A Thousand Years

di Valeriagp
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Era un giorno come qualsiasi altro. Merlin era in Metro, andava a lavoro. I suoi viaggi erano sempre uguali, noiosi, banali. Nulla lo stimolava più.


Trovava sollievo solo nei suoi ricordi: di questa vita, dell’andare a scuola e laurearsi e lavorare; e di una delle sue altre vite, del passare la sua infanzia a giocare con Will, coccolato da lui e sua madre ma scansato da tutti come “strano”. Della sua solitudine in questa alienante città, e della sua solitudine in tutte le sue vite precedenti in cui si era sempre isolato dagli altri, non lasciando più entrare nessuno nel suo cuore.


I suoi ricordi avevano sempre molteplici aspetti: l’odore del pane gli evocava il piacere di avere fra le mani una pagnotta calda di pane scuro, appena sfornata dal panettiere di Ealdor, e nel contempo gli faceva venire in mente il panettiere sotto casa, qui a Londra, e le prime ore del mattino, in cui l’odore del pane saliva verso il suo appartamento e gli faceva compagnia nelle sue notti insonni a pensare a quello che aveva perso, e dopo secoli non aveva ancora dimenticato.


Il suo Arthur... il suo amico, compagno di avventure, l’uomo a cui aveva giurato fedeltà e di cui aveva tradito la fiducia, non riuscendo a salvarlo quell’ultima volta.


Aveva pianto, dopo la sua morte. Pianto fino a non sentire più nulla dentro, divorato dal dolore e dalla mancanza dell’unica persona che aveva sempre avuto nel cuore.


Il vuoto nel suo petto, che si era aperto quel giorno a Camlann e non si era mai richiuso, era ormai una presenza costante nella sua vita. Lancinante, insopportabile dapprima, meno acuto e doloroso poi.

Eppure dopo tante vite, ancora gli mancava e lo cercava... cercava Arthur ogni momento, ogni ora, ogni anno di ogni vita. Non aveva mai completamente perso le speranze di rivederlo.


Nonostante tutto, Merlin aveva imparato a conviverci. Ogni volta che, in una nuova vita i suoi ricordi iniziavano ad affiorare, quando era bambino e a malapena capiva cosa gli succedesse, Merlin diventava consapevole della sua condanna: essere Emrys, ed essere immortale, e vivere di nuovo e di nuovo. In fondo lui era quello che era anche per tutto ciò che aveva esperito nelle sue tante vite, un saggio stregone millenario nel corpo di un giovane, che possedeva tutto il potere del mondo ma non poteva usarlo per l’unica cosa che gli interessava: rivedere Arthur.


Ormai si era rassegnato che non lo avrebbe mai rivisto, ed aveva imparato a convivere con questa consapevolezza; andava avanti con la sua vita, ed oggi, come ogni altro giorno, viaggiava in Metro per andare a lavoro, e guardava dal finestrino quello che la loro terra - quella che doveva essere la loro Albion - era diventata.


Un raggio di sole colpì il finestrino a cui Merlin era appoggiato, e invece delle macchine e dei negozi fuori dal treno, per un istante vide riflesso ciò che aveva dietro di sé.


Gli si mozzò il respiro.


Non poteva essere. Era impossibile che fosse lui. I suoi occhi e la sua immaginazione gli stavano giocando uno scherzo di cattivo gusto.


Ciò nonostante, non poté fare a meno di girarsi ed allungare una mano tremante verso l’uomo che era a pochi passi da lui, e con la voce spezzata sussurrò “S- Sire?”

Si sentiva uno stupido, non aveva mai parlato ad alta voce di tutto ciò, mai aveva osato esprimere davanti ad altri l’unico pensiero che gli riempiva la testa giorno e notte.


Quell’uomo rimase fermo, non si mosse, come se non lo avesse sentito. Merlin era sul punto di ritirare la mano e richiudersi nel dolore di essersi illuso, quando il treno si mosse e la sua mano sfiorò il braccio di quell’uomo: allora Arthur si girò, con un enorme sorriso sul volto.


E Merlin scoppiò a piangere.





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