Sigyn
{
Quando il cielo non ascolta }
Loki è una ferita fresca.
Ha occhi come schegge di vetro, tagliano, fanno sanguinare. Ha la
pelle bianca a chiazze rosse del capro espiatorio, del dio che
nessuno prega mai, del ragazzo senza padre. Ha gli abiti stracciati
dell’apolide, l’armatura a brandelli del soldato
ricoperto di
vergogna.
Quel che più atterrisce, però, è lo
sfregio che squarcia il
ventre in orizzontale, un miscuglio nauseante di ferro della corazza,
di carne viva e marcescente, di muscoli strappati e intestini
aggrovigliati che minacciano di spargersi a terra.
Eppure la sua schiena è eretta, rigida, in una posizione che
appartiene solo ai principi, mentre ogni singolo centimetro del suo
corpo ruggisce dolore.
Tony lo fissa, incredulo, si domanda, di tutti, perché
proprio
lui, che non è freddo come Natasha, non è preciso
come Clint, non è
eroico come Steve, non è Thor,
perché proprio lui debba
affrontare tutto questo.
Lui è solo un uomo in armatura, gli viene da vomitare e
vorrebbe
credere che si tratta di un incubo, ma poi Loki crolla in avanti e
d’istinto lo afferra prima che si accasci al suolo.
Forse non è un eroe, ma la figura esanime tra le sue braccia
non
è un dio e sta per morire.
Lo trascina fino al supporto più vicino – il
divano del
soggiorno – dove lo stende supino con tutta la delicatezza di
cui è
capace, come farebbe con una delle sue preziose invenzioni. Loki non
emette un suono e, non fosse per gli occhi ostinatamente aperti, Tony
penserebbe che è svenuto.
Il dio, al contrario, scruta il soffitto, sveglio e vigile, mentre
sul suo stomaco si apre una voragine di pus giallastro, infezioni
violacee e carne in decomposizione, un macabro spettacolo da cui Tony
non riesce a distogliere lo sguardo. È ipnotizzato.
È tentato di chiamare il 911 dello S.H.I.E.L.D. o Bruce,
oppure
entrambi, ma è dissuaso dal sospetto che, se Fury dovesse
operare
una scelta concernente la salute di Loki, nel migliore dei casi lo
lascerebbe a morire in un vicolo del Bronx. Fury è un
comandante, ha
abbastanza coraggio per uccidere un uomo, per giustizia o per
vendetta che sia.
Tony non è altrettanto coraggioso.
Inaspettatamente è Loki a trarlo d’impaccio,
facendo l’ultima
cosa che ci si aspetterebbe da qualcuno nelle sue condizioni: parla.
È un rantolo fievole, patetico, impossibile da chiamare
“voce”,
tuttavia conserva un’eco signorile che si riverbera in
un’unica
invocazione.
«Magia».
Tony non può essere sicuro di cosa il dio voglia dire, ma
quel
sorprendente intervento sprona al lavoro il suo geniale cervello.
Magia, Loki è un mago, il più potente dei Nove
Reami, l’ha
lodato più volte Thor, deve avere delle capacità
taumaturgiche, cui
forse non ha ancora fatto ricorso perché spossato dalla
ferita.
Forse – Tony sfreccia in bagno, torna indietro imbracciando
trionfante il kit del pronto soccorso – basterà
pulire il taglio
dalle tossine perché si inneschi il meccanismo di guarigione.
La magia, in fondo, non può che essere uno stravagante ramo
della
scienza.
Mentre opera sulla ferita, Tony inghiotte la bile che continua a
salire, inghiotte i pensieri, non sono un eroe, per
una volta
non è sulla propria testa che deve concentrarsi, inghiotte
tutto ciò
che non sia il pus, che sembra non finire mai, e le lezioni di primo
soccorso che Bruce ha fornito a tutta la squadra in caso di
emergenza.
La viscida sostanza giallognola gli brucia le mani, le sue
esalazioni gli pungono gli occhi, ma stringe i denti e non si ferma e
alla fine il pus smette di sgorgare dal taglio. Al suo posto, la
magia, dapprima un debole luccichio verdastro, danza con sempre
maggior vigore sul corpo di Loki, sui bordi della ferita,
ricostruisce, ricuce, rimette insieme il dio come potrebbe fare un
bambino con i pezzi di un puzzle.
È orribile e bellissimo e Tony non riesce a staccarne gli
occhi.
Nuova pelle fiorisce sui muscoli e le ossa ricostituiti, il petto
si solleva e abbassa in respiri lenti e profondi, sul viso riaffiora
il colore. Ora Tony ha meno paura di toccarlo, meno paura di
distruggerlo, si china su di lui e lo spoglia di ciò che
rimane
dell’armatura e del completo in pelle nera, entrambi
squarciati in
corrispondenza della ferita che non c’è
più.
Loki ha chiuso gli occhi, il suo corpo è scosso da brividi,
Tony
gli getta addosso una coperta che trova nell’armadio in
camera da
letto. Lo scruta, sprofondato nel sonno, calmo, quasi normale,
non fosse per quei segni rossi intorno alle labbra, che, dapprima
combattuto, decide poi di lasciar perdere, perché il dio ha
bisogno
di riposare.
Tony è stanco, ma Loki sembra così vulnerabile,
così indifeso.
Dopo essersi sporcato le mani del suo sangue e del pus, dopo
avergli quasi lambito il cuore con le dita, dopo aver visto la
fragilità dietro la possanza divina, Tony teme che Loki
possa
sciogliersi come neve, disperdersi al vento come cenere.
Perciò si
siede accanto a lui e veglia.
Il dio ha la febbre alta, spesso si sveglia torturato dagli
incubi, apre la bocca per gridare ma non ne esce nulla, oppure chiede
dell’acqua o invoca nomi in una lingua che Tony non capisce.
Quando
la febbre si abbassa, apre gli occhi pigramente, guarda il soffitto.
Sempre il soffitto, mai lui, neppure per fissarlo con sospetto
oppure con rabbia o, ancora, con l’orgoglio ferito,
perché ha
dovuto affidarsi alle mani di un infimo umano.
È solo quando si riprende abbastanza da poter parlare
– da
voler parlare – che Tony capisce che
è diventato cieco.
***
Un uomo comune impiegherebbe mesi per riacquistare le forze
dopo
aver subito un supplizio simile; il dio ricomincia a parlare la
mattina dopo, quando Tony si sveglia sulla sedia che durante la notte
ha spostato vicino al divano.
«Dove sono?»
Tony sbadiglia, si stropiccia gli occhi, grugnisce, irritato, e fa
per mugugnare una replica tagliente, ma di colpo la sua mente
impastata di sonno ricomincia a lavorare con la consueta
genialità e
individua un particolare fondamentale nella domanda di Loki. Allora
si tira su con uno sbuffo e gli esamina il volto rischiarato dai
raggi del sole del mattino.
Ha le guance scavate, i tagli che adornano la bocca evidenti alla
luce e gli occhi, al contrario, orribilmente spenti, il verde un
tempo brillante ora triste, smorto. Tony rimane senza fiato
nell’intuire la verità: cieco, il dio è
stato accecato.
«Nella Stark Tower» dice, con molta più
gentilezza di quanta
non ne intendesse fare uso all’inizio.
«Mi è apparso palese» fa notare il dio,
inarcando un
sopracciglio «nel momento in cui hai grugnito con tanta
eleganza».
Lo sforzo di essere garbato all’improvviso gli sembra del
tutto
inutile, dal momento che non è ricambiato. Si impone
comunque di non
ribattere, Loki è ancora convalescente, forse sotto shock,
questo
dev’essere il suo modo di difendersi da quello che
è successo,
dopotutto è una persona anche lui – almeno, Tony suppone
che lo sia, perciò si sforza di tacere per non rovesciargli
addosso
tutta la bile che la scorsa notte si è trattenuto dal
vomitare.
Il dio non dà spazio al silenzio, come se lo temesse.
Brancola nel buio, riflette Tony, è naturale che sia
così.
Diventare ciechi dev’essere molto peggio che esserlo dalla
nascita:
se non altro, se non hai mai visto nulla, non puoi nemmeno sentirne
la mancanza.
«Sei stato tu a disinfettare la ferita?»
Pare quasi che Loki sia incerto se essergli riconoscente oppure
biasimarlo; Tony stesso lo è nel replicare con ironia:
«Chi altri?
Fury si farebbe le trecce con i capelli che non ha e indosserebbe un
vestito di paillettes piuttosto che fregiarsi della consapevolezza di
averti salvato la vita. Io sono un po’ più
elastico».
Forse solo un po’ più umano.
Il dio conferma di averlo ascoltato con un debole cenno del capo.
«Da quanto tempo mi trovo qui? I tuoi compagni lo
sanno?»
C’è una lama nella sua voce nel pronunciare
quell’ultima
domanda, la lama nascosta di un assassino che si prepara a uccidere
il nemico ignaro. C’è Thor in
quell’ultima domanda, c’è
una vita passata all’ombra della sua grandezza, ci sono buchi
neri
che persino Tony esita prima di esplorare.
«Sei comparso nel mio soggiorno ieri sera intorno alle dieci
e,
no, non sanno niente» lo rassicura, no,
non lo rassicura, lui
non rassicura Loki, lo informa.
«Com’è che sei
conciato così male, comunque? Era parecchio che non ti si
vedeva in
giro e non è che mi aspettassi di farti da crocerossina al
nostro
prossimo incontro…»
Loki contrae la mascella, Tony sa di aver posto la domanda
sbagliata, non ha bisogno che lui lo puntualizzi: «Non credo
che ti
riguardi, Stark».
Tony scatta.
«Io invece credo che mi riguardi» inizia prima
ancora che il dio
abbia finito la frase. «Avrei potuto benissimo lasciarti nel
mio
salotto a dissanguarti, lo sai, no? Invece no, mi sono messo a
giocare all’Allegro Chirurgo con i tuoi
intestini e no, non
è stato divertente, cazzo, è stata la cosa
più disgustosa che mi
sia mai capitata, e non ho dormito perché avevi la febbre e
stavi
delirando, poi ti svegli e sei intrattabile e cazzo
non
rispondi nemmeno a una fottuta domanda, perciò scusami se
sto un po’
perdendo la calma, ho solo una quindicina di ore di sonno arretrato
per colpa tu--».
Il dio lo zittisce con una smorfia. «Capisco,
Stark». Passano
alcuni momenti di silenzio, Tony sta per sbottare di nuovo,
perché a
lui sembra che non abbia capito affatto, ma poi Loki sospira e
riprende: «Lo stato in cui verso è il risultato
delle punizioni
inflitte da Odino».
Tony non ha la forza di replicare subito, è troppo
terrorizzato
da ciò che il dio ha detto, da come l’ha detto.
Terrorizzato, perché, sebbene lui per
primo non abbia mai
avuto una relazione idilliaca con Howard, non riesce a credere che un
padre possa sopportare di condannare il proprio figlio a questo.
Terrorizzato, perché la voce di Loki
è leggera, come se
il comportamento di quello che, in fin dei conti, fino a qualche anno
prima chiamava padre, non avesse alcun peso. O
peggio, come se
vi fosse abituato.
«Intendi dire…»
«Non c’è nulla da intendere,
Stark» sospira il suo
interlocutore, levando gli occhi al cielo come se stesse parlando con
qualcuno di particolarmente ottuso. «Sono stato incatenato a
una
roccia con gli intestini di mio figlio». Il suo tono non ha
alcuna
inflessione particolare, ma deve fare una pausa e Tony prende la
saggia decisione di dimostrare un po’ di
sensibilità e volgere lo
sguardo altrove. «La pena prevista erano mille anni: per
cinquecento
di essi, durante il giorno un’aquila si cibava del mio
ventre, che
di notte ricresceva; per i successivi cinquecento, un serpente
lasciava colare il suo veleno sul mio petto e i miei occhi.
L’ultimo
castigo che mi è stato imposto è la cucitura
delle labbra, per
impedirmi di mentire ancora, ma, come tu stesso puoi vedere, sono
riuscito a far sì che il veleno della serpe sciogliesse il
filo».
Tony aggrotta la fronte, perplesso: sa che il dio potrebbe aver
subito una commozione celebrale, ma non immaginava fosse
così grave
da privarlo della capacità di contare.
Prima che possa sottolinearlo, però, Loki deve cogliere il
suo
dubbio, perché specifica: «È chiaro che
ho dovuto scontare la
punizione in una dimensione diversa da quella di Midgard, dove il
tempo scorre più veloce di quanto non accada qui. Non mi
sorprenderei se fossero passati solo pochi anni da--».
«Tre anni» precisa Tony, puntiglioso,
perché il dio è riuscito
a farlo passare per imbecille quando era lui quello che stava
commettendo un clamoroso errore di calcolo, fino a pochi secondi
prima.
«Tre anni» ripete Loki, assorto.
Non aggiunge altro e Tony si limita a osservarlo, a domandarsi
come sia sopportare mille anni di tormento, legato con le budella del
proprio figlio, come sia tornare indietro in pezzi
e scoprire
che per qualcun altro sono passati solo tre anni, appena trentasei
mesi. Sono esperienze che stravolgono un uomo, gli rubano tutto
ciò
che lo rende umano.
A un dio cosa possono rubare? Forse tutto il resto, considera
Tony.
«Ti ringrazio».
Si riscuote dalle proprie riflessioni con una scrollata
all’udire
quelle parole che lo prendono del tutto in contropiede,
perché mai
avrebbe pensato che un giorno Loki lo avrebbe ringraziato di propria
spontanea volontà.
«Di cosa?»
Può apparire una domanda stupida, ma lui è ben
conscio che ogni
gesto e parola del suo ospite hanno un significato preciso ed
è
improbabile che voglia ringraziarlo per qualcosa che qualsiasi essere
umano degno di essere definito tale avrebbe fatto senza esitare.
«Per avermi portato qui» risponde Loki, esacerbando
il suo
stupore al punto che non riesce a ribattere subito. «Se non
l’avessi
fatto, avrei dovuto sopravvivere ad altri cento anni di
tormento».
È allora che Tony si riprende abbastanza per obiettare,
inebetito: «Ma io non ti ho “portato
qui”: sei tu che sei
apparso dal nulla con uno dei tuoi trucchi da Houdini o che ne so
io».
Il dio corruga la fronte. «Che cosa stai dicendo?»
Socchiude gli
occhi con cipiglio sospettoso, quasi fosse convinto che Tony lo stia
prendendo in giro, ma poi la sua espressione si ammorbidisce in una
di riflessione mentre pondera qualcosa che al suo interlocutore non
è
dato sapere. «Capisco». La sua bocca subisce quello
che pare uno
spasmo, ma che su un essere umano normale potrebbe essere una risata.
«Interessante».
Tony ha la pazienza di aspettare delle spiegazioni per due secondi
e quattordici decimi prima di scattare. «Sua
Maestà ha intenzione
di mettere a parte anche me di siffatta conclusione?»
«No» sospira Loki, come se fosse afflitto dalla
conversazione.
«Non è nulla d’importante».
Alla fine Tony decide di lasciar perdere per amore della propria
sanità mentale, Loki decide di rimanere come ospite
indesiderato per
amore di se stesso e Tony che cosa può fare, se non
abituarvisi?
***
Che cosa? Loki abbassa le palpebre sugli
occhi ciechi,
osserva in silenzio, un’ombra nelle foreste di Asgard, il
corpo
svilito abbandonato su Midgard, lo spirito libero di vagare nella
terra dove è stato allevato, di guardare suo fratello che
fissa con
le sopracciglia inarcate la lancia puntata contro il suo cuore. Che
cosa stai facendo, Hodr? Sono io, il tuo compagno Balder!
È inutile, pensa Loki. Per quanto Balder possa parlare, la
sua
voce non raggiungerà le orecchie del cieco Hodr se non sotto
forma
di ringhi di belva.
Il vecchio solleva la lancia, prende la mira affidandosi al solo
udito, così fine che rimane uno dei cacciatori
più valenti di
Asgard, nonostante abbia perduto la vista. Loki sa che Balder non
può
scappare, Balder sa che non può scappare.
Hodr? Ascoltami, Hodr!
Tu non hai ascoltato, sillaba Loki, sebbene il fratellastro non
possa scorgerlo. Tu non hai ascoltato, quando il serpente mi
avvelenava e io gridavo. Il nobile Balder era troppo impegnato a
farsi amare per preoccuparsi del suo cosiddetto fratello.
Hodr tira, la lancia colpisce il bersaglio, la punta affonda nel
petto di Balder. Appare così soffice, così
vulnerabile, il più
glorioso guerriero di Asgard insieme a Thor.
Soffoca, Balder, in un grumo di sangue che gli risale in gola.
Stramazza al suolo.
I suoi occhi divengono bui.
Loki guarda, guarda come, una volta tornato nella propria forma
corporea, non potrà più fare, guarda come gli
asgardiani gli hanno
tolto il privilegio di fare. Guarda Balder che muore e sorride
all’udire il primo gallo cantare.
Tu non hai ascoltato, Balder. Nessuno ha ascoltato, e ora è
troppo tardi.
***
Tony non si è mai preso cura di un alieno, prima,
perciò non sa
bene come comportarsi con Loki. Si risolve a non preoccuparsi
più
del dovuto se la febbre si alza e cala di colpo, perché il
dio
sembra sopportare ogni cambiamento con stoica indifferenza, anche se
trascorrono diversi giorni prima che possa camminare per più
di
pochi minuti.
Per la verità, dopo il primo giorno, Tony trascorre
più tempo a
domandarsi a quale orrida tortura lo sottoporrà Fury quando
verrà a
sapere di tutto questo che non a interrogarsi circa la salute del suo
ospite.
Loki c’è, c’è sempre stato e
sempre ci sarà.
Tony invece c’è, fino a poco tempo prima era un
embrione e a
breve Fury lo ucciderà: è molto più
naturale per lui dare priorità
alla propria sopravvivenza che a quella del dio.
All’alba del quarto giorno dal suo arrivo, con la guida di
Tony,
Loki ha imparato a memoria la piantina dell’attico e riesce
ormai a
muoversi con una certa autonomia, mentre gli altri Avengers e lo
S.H.I.E.L.D. sono ancora ignari della sua presenza e attribuiscono la
reclusione di Tony all’interno della Stark Tower a un nuovo
progetto, probabilmente il Mark IX.
In realtà non mette piede in laboratorio da più
di una
settimana, perché dedica le giornate al semidio nel
tentativo di
trovare una risposta a ogni sua curiosità. Lascia la torre
solo nei
pochi casi di “emergenza supercattivo” e torna una
volta conclusa
la missione.
La verità è che Tony ha paura, e non solo per se
stesso.
La verità è che il dio non risponde spesso alle
sue domande, ma
di notte parla nel sonno e Tony raggela nell’ascoltare quei
discorsi frammentati, rattoppati, eppure lucidi, troppo lucidi.
Cosa possono rubare a un dio?
Ora Tony lo sa. La sanità mentale.
Loki invoca nomi di persone che non ha mai sentito, Balder,
Frigga, Nari – Tony non osa chiedere, ma sa che è
il nome del
figlio di cui hanno usato gli intestini per legarlo, lo sa da come lo
pronuncia, così come sa che non dimenticherà mai
la sua voce
sciogliersi su quelle due sillabe –, invoca Thor, invoca
potenze
divine che lui non spera di conoscere, parla del serpente che
l’ha
accecato, dell’aquila che gli ha lacerato il ventre.
Parla di un padre che non lo ama, di una razza di cui non fa
parte, di un trono perduto, di tre galli che cantano.
Parla, parla, Tony non l’ha mai sentito parlare
così tanto,
parlare come se dovesse sgravarsi da un peso, poi si sveglia e tace e
ha un’espressione furtiva dipinta in volto, quasi temesse che
Tony
ha ascoltato, e lui non ha il coraggio di accennare ai suoi
vaneggiamenti notturni.
Una notte Loki ride, e il giorno successivo Thor lo trova.
***
Sopraggiunge come un tuono silenzioso, manifestandosi
all’interno
della Stark Tower in tutto il proprio splendore divino, con
l’elmo
calcato sul capo, l’armatura scintillante e Mjolnir stretto
in
pugno.
Da qualche giorno Loki non ha più bisogno di rimanere a
lungo
disteso ed è seduto sul divano del soggiorno; coglie
immediatamente
l’arrivo del fratello e alza la testa nella direzione
generale da
cui proviene quell’improvviso afflusso di energia asgardiana.
Tony
sta allontanandosi dalla cucina, brandisce due tazze di
caffè e per
poco non le rovescia, si domanda se Thor sia venuto per portare via
Loki, per rimetterlo in catene, si domanda se lo fermerà o
meno, nel
caso fosse così.
Il Dio del Tuono fissa suo fratello, rinfodera con lentezza il
martello, si sfila l’elmo, come si fa ai funerali, lo getta
per
terra – Tony è quasi certo che abbia scheggiato il
pavimento – e
crolla ai piedi di Loki, in lacrime.
«Thor» lo accoglie quest’ultimo con voce
fredda, sebbene un
guizzo d’emozione gli abbia fatto tremare il labbro inferiore
per
un istante.
L’interpellato vorrebbe prendergli le mani, forse piangergli
in
grembo; non osa.
Sa che ciò che ha fatto – che ha concesso venisse
fatto – è
troppo grande.
«Loki,» lo apostrofa, esitante, ma ogni sillaba
gronda amore,
solo amore, e Tony è di troppo e distoglie lo sguardo
«ti ho
cercato a lungo…»
«Per riportarmi a casa?»
Loki è una serpe, una serpe furiosa; Thor si ritrae di
scatto dal
suo morso, ma non desiste. È suo fratello. «No.
Non questa volta.
Per proteggerti. Anche Odino ha ordinato ai suoi di darti la caccia e
temo ciò che ti farà, se dovesse
trovarti».
Le anomalie in quel breve discorso colpiscono anche il Dio
dell’Inganno, che suo malgrado si dà la pena di
trattenere una
rispostaccia. «Vuoi dire che hai lasciato Asgard?»
Thor annuisce con severità, non ha importanza che il
fratello non
possa vederlo. Schiude le labbra, questa volta con estrema
risolutezza, e pronuncia poche parole precise: «Il trono.
Odino.
Tutto. Non potevo perdonarmi ciò che ti avevo
fatto».
Il trono. Odino. Tutto.
Sentenze che rimbombano di definitivo e di amore e di rimorso.
Tony non ha ben compreso il ruolo di Thor nella vicenda –
Loki
non ha voluto pronunciarsi a riguardo – ma, personalmente,
anche se
fosse stato solo in piedi a guardare, non potrebbe mai perdonarlo.
Loki però è commosso, in un certo senso, dove commosso
per
il Dio dell’Inganno ha un significato differente che per gli
altri
esseri umani. Senza dubbio è sorpreso – Tony ormai
ha imparato a
riconoscere le sue emozioni e non sa quanto ciò sia un bene.
Alla fine, Loki è il fratello di Thor, Thor è il
fratello di
Loki, e questo va oltre tutto il resto.
«Ho ucciso Balder» annuncia quest’ultimo
all’improvviso in
tono di sfida, come a voler vedere fin dove si spinga la
lealtà che
il fratello sembra aver consacrato a lui. «Questa sera il
terzo
gallo canterà. Credi ancora che il tuo amore sia ben
riposto?»
Thor ha un sussulto che gli percorre l’ampia schiena e le
braccia muscolose, aggrotta la fronte in un’espressione cupa
e
triste, ma non abbandona la posizione genuflessa dinanzi al Dio
dell’Inganno. China il capo, mormora qualcosa nella stessa
lingua
in cui delira Loki, preme la fronte contro il ginocchio del fratello,
che lo lascia fare.
Tony non sa cosa significhi che Balder è morto né
tantomeno
perché tre galli debbano cantare, ma le espressioni degli
altri due
astanti sono solenni e lui preferisce non rischiare
d’infrangere
quel momento con una domanda stupida.
Infine Thor si alza, si volge e pare ricordarsi della sua
esistenza: si dirige verso di lui, gli serra una spalla con la mano,
gli occhi gravidi di gratitudine, rossi di pianto.
Un uomo della sua stazza in lacrime è uno spettacolo atroce
e
Tony vorrebbe poter abbassare lo sguardo, ma non può e gli
batte
debolmente una mano sull’enorme tricipite mentre il compagno
di
squadra esordisce, con la regale magnificenza di un principe:
«Ti
sono eternamente riconoscente per aver salvato la vita di mio
fratello, Tony Stark. Non c’è niente al mondo che
io potrei fare
che possa ripagare ciò che tu hai fatto per me.
Grazie».
«Sì, beh,» farfuglia, indugia, odia i
ringraziamenti «non c’è,
uh, problema. Sicuro. Sempre al tuo, uhn, servizio».
«Da ora innanzi permettimi di assisterti nel proteggere Loki,
poiché, se Odino lo scovasse, tenterebbe di ricondurlo alla
sua
punizione» riprende il Dio del Tuono e Tony ha un moto di
stizza
perché non è stupido, l’ha capito, ma
non ha il fegato di
maltrattare Thor che lo implora di rimanere con quegli occhi da
cucciolo.
«Certo» approva con un cenno del capo.
«Resta quanto vuoi, c’è
posto».
Raggiante è un eufemismo.
Loki non dimostra altrettanta gioia, ma è notevolmente
più
sereno dacché Thor si stabilisce nell’attico.
Parla di più, ora,
anche se lo fa quando Tony non c’è e quasi
soltanto con il
fratello; mangia di più, sembra quasi che guarisca
più in fretta,
che viva di più giorno dopo giorno.
Tony ne è sollevato, presto entrambi lo lasceranno
finalmente in
pace; Thor no, Thor si fa più taciturno e rabbuiato, a parte
quando
parla con Loki, perché allora si sforza di essere felice.
Il suo sorriso è tirato, la sua allegria un pallido ricordo
di
quella d’un tempo.
Tony non capisce e nessuno dei due si dà la pena di
spiegare,
almeno fino al terzo giorno dacché Loki ha annunciato che
quella
sera il terzo gallo avrebbe cantato.
È il Dio dell’Inganno a rivolgergli la parola con
la palese
intenzione di intavolare una conversazione. «È la
fine, Stark»
commenta in tono discorsivo, scrutando con intensità la
parete di
fronte a sé. «Oggi è l’ultimo
giorno dell’universo degli dei e
dei midgardiani».
La voce è la stessa che assume quando mormora nel sonno e un
brivido freddo corre lungo la schiena di Tony, che butta giù
mezzo
bicchiere di whiskey prima di replicare. «Sei impazzito del
tutto?»
Loki increspa le labbra in un sorriso divertito e amaro.
«Temo di
no. Come previsto dalla Veggente, ho dato inizio al Ragnarok con la
morte di Balder».
Senza attendere risposta, gli racconta la storia: la storia di una
vecchia che prevede le sorti del mondo, che ha previsto, prima ancora
che Loki nascesse, che lui si sarebbe macchiato dell’omicidio
del
fratellastro, Balder il Prode, e che dal suo sangue avrebbe avuto
origine il Ragnarok, la fine del mondo, la storia di un inverno
infinito, di uomini che muoiono, di mostri che assaltano le mura di
Asgard, la storia di Loki che, finalmente libero dai suoi castighi,
guida una schiera infernale proveniente dalle fiamme di Muspelheim,
la storia che fino ad allora sia lui che Thor gli hanno taciuto, la
storia cui Tony non crederebbe, non fosse per lo sguardo spento di
Thor.
Thor.
«Dov’è Thor?»
Il sorriso non accenna a morire sulla bocca del Dio
dell’Inganno,
si allarga, persino, mentre lui scrolla le spalle. «Non
è qui e non
tornerà».
Thor è andato a difendere Asgard, perché, per
quanto ami suo
fratello, la città è la sua patria, gli
asgardiani la sua gente.
Thor è andato a difendere Asgard ed è probabile
che stia
combattendo contro la creatura che lo ucciderà,
com’è scritto
nelle sorti del mondo, com’è annunciato dalla
Veggente.
Tony si prende la testa tra le mani.
Il mondo sta per finire.
Gli Avengers stanno per finire.
Iron Man sta per finire.
Forse è il tempo di una riflessione profonda, ma la
consapevolezza della fine è ineffabile. Non esiste mezzo di
comunicazione adatto a esprimerla.
«Sai, Stark,» sussurra Loki e, quando Tony solleva
il capo, lo
vede immobile, le mani sulle ginocchia, lo sguardo fisso su di lui,
sebbene l’uomo sia del tutto certo che il dio non possa
scorgerlo
attraverso il velo della sua cecità «per lungo
tempo ho pensato che
non sarebbe accaduto, ho pensato di avere la possibilità di
scegliere. Persino quando Odino mi ha inflitto la medesima punizione
descritta nella profezia, credevo ancora di poter sfuggire al
destino. Ti ho parlato di mia moglie, Sigyn, la donna che avrebbe
dovuto prendersi cura di me. Non è mai esistita,
perciò mi ero
ormai convinto di essermi liberato delle maglie soffocanti della
sorte. Poi tu mi hai salvato, mi hai curato, mi hai assistito per
così tanto tempo, e allora sono giunto alla conclusione che
neppure
io, nonostante tutto, ho il potere di ignorare ciò che
è stato
annunciato».
Tony ha ormai intuito dove il suo interlocutore voglia arrivare,
desidererebbe metterlo a tacere, ma non osa, perché una
parte della
sua anima è consapevole che sia la verità.
E infine Loki lo dice. «Tu sei Sigyn».
Non c’è rabbia, non c’è
rancore nella sua voce; solo una
quieta consapevolezza dell’inevitabile. Forse è
Tony che è sotto
shock, forse il whiskey è troppo forte anche
sull’orlo della fine
del mondo, ma lo sguardo del dio pare ammorbidirsi. Gli allunga una
mano. «Ti ringrazio».
Tony osserva quella mano tesa, osserva quel sorriso sigillato
dall’ago, osserva la morte in viso.
Gli stringe la mano.
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