“E quando il
sole di marzo accarezza i germogli,
appena nati, e volge lo
sguardo ai bei tronchi,
ruvidi, plumbei, dal
respiro di nebbia d’inverno,
danziamo e cantiamo con
la loro voce,
noi creature silvestri.
E quando i ruscelli di
giada tornano a scorrere,
ed il passero timido
viene a calcare il terreno
mentre l’ali
delle farfalle vedono il giorno,
danziamo e cantiamo con
la loro voce,
noi creature silvestri.
”
“Vaati!”
Il giovane stregone non ascoltava. Dai rami più alti del
pino cui si appoggiava echeggiavano innumerevoli voci.
D’improvviso, un ramo si distaccò dal tronco.
“Vaati!”
Il lungo ramo frondoso s’arrestò appena sopra il
capo del Minish. Rimase sospeso per qualche istante, ondeggiando; dopo
una pausa d’incertezza, rotolò al suo fianco.
“Sei matto? Poteva ucciderti!”
“Lo so,” replicò l’altro, con
voce sottile.
Vaati s’alzò in piedi. Ripulì le sue
vesti con le piccole mani. Quando alzò lo sguardo, scorse un
crinale poco distante. Decise di risalirlo, e così fece;
tuttavia, l’affanno fu maggiore di quanto non
s’aspettasse. La cima del colle era ornata da un piccolo
masso.
“Maestro”.
“Parlami,
t’ascolto”.
“Davvero un
Uomo può tenere un masso come questo su un palmo?”
Si chinò sul masso e vi premette contro le piccole mani.
Senza mai distogliere lo sguardo, mormorò una breve
cantilena.
Il masso si sollevò appena. Dopo essersi spostato
d’un passo, rotolò pigramente giù dal
crinale. Tanto permettevano a Vaati le sue capacità e uno
studio costante, durato lo spazio della sua giovane vita.
Spostare oggetti inanimati e dialogare con gli elementi naturali erano
trucchi da fattucchiere, e Vaati ne era consapevole.
Alzò lo sguardo al cielo arrossato dal tramonto. Appariva
molto distante.
“Maestro, un
Uomo potrebbe scagliare un masso oltre le nubi?”
“No”.
“Ma
se…”
“Ti
racconterò una storia, Vaati. Ascolta bene:
Un tempo, quando
ancora i Minish non avevano timore di manifestarsi agli
Uomini, un Uomo e un Minish decisero, per diletto, di fare a gara a chi
avesse raggiunto il cielo per primo.
L’Uomo
trascorse giorni, settimane e lunghi mesi a fabbricarsi una sorta
d’ingegnoso macchinario. Tuttavia, quando le
indossò scoprì d’essere troppo pesante
per sollevarsi oltre la cima di un albero.
Quando alzò
il capo e levò lo sguardo, scorse un volatile che,
dall’alto delle nubi, sembrava descrivere ampi circoli
proprio sopra il suo capo. A cavalcarlo era il Minish col quale aveva
scommesso”.
La volta celeste sembrava tinta a grandi e uniforme pennellate bianche.
Vaati osservò un uccello che la percorreva lentamente.
“Sai o no d’essere protagonista delle
menzogne che mi propinano?”
Abbassando lo sguardo, discese lentamente il crinale.
“La superbia è male, Vaati”.
Vaati non rispose. Si limitò a guardare languidamente
attraverso i vetri della finestra.
“I peccatori di superbia sono sempre stati puniti gravemente.
Mi stupisco che tu non lo ricordi; sei un fanciullo erudito, dopo
tutto”. Il maestro venerando si pose una mano dubbiosa sul
capo. “Pyotr,” prese ad elencare, “che
credeva di poter giungere ai confini del mondo, e fu stroncato da una
creatura selvatica a poca distanza dal suo villaggio. Azaria, che
tentò di andar contro al flusso univoco della natura e
generò un orrendo mostro che ne divorò le ossa...
Liron, che volle creare una lingua artificiale che potesse esser
compresa da tutte le creature del mondo, e fu preso da
follia…”
“Maestro,” disse dolcemente Vaati. “Voi
mi raccontate favole”.
Ezlo non disse nulla. Fissò lo sguardo negli occhi vuoti del
giovane Minish, che in quel momento sembravano attratti dal pulviscolo
che danzava nel sole.
“So che lo fate a buon fine,” proseguì
Vaati, “, ma io sono qui per porvi delle domande. Maestro, io
vi ho sempre considerato il Minish più sapiente che abbia
mai conosciuto”.
“Devi aver conosciuto Minish molto sciocchi,
allora”.
“Voi dispensate sapere. Sapete come vi abbia sempre seguito
diligentemente. Conosco la vostra fiducia nel
sapere…”
“La conoscenza è l’unico strumento di
verità,” asserì pacato Ezlo.
“Dunque, la verità ha diritto a essere
ricercata”.
“Certamente; a meno che…”
“Se è giusto quel che dite, non dovrebbe esservi
limite alla conoscenza”.
Le iridi rosse di Vaati erano ora rivolte al maestro, che appariva
più che mai stanco e intristito dagli anni.
“Vaati,” disse con amarezza, “non esiste
nulla che non abbia limiti…”
“Limiti? Ah! E questi sarebbero i vostri limiti?”
Vaati accennò col capo al soffitto della stanza.
“Se si conosce quel che si trova al di là di un
limite esso non è più un limite, ma uno steccato.
E sì che voi potreste – ne sono certo –
valicarlo, col vostro… potere…”
Ezlo abbassò lo sguardo, con un’aria di vaga
colpevolezza. “Ragazzo,” disse,
“l’ardore di gioventù si spegne col
tempo, ma la superbia è una malattia dura a
guarire…”
“Mi volete far credere di non aver mai pensato a quel che si
trova oltre queste mura, oltre questa… misera dimensione in
cui siamo relegati? Siete un bugiardo!”
Gli occhi di Ezlo d’improvviso fiammeggiarono.
L’anziano scattò in piedi.
“Vaati!” la sua voce vibrava. “Non
perdono l’impertinenza. Esci di qui!”
Vaati rimase per un momento immobile, come sorpreso. Poi, la sua
attenzione cadde – casualmente, forse – su un
fagotto verde poso su di un tavolo ligneo.
“Cos’è…?”
domandò, nel tono di un bambino preso da
curiosità.
“Un cappello,” rispose Ezlo, in tono secco.
“Va’ fuori, adesso!”
Quando il suo giovane allievo ebbe chiuso la porta alle sue spalle, il
maestro trasse un lungo respiro. Deterse con una mano il sudore che gli
bagnava il capo canuto.
Osservò il pulviscolo illuminato dai raggi del sole. Poi, si
lasciò cadere sul suo scranno, la fronte corrugata da
pensieri di singolare natura.
Sospirò.
Vaati si sedette a poca distanza dai Minish che danzavano. La primavera
s’avvicinava, e la sua gente la celebrava com’era
d’uso; tuttavia, egli non prestava attenzione ai canti che le
loro piccole voci intonavano.
Pensava.
Le stelle del firmamento descrivevano forme curiose,
osservò. Avrebbe potuto tracciarne la posizione, si disse
Vaati, se avesse voluto. Avrebbe potuto… Forse nei libri
degli uomini potevano trovarsi informazioni sul loro conto. E se avesse
studiato il linguaggio umano…?
“Vaati,” disse qualcuno alle sue spalle. Si
voltò. Una creatura della sua specie lo stava guardando, con
un incerto sorriso in volto.
“Sì?” domandò il Minish,
avvertendo la brezza che gli sferzava il viso trascinare la sua voce
nel blu fondo e opaco della foresta notturna.
“Dobbiamo cantare. Conosci qualche canto?” gli
domandò la creatura.
“Ne conosco,” rispose Vaati. “Vuoi
accompagnarmi?”
La creatura annuì, e si sedette al suo fianco. Era appena
una sagoma, nella fioca luce della sera a tratti rischiarata dalle
lucciole.
Vaati levò la voce sottile e cantò:
“Tra le canne
rimaste cave, che il sole ha bruciato,
Bruno groviglio che come
un servo curva la schiena,
Ulula il vento.
Tra le cime sottili dei
lunghi alberi color smeraldo,
Che si discostano e
ravvicinano a seconda del loro umore,
Mormora il vento.
Al piccolo cuore delle
creature senzienti,
Che di rado porgono
orecchio alle molte voci del mondo,
Parlo del
vento…”
“Sono preoccupato per il mio allievo,
Argiro”.
“Chi?” l’anziano Minish al fianco di Ezlo
depose il bastone ricurvo e si passò una mano sulla veste
argentea. Poi si guardò attorno, come se temesse
d’essere ascoltato. “…Vaati?”
Ezlo annuì, invitandolo a prendere posto alla sua destra.
“Siediti. Gli anni trascorrono in maniera quanto mai
impietosa, per noi ”.
“Tutto si può sopportare,”
sentenziò il vecchio, mettendosi tuttavia a sedere.
“Vaati… e perchè? Credevo fosse un
allievo promettente”.
“Oh, lo è, lo è senza dubbio”.
“Che manifesta, dunque? Incostanza? Intemperanza? Bada,
è ancora un ragazzo…”
“No, niente di tutto questo. Fa, come dire? degli strani
discorsi”.
Il vecchio argenteo gli rivolse uno sguardo obliquo. “Di che
genere?” chiese.
“Ecco; è d’una curiosità
vivace, e questo è bene, per carità.
Tuttavia… “
“E’ normale avere una certa…
curiosità, alla sua età”.
“Non capisci, Argiro. Lui non ha niente in comune coi suoi
coetanei. Niente!” Ezlo fece una pausa, come a riprendere
fiato. Era divenuto rosso in viso, e stava agitando confusamente una
mano per aria. “Non mi preoccuperei
d’un’ingenua brama di fanciullo, se pure di questo
si trattasse, non mi preoccuperei!”
“Cosa vuoi dire?” disse Argiro, reclinando
lateralmente il capo canuto.
“Questo voglio dire, che in quel ragazzo
l’ambizione supera l’intelletto,
l’avidità la chiarezza di pensiero. Mi pone dei
quesiti ai quali non posso, non voglio dare risposta! E
tuttavia…” Ezlo appoggiò il capo sui
polsi, con aria stanca. “Non so, amico mio. Mi rende
inquieto”.
“Sei molto severo con lui, Ezlo. Non è possibile
che sia perchè, in qualche modo, il ragazzo ti ricorda te
stesso?”
Il maestro venerando scosse lentamente il capo, lo sguardo fisso nel
vuoto. “Io non ero così, non sono mai stato
così, Argiro. Lui gli occhi vuoti, opachi; spaventosi. Io ho
sempre avuto modestia, mentre Vaati confida soltanto nelle sue
facoltà…”
“Non ne ha forse il diritto?”
“No, per tutti i demoni! Non ci si può far
controllare soltanto dall’aspirazione! Serve
giudizio!”
“Che ne hai fatto di quel… cappello di cui mi
parlasti, Ezlo?”
Ezlo ebbe un sussulto, come se fosse stato pungolato.
“E’… a punto. Ho passato tanto tempo a
prepararlo, e in fine mi pare d’aver avuto
successo”.
“Cos’hai intenzione di farne?”
“Non so ancora. Immagino che procederò con molta
cautela. Si tratta d’un oggetto potente…”
“Ora mi parli di cautela, Ezlo, ma ricordi cosa ti spinse a
creare un veicolo che ti permettesse d’esplorare la
dimensione umana?”
Il tono di voce di Ezlo si velò
d’un’amara tristezza. “Non ho mai pensato
di tenerlo per me soltanto, Argiro,” disse.
“Lo so, e non ne hai mai parlato ad altri che me per ragioni
di prudenza, e hai fatto bene. Non è a questo che
alludo”. Argiro dalla veste d’argento
s’alzò in piedi, e levò lo sguardo al
cielo. “Avresti voluto esser libero - non è vero?
Avresti voluto che tutti fossimo liberi”.
Le spalle di Ezlo ebbero un moto improvviso, quasi stesse
singhiozzando. “Vediamo il mondo attraverso occhi molto
piccoli. Non faremo che nutrirci di leggende, se rimarremo prigionieri
dei nostri confini. Desideravo guardare al di là”.
S’udì un rumore di passi in lontananza.
“Cos’è stato?” Argiro si volse
attorno, muovendosi con inquietudine.
Seguì un silenzio teso. Nessuno dei due anziani dai nobili
lineamenti osava muoversi, o proferir parola.
“Maestro!” strillò poi una voce sottile.
Un fanciullo giunse correndo presso di loro.
“Maestro!”
“Che c’è?”
“E’ scomparso, maestro! Era con noi e ci ha
lasciati all’improvviso!”
“Chi?”
“Vaati!”
Vaati aprì e richiuse lentamente le dita della mano destra.
Osservò le proprie membra, nello stesso modo in cui dovevano
fare i bambini molto piccoli; le mosse lentamente, percorso da un
freddo senso di straniamento. La sua cute era pallida, come esangue.
Provò a fare un passo; per poco non perse
l’equilibrio, dall’altezza terribile in cui si
trovava.
L’erba, i piccoli arbusti che erano stati i suoi compagni
quotidiani, non gli sembravano che assurde riduzioni della vegetazione
imponente che lo circondava.
Non riusciva a distogliere lo sguardo dal suolo. Non osava alzare gli
occhi, nemmeno per guardarsi attorno; li teneva fissi sul terreno, dove
il mondo che conosceva s’era trasformato in una cesta di
balocchi di proporzioni ridicole.
Vide un sassolino ai suoi piedi; lo raccolse. Lo rigirò tra
le dita – pesanti! Com’erano pesanti. Il ciottolo,
al contrario, era leggero. Lo tirò per aria, con
l’intento di riprenderlo sul palmo; invece, lo fece
maldestramente cadere a terra, con un rumore sordo.
“Ti credi
potente, adesso, non è vero? Stolto! Cosa credi di poter
fare? La tua non è sete di sapere, ascoltami bene:
è ingordigia! L’assetato di conoscenza beve stilla
a stilla, apprezzando il diverso sapore di ogni goccia, tentando di
coglierne il significato. Ma tu vorresti abbeverarti a un fiume a pieno
regime, un fiume che non si prosciugasse mai… non ne
esistono, Vaati! E se il tuo intento fosse di risalirne alla sorgente
piegandone il corso, non potrebbe riuscirci che un dio; e tu, tu sei un
mortale con gli occhi vuoti…”
Vaati sorrise, o meglio, impresse a quelle che dovevano essere le sue
labbra una curvatura innaturale. Il grosso cuore che gli albergava nel
petto batteva a un ritmo cadenzato e regolare.
Il mago si fece coraggio, riempiendo i polmoni dell’aria
dall’odore di pioggia che la circondava, e alzò lo
sguardo al cielo. La luce lo costrinse a stringere le palpebre; la
coltre uniforme e biancastra di nubi attraverso la quale filtrava la
rendeva insostenibile.
Quando poté finalmente aprire gli occhi, rimase sorpreso. La
volta celeste era come l’aveva sempre vista; sembrava persino
trovarsi alla medesima distanza. Un uccello –
un’anitra? – delle stesse dimensioni del normale la
stava pigramente attraversando.
Vaati allungò un braccio verso l’alto.
Aprì e chiuse il palmo della mano di dimensioni abnormi che
aveva tesa.
Una strana amarezza lo colse; un gelo che lo faceva rabbrividire, con
la sua mancanza di significato, gli velò gli occhi.
Pensando confusamente a sorgenti e fiumi senza fine,
cominciò a camminare.
Ezlo s’accasciò, intorpidito. Era affannato e si
muoveva a fatica. Provò a chiudere gli occhi; sinistri
incubi popolati da mostri turpi gli affluirono alle palpebre.
Non riusciva a dare un ordine ai suoi pensieri; la consapevolezza del
suo fallimento li oscurava, confondendoli. Sentiva di doversi appellare
alla ragione, pur costretto in quella sua forma innaturale.
I suoi timori s’erano realizzati; aveva pagato per la sua
indulgenza, la sua sconsideratezza e, probabilmente, la sua ambizione.
La sua era una punizione divina, simile a quelle dei personaggi mitici
i cui nomi erano registrati negli annali del suo popolo.
Si domandò se fosse davvero così. Rivide
mentalmente l’espressione atterrita di Argiro, gli occhi
vitrei e terribili di Vaati. Provò nuovamente
l’inquietudine che lo aveva avvinto nei suoi ultimi istanti
di coscienza, e si riscosse.
Gli restava l’intelletto; aveva bisogno di pensare.
Dunque pensava.
Vaati cessò di camminare.
Il vento che compariva tanto spesso nei suoi canti gli sferzava
impietosamente il viso. Si guardò attorno con i suoi
rinnovati occhi d’uomo; avrebbe voluto cantare.
Ripensò al suo ultimo canto, trascinato dal vento nel folto
della foresta notturna.
Dischiuse le labbra, ma non ne vennero fuori che suoni disarticolati.
Stava un fanciullo dalla
pelle di miele
Chino sul fiume,
lietamente scrutandone
L'acque, e il tenero viso
Dolcemente rinfrescando.
Non aveva infatti il
timore che potesse
Farsi turbolento, oppure
inghiottirlo;
Simile a un canto gli
sembrava
La tremula voce
d’argento.
Dove si trovava il fiume? Vaati non sapeva dove cercare. Vagava
solitario in uno spazio senza confini.
Il vento batteva la piana erbosa che aveva di fronte, e certo anche
ciò che c’era oltre il colle che la delimitava.
Dove andare?
Vaati si sentì, ancora una volta, molto piccolo.
Si sedette, stanco.
@Astrifiammente: Anche
le mie simpatie personali vanno a Vaati... XD nonostante non possa che
apprezzare la moderatezza e la saggezza proprie di un anziano come
Ezlo. Vaati è sì un villain, ma in questa
mia interpretazione un villain soltanto "a metà",
un irrequieto del quale non posso che condividere il desiderio
di valicare dei confini imposti, benché questo
desiderio in lui finisca per sfociare nella pericolosa - e
indubbiamente condannabile - brama di potere.
I peccatori di 'hybris'
non sono canon, bensì da me inventati... nella scrittura di
fan fiction (e non soltanto) sono ossessionata dalle tematiche
meta-letterarie, per così dire: amo inventare testi, canti,
leggende ed elementi di folklore del mondo del canone. In questa
categoria rientrano le storie di Pyotr, Liron e Azaria. :)
Le immagini silvestri
sono mirate a descrivere il mondo fiabesco dei Minish, minuscole
creature - quasi dei folletti - a contatto con gli elementi naturali
(una loro specie in particolare).
Convengo anch'io che gli
interventi del narratore dei dialoghi contribuiscano, in certi casi, a
creare uno stacco quasi 'necessario' per conferir loro un ritmo
realistico e verosimile.
Non ultimo, ti
ringrazio. ^^ |