L’
ostacolo
Se ne stava lì, a fissare l’impedimento che non le
permetteva di proseguire: l’ostacolo.
Aveva percorso il corridoio, ma non interamente: le mancava
ancora un tratto per poter arrivare alla porta.
La osservava da lontano, bella e lucente, che richiamava la
giovane come il canto soave di una sirena.
Contemplava il pavimento che si era lasciata alle spalle. Non aveva
rinunciato a nessun oro o ricchezza. Possedeva qualche piccolo graffio
ma nulla di rilevante si era scagliato contro di lei durante il suo
cammino. In quel momento, invece, l’ossessione
dell’ostacolo l’angosciava, la disperava.
La penombra del corridoio non le consentiva di vedere in
faccia il suo nemico. Sembrava impossibile andare avanti, proseguire
nel viaggio che lei ardeva compiere.
Era sempre stato abbastanza semplice camminare: scalini,
pieghe nei tappeti e ostacoli vari erano stati frequenti ma altrettanto
vi era la frequente disinvoltura nel proseguire.
Scrutava così quella persona (perché quella volta
di persona si trattava) che non si degnava di mostrare il proprio viso.
Quella volta avrebbe dovuto scavalcare la persona per accedere al
gradino che l’avrebbe magari condotta fino in cima, fino alla
porta.
Le luci del corridoio erano molto distanti fra loro e non emanavano una
gran luminosità, perciò tutto era appannato,
avvolto da un alone di oscurità. Era sull’orlo
della follia, ma lei conosceva bene il motivo.
Era l’ostacolo che voleva farla impazzire, soggiogarla e
smuoverla a tal punto di avvolgerla nello squilibrio più
totale. Era un gioco che il nemico sapeva fare e ne godeva di questo,
amava farla impazzire. O almeno era quello che lei pensava. Si muoveva
in sincronia con lei, il suo nemico. Se lei alzava un braccio, lui
alzava un braccio.
Le si nascondeva e di lui non c’era più
traccia. Non aveva avuto il coraggio di affrontarlo: lo temeva troppo.
Temeva che il suo avversario potesse schiacciarla e distruggerla.
Così ora, raggomitolata su se stessa come un feto, fissava
la porta lucente che continuava a sibilare nelle sue orecchie di andare
lì, di aprirla.
Perché era quello che voleva fare, voleva raggiungere la
porta, la sua porta: perché non poteva? Perché
doveva essere intralciata? Mentre fissava il suo nemico posto nella sua
stessa posizione si accorse di una lunga corda che pendeva da una
fessura del muro candido. Quell’ostacolo andava affrontato,
questo era certo. Ma lei non sapeva se aveva il coraggio o la voglia di
farlo. Era tutto così assurdo. Perché continuare?
In fondo non c’era scritto da nessuna parte che
dopo la porta vi era la meta e non un altro orribile corridoio lugubre
e tetro. La ragazza continuava a ripetersi quelle domande ma la porta
sembrava brillare ancora di più, rischiarare
l’abitacolo in cui questa risplendeva molto più
delle lampade poste sul soffitto. Sorrise sornione. Prese la corda e se
l’attorcigliò al collo, così fece il
suo nemico.Voleva farla impazzire?
Vediamo fino a quanto avrebbe resistito. O almeno era quello che lei
voleva fargli credere. In realtà era spaventata a morte, non
voleva più vedere nulla.
Nemmeno il suo nemico. Ed il modo per non vedere era uno solo e quella
corda sarebbe stata di aiuto.
Così strinse forte e fece lo stesso il suo nemico. Non
urlò, nemmeno un po’, anzi. Si sentiva liberata,
come lanciare via un grosso masso che ti opprime la schiena, farlo
affondare in un fosso senza poi guardare giù.
Continuavano a stringere entrambi.
Le corde sembravano consumarsi a contatto della pelle. Poco importava
della sofferenza e della rinuncia perché la liberazione
cancellava tutto. Un desiderio però si accese in lei: voleva
vedere in faccia la persona che l’aveva ridotta come creta
nelle sue mani, voleva vedere chi poteva essere così crudele
da farle questo.
Lei che voleva semplicemente raggiungere la sua porta, come
tutti, lei che aveva affrontato ben poco, roba da nulla e ora doveva
avere questa montagna che la schiacciava. Ma ora non più.
No. Non più. Strinse sempre più forte la
funicella e vide la luce della porta affievolirsi, come spenta da
quell’incanto che sembrava avvolgerla.
Si avvicinò al suo nemico e così fece anche lui.
Allungò per primo il braccio e la sua mano venne a contatto
con l’altra. Ma non toccò una mano sudata o
graffiata a causa dello sforzo per stringere la corda, bensì
una superficie fredda e vitrea.
Con l’altro arto continuava a stringere mentre vedeva i suoi
occhi riflessi svanire.
Anche lei svanì, per sempre.
E quello che lei aveva incontrato in quel corridoio non era altro che
uno specchio.
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