Il diavolo e l'acqua santa
Lo chiamavano asino, benché fosse tutt'altro che
stupido.
Giù in paese le
madri solevano rimproverare i figli più testardi, tacciandoli di essere uguali a
Don Severino; le vecchie lo deridevano durante la messa, per quei chiodi fissi
su cui ogni volta batteva con quel martello che aveva al posto della lingua.
Valicando secoli di rispetto e di timore nei confronti della religione, Don
Severino era sulla bocca di tutti, o, meglio sul loro sorriso
beffardo.
L'asino, lo chiamavano, e lui lo sapeva.
Mentre pronunciava il sermone sentiva le loro occhiatine e tratteneva la rabbia,
ché è peccato. Forse, temeva, il cielo gli era precluso. Ogni sera pregava
perdono per la propria ira e chiedeva la forza per affrontare quelle
cattiverie.
Era arrivato lì
pochi mesi prima, dopo aver vagabondato tra una parrocchia e l'altra, dando
sfoggio del proprio latino aulico e della propria capacità retorica, rintronando
orecchie troppo piccole per cogliere la sottigliezza della sua teologia. Un
medioevo barbaro avvinghiava le menti di tutti i suoi parrocchiani, ovunque si
trasferisse, ovunque cercasse di gettare il seme della cultura: non aveva il
tempo di germogliare, in quel deserto mentale, dove il suo verbo rimbombava come
una voce che intima obbedienza ma a cui viene restituito scherno. Nessuno,
davvero, capiva le sue parole. Nessuno coglieva la sua intelligenza maturata in
seminario, dopo anni di studi classici e di amore per la cultura: aveva studiato
per trent'anni, eppure da altri trenta lo chiamavano asino.
La gente entrava in
chiesa, intingeva le dita nell'acqua santa, si faceva il segno della croce e già
rideva, pensando al prete che presto sarebbe apparso. Le gocce di santità
brillavano sulle fronti vuote e Don Severino, ogni tanto, le osservava,
illuminate dalla fioca luce delle lampade. Pensava a quanto poco meritassero le
sue benedizioni, a quanto fossero poco degni dell'acqua del signore.
No, decisamente il
cielo gli era precluso. Errare humanum
est ed egli humanum era, ma il
rancore era un fardello che si portava dietro da molto tempo e se davvero perseverare diabolicum est, forse anche
un po' diabolicum era.
Una giorno, al
mattino presto, gran parte del paese era presente in chiesa: era il giorno del
battesimo del primogenito del sindaco, come si poteva mancare? cos'avrebbe
pensato? in un paesino così piccolo una presenza in meno si nota subito!
Don Severino
pronunciava il rito con grande fervore, sperava nella bontà di quel neonato, gli
augurava con gli occhi una vita serena e saggia, gli augurava umiltà e serietà,
mentre al di là di genitori, madrine e padrini il pubblico apprezzava la farsa
quotidiana, risolini insolenti invadevano le navate. Il prete, comunque,
proseguiva indomito, coinvolto dalle proprie parole e dallo sguardo sincero di
quel bambino: le risate riecheggiavano nelle sue orecchie, ma il nuovo nato gli
dava speranza in una nuova generazione. Don Severino, in quel momento, aveva
fede, aveva fede in quel neonato come portatore di una nuova bontà e
intelligenza nel mondo. Tuttavia il caso, a volte, sa essere particolarmente
fuori luogo. Nessuno seppe mai come, né perché, ma quel bambino azzardò un
sorriso. O meglio, cominciò a ridere, ed anche di gusto.
Forse nulla sarebbe
successo, se la grande conoscenza di Don Severino avesse abbracciato anche la
cura neonatale: avrebbe saputo che fino ai quattro mesi, i bambini ridono
inconsciamente e senza motivo; forse invece sarebbe successo lo stesso, la
rabbia avrebbe comunque avuto la meglio.
Fatto sta che,
davanti agli occhi di tutti i parrocchiani, davanti a quelli del Signor Sindaco
e della dolce neo-mamma, Don Severino rovesciò l'intera ciotola dell'acqua santa
sul volto di quell'innocente. Lo stupore investì la platea, ma ben presto le
risate ebbero il sopravvento: anche oggi l'asino aveva dato spettacolo.
Don Severino voltò
le spalle a tutti e rientrò in sacrestia, maledicendo il proprio impeto o,
forse, quegli ignoranti senza rispetto.
Sicuramente il
perdono non era il suo punto forte.
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