
L'interpellato incrocia le braccia e gira il volto verso destra,
dandogli le spalle. "Stupido bastardo" borbotta solamente.
Antonio sorride di nuovo. "Vado in infermeria prima che muoia nel modo più
idiota che tu abbia mai visto finora" si alza spazzandosi
i pantaloni della divisa pieni di briciole della sua galletta.
"E la lettera?" si volta di scatto, guardandolo perplesso.
"La leggerò domani. Meglio se ti riposi, Lovino: all'alba
dobbiamo attaccare" gli occhi smeraldini brillano gioiosi mentre gli
scompiglia i capelli ramati con una mano, affettuosamente, per
poi avviarsi verso la casa coloniale che è stata trasformata
in
infermeria.
Lovino si stende accanto al fuoco e chiude gli occhi, in attesa che la
stanchezza e le troppe emozioni facciano il loro corso. Si addormenta
solo quando avverte il calore del corpo di Antonio vicino al suo.
Apre gli occhi, confuso, spaesato. La testa gli fa male, proprio come
se fosse stata messa fra l'incudine e il martello, e non ricorda niente
di niente.
Storce la bocca fissando il cielo notturno, trafitto da milioni di
stelle, con la luna piena che rischiara la terra con la sua pallida
luce soffusa. Dove diavolo si trova? Non è nella
trincea,
questo è sicuro: non avverte il calore del fuoco - ha sempre
avuto l'abitudine
di addormentarsi vicino ad un falò, fin dal primo giorno che
è
arrivato alla frontiera - né il russare dei connazionali che
si
godono qualche ora di meritato riposo. C'è solo tanto
silenzio.
Poggia meglio il palmo per terra e spinge per puntellarsi sul gomito in
modo da poter studiare meglio il terreno circostante. Cattiva idea: un
dolore lancinante all'altezza della spalla lo costringe a crollare
nuovamente sul fianco e per non bestemmiare Lovino si deve mordere il
labbro inferiore con talmente tanta forza da farlo sanguinare. Si
pulisce l'altra mano sulla divisa per poi andare a sfiorare la parte
dolente: la stoffa è bagnata e anche adesso fra le sue dita
scorre il sangue. Trarre la conclusione da questi due indizi, la
mancanza dei rumori della trincea e la ferita, è alquanto
elementare: è stato colpito in battaglia e, creduto morto,
lasciato nella terra di nessuno. Se provasse ad alzarsi sia austriaci
che italiani, nel dubbio, gli sparerebbero senza esitazione.
Gli viene da sorridere: se riuscisse a strisciare, senza farsi notare,
fino alla parte italiana sarebbe salvo e rimandato dal nonno e Giorgio
per via del suo infortunio. Ha la perfetta via di fuga senza incorrere
nel rischio di fucilazione per auto-mutilazione. Storce la bocca
quando si ricorda che, in tutta probabilità, lo
trascinerebbero
in tribunale da dove sarebbe uscito cadavere, per aver strisciato.
Che fare? Deve tornare fra le file italiane prima che, nella peggiore
delle ipotesi, gli austriaci conquistino permanentemente la loro
postazione lasciandolo così in balia del nemico che lo
spedirebbe in qualche campo di lavoro forzato a migliaia di chilometri
dall'Italia. Non ha ancora un piano preciso in mente, ma sarebbe
più semplice
pensarci senza quel fastidioso mal di testa che continua a dargli il
tormento...
Poi ricorda: la grappa. Quei maledetti comandanti, per cancellare i
timori e renderli più disposti a lanciarsi in un attacco
particolarmente suicida, avevano fatto fare un giro di grappa a tutti i
soldati della brigata e Lovino non regge particolarmente bene l'alcool.
Ricorda vagamente - se si sforza di dissipare la nebbia che avvolge le
memorie della mattina - che si era sentito più leggero e
spavaldo
e tutto era andato bene per un po', ma poi doveva essersi sentito
stanco e affaticato con i primi dolori al capo che l'avevano reso
vulnerabile come un bimbino in fasce. Deve essere stato colpito in quel
frangente e lasciato lì, creduto morto: magari proprio
adesso il
corriere sta partendo dalla trincea in direzione di Roma per avvisare
Ottavio Augusto Vargas* che i suoi due nipoti sono
entrambi morti per
portare gloria alla Patria.
No, non può permettere che consegnino la notizia che
ucciderà il nonno di dolore per la perdita del suo adorato
Feliciano e di Lovino e lascierà quindi il piccolo Giorgio
da solo,
orfano senza parenti, in un mondo tanto ostile, non l'avrebbe permesso
finché avrebbe avuto respiro.
Rinvigorito da questo proposito, Lovino cerca di rialzarsi un'altra
volta ma
deve tornare a fingere di essere morto avvertendo dei soldati - venuti
a prendere i compagni caduti*
approfittando delle tenebre - confabulare
un po' più in là, troppo lontani per capire se
sia in
italiano o in austriaco.
Uno gli si avvicina, i passi lenti e silenziosi per non attirare i
tiratori di ambe le parti. Lovino chiude gli occhi e rilassa i muscoli
per apparire morto sperando che il soldato non indugi troppo nelle sue
vicinanze. Trattiene il respiro quando sente il ginocchio di quello
scricchiolare mentre si accovaccia vicino a lui per esaminare la divisa
e capire di che esercito faccia parte.
"Ho trovato un altro dei nostri" Antonio! L'italiano non è
mai
stato così contento di sentire la sua voce e socchiude le
labbra
per dirgli che è lui ed è ancora vivo quando
avverte il
suo dito, con un tatto pazzesco, premere senza troppi complimenti
sul foro lasciato dal proiettile austriaco. Il dolore è
troppo
intenso per essere trattenuto e Lovino urla forte scattando a sedere
attirando su di sé le attenzioni dei soldati imperiali.
"Ma cos-?" Antonio si vede resuscitare un morto ma si butta con
prontezza per terra per evitare i proiettili, trascinando con
sé
il ferito.
"Stupido bastardo idiota e deficiente" gli urla quello "Cosa cazzo vai
a tastare? Ti va di volta il cervello? Sempre ammesso che tu ne abbia
uno, cretino!".
"L-Lovino?" balbetta riconoscendo la voce e, ora che sono aperti e
scintillanti di rabbia e di lacrime di dolore, gli occhi ambrati "C-Che
cosa ci fai qui?".
"La siesta, mi piace dormire nella terra di nessuno" il ragazzo lo
fulmina con lo sguardo, minaccioso "Tu inveci raccogli le margheritine
di notte? Che cazzo combini fuori dalla trincea a quest'ora?".
"Volevamo dare degna sepoltura ai nostri morti. Non mi aspettavo che tu
fossi qui, ferito, anche se questo spiega perché non ti
trovavo
da nessuna parte".
Lovino fa schioccare la lingua sul palato, incerto se chiedergli se
davvero lo avesse cercato per tutta la trincea, ma alla fine opta per
un più caustico "Ora che ci hai fatto scoprire, genio, come
pensi di tirarmi fuori da questo casino?".
"Tirarti?".
"Hai capito benissimo, bastardo" il tono non è acido come
vorrebbe, ma è pur sempre molto velenoso.
Antonio si porta le mani alla testa che nasconde nella terra per
schivare la traiettoria di un proiettile "Dobbiamo aspettare che si
scordino di noi e poi, forse, riusciremo a raggiungere la trincea".
"Quante probabilità ci sono realmente che gli austriaci si
dimentichino di noi?" domanda, le parole che escono sempre
più
faticosamente dalle sue labbra.
"Poche" prende un respiro "Direi quasi nulle".
"Bene" Lovino inizia a sentirsi un po' stanco. Sbatte le ciglia con
forza per scacciare quell'innaturale torpore che si insinua nelle sue
membra dovuto al sangue che la sua ferita continua a gettare "Davvero
meraviglioso. Mio nonno morirà d'infarto a sapere che il suo
perfetto nipotino ed io siamo morti".
"Tu non morirai, non lo permetterò" la voce dell'altro
è
decisa, gli occhi smeraldini che brillano di una luce sicura, proprio
come se fosse un giuramento.
Chiude gli occhi - solo per un secondo, le palpebre sono tanto pesanti
- e "Sapevo che sarei morto qui, in trincea, l'ho sempre saputo"
sorride amaramente alzando il braccio per poi pigiare pigramente la
mano, sporca di fango, sulla parte lesa aumentando così le
probabilità di una setticemia. Così morirebbe lui nel modo
più idiota che abbia mai visto.
Uno strappo e le mani di Antonio che levano la sua. "Apri gli occhi"
stringe la benda improvvisata più strettamente sulla spalla
"Non
addormentarti".
Lovino li socchiude, assonnato, cercando il suo sguardo nella penombra
"Come posso addormentarmi se mi strilli in un orecchio? Non sono ancora
sordo, Antonio".
"Resta con me. Parla, dimmi tutto quello che ti passa per la testa,
insultami pure se vuoi, ma non dormire".
Il ferito arriccia le labbra in una smorfia buffa che strappa un
sorriso divertito al maggiore. "Stavo pensando..." biascica piano
piano, le forze che iniziano a scivolare via dalle sue membra,
lanciando un'occhiata distratta alle fredde luci delle stelle "La
lettera di tuo fratello. L'hai letta?".
"Ho detto che devi parlare tu, non io" gli ricorda, corrugando le
sopracciglia.
"Rispondi a questa domanda e poi ti insulterò da adesso fino
all'alba. Anche dopo, se vuoi, per me sarà un piacere farlo".
Antonio ridacchia leggermente e "Sì, l'ho letta. Spero che
non
ti dispiaccia se ho approfittato del tuo stomaco come cuscino, ma eri
davvero comodo".
"Tu cosa?" Lovino lo fissa, le guance ardenti come due tizzoni.
"Ora tocca a te. Avrò il piacere di essere insultato per tre
ore, che meraviglia!" si mette comodo incrociando le braccia dietro la
testa mentre un altro proiettile passa vicino a loro.
Essendo un uomo di parola, il ragazzo dà sfoggio del suo
vocabolario degno di uno scaricatore di porto particolarmente volgare
seppure la sua voce non sia energica come converrebbe per usare quelle
parole. L'altro le incassa tutte, senza battere ciglio, anzi ridendo di
tanto in tanto della sua creatività.
Dopo un po', proprio quando la voce del più piccolo inizia a
vacillare, Antonio lo scuote per un braccio e gli sussurra "Proviamo ad
andare". Lovino non commenta, inizia davvero ad essere troppo stanco
perfino per insultarlo, e si lascia guidare dall'altro come una bambola
dalle mani della sua piccola proprietaria. Traendo vantaggio da una
grossa nuvola che nasconde la luna piena, il maggiore si alza
sollevando il ferito con sé e inizia a correre verso la
trincea
amica.
Ed è vicina - così vicina che Lovino quasi si
illude che
forse sopravviverà a questa notte - quando Antonio urla di
dolore e si accascia a terra, colpito da un austriaco che ha notato il
loro movimento. "M-Mi spiace" geme, una mano che cerca di tamponare la
ferita sulla schiena e l'altra che si allunga disperatamente verso
quella del compagno che giace vicino a lui. Il ragazzo sospira, ma non
rifiuta il contatto "Smettila di scusarti" chiude gli occhi
intrecciando le sue dita con le altre che iniziano ad essere
innaturalmente fredde "Sei irritante".
"Scusa" anche la sua voce è ormai un sussurro.
Lovino vorrebbe replicare, ma la voce e il respiro gli muoiono in gola.
Dietro le palpebre chiuse, vede Feliciano, avvolto in una luce
abbagliante, sorridergli gioioso e tendergli la mano "Dai, fratellone,
vieni a tavola! La mamma ha preparato il tuo piatto preferito" e poi si
mette a correre verso l'orizzonte indefinito ridendo come il bambino
che era e che è sempre rimasto.
Lovino lo segue senza incertezze o ripensamenti, un sorriso soddisfatto
sulle labbra: è davvero una vita che non fa un pasto decente!
"Niente di nuovo al
fronte: l'attacco
sferrato dalle nostre coraggiose truppe è stato per tre
volte
respinto dall'esercito imperiale che conserva saldamente le proprie
postazioni. Nell'offensiva, centosettantatré Italiani hanno
perso la vita e ottantasette sono stati feriti. Esultate, Italiani, per
questi nostri bravi fratelli che non hanno esitato a immolare se stessi
per il bene della sacra Patria e per la gloria della Nazione!".
*
- Giorgio Vargas è il nome che mi sono inventata per
Seborga. Giorgio
è il nome del primo "sovrano" del Principato. (Metto le
virgolette in quanto, sia de
jure che de
facto, la sovranità su Seborga è
ancora dello Stato italiano)
* - La
frase in corsivo è uno "slogan" che spadroneggiava ai tempi
in cui Cadorna era il capo del Regio Esercito.
* - La
mobilitazione
completa delle leve del 1896 iniziò nel novembre 1915. Per
questo Antonio capisce immediatamente di che anno è Lovino.
* -
C'è una motivazione ben precisa dietro ai nomi che ho scelto
per i parenti di Roderich: Franz,
il padre, ha lo stesso nome del primo Imperatore d'Austria (Francesco
I) così come il figlio, Karl,
ha il nome dell'ultimo (Carlo I); la madre, Margherita, ha il
nome della nostra Regina più famosa.
* -
Così come mi
sono inventata di sana pianta il nome di Seborga, ho fatto lo stesso
per Portogallo a cui faccio interpretare il fratello minore di Antonio.
José
è semplicemente uno dei nomi portoghesi più
comuni.
* -
Dicasi lo stesso per il caro vecchio Nonno Roma. Una delle variazione
di Ottavio
è Ottaviano, in onore del primo imperatore dell'Impero
Romano, e Augusto,
be', mi pare abbastanza ovvio.
* -
In guerra non si
aveva pietà per i morti o i feriti (questi ultimi venivano
soccorsi di notte, dopo ore e ore di attesa, da coraggiosi barellieri
anche se molti alla fine morivano per infezione). Ogni tanto si
proclamava un ufficioso armistizio per raccogliere i caduti ma
solitamente andava a finire che italiani e austriaci si sparavano
contro dopo poco lasciando sulla terra di nessuno un numero ancor
maggiore di morti e di feriti.
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