Per chi non
ha letto
quello splendido, meraviglioso romanzo che è Il Maestro e
Margherita di
Bulkakov, i due nomi del titolo non significano nulla.
Perciò, una breve
spiegazione: un giorno uno scrittore geniale immaginò che
nella sua città,
Mosca, arrivasse il diavolo con tutta la sua corte, composta da un
interprete
dagli occhiali rotti, un demone zannuto e un gatto parlante di nome
Behemoth.
Il diavolo si celava giustamente sotto le vesti di Woland, professore e
stregone di magia nera. Suo scopo, trovare la strega che guidasse il
Gran
Sabba, la quale, tradizionalmente, doveva chiamarsi Margherita. E
così trovo
l'unica Margherita di Mosca, la vestì dei panni di strega,
la fece volare nuda
sui tetti e guidare il Gran Sabba, perchè il sangue era
già stato versato molte
volte sulla terra, e laddove era caduto crescono ora dei grappoli
d'uva. In
cambiò dei favori della donna, egli liberò il suo
amante e comagno, il Maestro,
rinchiuso in una clinica psichiatrica per aver sostenuto nel suo libro
su
Ponzio Pilato che Gesù Cristo era realmente esistito.
Ispirandomi liberamente e facendo galoppare la fantasia, eccovi il mio
Woland e
la mia Margherita.
Ginny Weasley aveva dodici
miseri anni
quando si svegliò nella Camera dei Segreti, mentre mani che
erano
pallidi ragni le sfioravano il viso.
La severa divisa
consumata nell’usura di due e più mani le
cominciava ad andare troppo
stretta, l’aveva detto alla mamma, ma ormai l’anno
era finito, ci
avrebbero pensato a fine agosto, ed intanto le gambe magre, due giunchi
acerbi che si allungavano inesorabili, quelle ginocchia spigolose,
giacevano scomposte sul pavimento di pietra grigia.
Ginny Weasley
non era bella, o almeno, non lo era ancora. Aveva un visino affilato,
le orecchie delicate e sporgenti, da elfo, un naso lungo spruzzato di
lentiggini, grandi occhi nocciola, timidi e sfuggenti e una dolce bocca
a cuore. Era una ranina languida, coi seni incipienti, un ossatura di
tessere di domino e riccioli rossi filtrati da un sole interiore, fermo
e caldo come pochi.
Era riservata, silenziosa, educata. Ingenua, malinconica, pallida.
E aveva un diario.
Un diario dalla copertina nera, vecchio cinquant’anni, dalle
pagine
bianche, ma lise, come se molte e nessuna mano le avessero sfogliate.
Quel diario era di Tom, e Tom era il suo migliore amico.
Con dolce premura l’aveva ascoltata innamorarsi, piangere,
ridere.
L’aveva consigliata, sostenuta, l’aveva portata nel
suo mondo, e
soffici fiocchi di neve erano caduti in un Hogwarts antica e lontana,
un ritratto in seppia.
E lì l’aveva visto, e per un attimo aveva
dimenticato Harry Potter.
Perché Tom era bello. E camminava sul lago ghiacciato, senza
scivolare,
lo sguardo assorto nel nulla. Si era tagliata un ricciolo rosso,
l’aveva nascosto tra quelle pagine bianche. E i suoi riccioli
sapevano
di margherite, con cui imbottiva i cuscini per dormire di sonni senza
sogni.
Aveva sofferto di insonnia, Ginny.
Aveva pensato di
tagliarsi le braccia con le forbicine da unghie, piccoli tagli regolari
e non troppo profondi, giusto per non sentire il male di dentro. Ma Tom
l’aveva salvata. Le aveva detto che era bella, che era
splendida, che
era una regina. Che Harry non la meritava. Aveva scritto di lui fino a
consumarsi le dita.
Ginny aprì gli occhi, e lo stupore le
impedì di urlare. Ci mise un po’ a mettere a
fuoco, la vista annebbiata
dal sonno, il ragazzo annebbiato dal tempo.
“Svegliati, piccola
Ginny, è tardi, devi andare a scuola.” Le
sussurrò Tom, inginocchiato
su di lei. Quella voce lontana, fredda e suadente come
l’argento, fu
come un colpo di pistola. Scattò in piedi, pronta a correre,
pronta a
vincere.
“Tom!” esclamò, cercando di tirarsi in
piedi, ma le gambe erano talmente indolenzite che ricadde per terra.
“Tom!” ripetè il giovane Lord Voldemort,
con scherno. Allungo una mano
opaca, impalpabile, forse per aiutarla ad alzarsi. Ancora sconvolta
dalla grazia feroce del suo sguardo e da quella voce estranea, Ginny
l’afferrò. Le parve strano poterla toccare. Tom
sembrò leggerle nel
pensiero.
“Vedi Ginny, tu mi tocchi, mi sfiori, mi senti, e un
banale essere umano non potrebbe farlo, tanto meno una ragazzina
insipida come te.” Ginny si sentì trafiggere il
cuore da un centinaio
di spilli “ ma tu sei pregna di me ed io di te, hai travasato
in me la
tua mente sciocca, la tua carne infantile,ed io ti ho donato briciole
del mio spirito, della mia essenza. Guarda le tue mani,
Ginevra.” E
quel nome infedele riecheggiò nella Camera dei Segreti, da
colonna a
colonna, risvegliando gli spiriti dell’Inghilterra.
Ginny si guardò le mani. Erano piccole, ben fatte. Bianche e
quasi trasparenti. Un gemito le sfuggì dalle labbra.
“Non preoccuparti, Ginevra, non è così
male quaggiù.” mormorò serio Tom
guardandola dall’alto. La sovrastava di qualche spanna, e sul
bel viso
aveva un espressione solenne, lontana.
“No!” Ginny parlò con voce isterica da
uccellino.
“Cosa, Ginny? Dolce, piccola Ginny, perché no? Non
saresti contenta di rimanere con me, di rimanere quaggiù per
sempre?”
“No!” Ginny urlò più forte,
stringendo i pugni, corse fino alla porta
serrata e vi battè le mani pallide e trasparenti.
“Aiuto! Aiutatemi!
RON! FRED, GEORGE! PERCY!” le sue urla non servivano a
sovrastare la
risata di Ridde.
“Non ti servirà urlare, Ginevra, non ti verrano a
cercare, nessuno si è mai preoccupato di te! Ginny,
Ginny…” cantilenò
davanti alla sua espressione terrorizzata. “ non piangere. So
essere un
coinquilino piacevole.”
“Harry mi salverà!”
piagnucolò Ginny, mentre gli occhi le si riempivano di
lacrime.
“Ma certo! Harry l’eroe, Harry Lancillotto! Si
è mai preoccupato per
te, Ginny? Ti ha mai guardato?” a grandi passi,
l’ombra le si avvicinò.
Ginny si schiacciò contro il muro, Tom le afferrò
i polsi con forza. “
Chi ti ascoltato? Chi ti ha guarita? Chi ti è stato accanto
pazientando
alle tue inutili chiacchiere? Io! IO!” Tom aveva alzato la
voce.
“Guardami, Ginny Weasley, tira fuori un po’ di
coraggio, dimostra di
non essere così inetta e debole, non lo sai che non bisogna
mai
abbassare lo sguardo?!” e dicendo questo le
afferrò il mento e le alzò
il viso, piantando il suo sguardo glaciale negli umidi occhi nocciola.
“Hai paura, Ginny? Non eravamo amici?”
sussurrò, storcendole i polsi,
facendole male. Ginny fissò quei terribili occhi neri,
venati di rosso.
Annuì.
“Brava, Ginny, cominci a capire come funziona. Si, eravamo
amici.” Tom la lasciò andare, fece una piroetta,
la guardò sorridendo
sincero, mentre lei scivolava lungo il muro.
“Tu eri così fragile!
In qualsiasi altra occasione non avrei esitato ad ucciderti. Gli esseri
deboli come te mi disgustano. Ma mi servono.” Tom
ridacchiò,
soddisfatto delle sue cattiverie.
“Credi ancora che il grande Harry Potter arriverà
a salvarti?” la interrogò con sarcasmo.
Ginny fece un sospiro, traballando si alzò in piedi.
“Io non sono debole. Harry mi salverà. O
altrimenti, mi salverò da
sola.” sibilò tali parole con rabbia e paura,
cercando e frugando
dentro di sé, incapace di capire da dove venissero fuori.
“Io mi fidavo di te.” aggiunse, ricacciando
indietro le lacrime.
Tom scoppiò a ridere.
“Ti salverai da sola? Tu ti salverai da sola? E come
sentiamo, cercando di commuovermi? Harry ti salverà? Ti
salverà da me?”
“Ha ucciso Tu-Sai-Chi, non vedo come non possa uccidere anche
a te!”
Ginny fece un passo in avanti, sfidandolo con lo sguardo. Non sentiva
più il bisogno di piangere, non aveva più paura.
Il viso di Tom sembrò
sbiancare, se era possibile far impallidire un ricordo, e Ginny
capì di
aver trovato la ferita.
“Ha ucciso Tu-Sai-Chi?” Tom scandì le
parole, estraendo la bacchetta. “Ne sei sicura?”
Ginny non indietreggiò di un passo.
“Certo.”
Tom le puntò la bacchetta contro e forze invisibili la
attrassero contro di lui. Ginny tentò di resistere,
inutilmente.
Si trovò a qualche centimetro da lui in un batter
d’occhio, e sentì le
sue mani gelide sul collo, tra i capelli, e sentì la sua
anima dentro
di lui. Il suo sguardo era vivo, più vivo del mare, di
carbone ardente,
pieno di rabbia, pena ed orrore. Ginny voleva obliarsi in quello
sguardo, e la paura scemò via come un vestito vecchio, come
una divisa
da buttare.
“Ora ti pentirai di esserti innamorata di me,
Ginevra.” mormorò Tom, e fiamme ultraterrene
danzavano nei suoi occhi.
La baciò.
E Ginny vide ogni cosa. Vide l’orfanotrofio squallido e
asettico, i
bambini negli stracci grigi e logori, vide piccoli volti pieni di paura
e terrore, e un coniglio impiccato ciondolare dalla trave di un
soffitto. Vide l’abbandono, la solitudine,
l’avidità di sapere. Vide
una grotta e magia primordiale, vide Hogwarts, immutata, dolce,
accogliente, si sentì a casa, vide professori ammirati,
coetanei avidi
e invidiosi, vide che aveva potere e poteva sfruttarlo. Vide le proprie
mani cambiare, allungarsi, divenire pallidi ragni, agguantare segreti,
vide uccidere e gioì dell’aver ucciso. E vide un
nome, scritto e
riscritto in prove infinite, un nome solenne, famoso e terribile. E
vide lei, lei in quella stanza, stesa per terra, dalle gambe magre come
giunchi, ma in fiore, non bella, ma prossima a diventarlo, fresca,
pulita, pallida e ardente.
Ginny respiro forte, libera dall’incantesimo, portandosi una
mano alla bocca.
“Ne sei sicura, Ginny?” ripetè Tom
Orvoloson Ridde, riponendo la lunga bacchetta nelle proprie tasche.
“Tu…”
“Io.” Ginny sentì le gambe cedere, si
sentì cadere nel blu infinito, e mani bianche la sostennero.
“Ginny, Ginny Weasley, qualsiasi cosa accadrà,
qualsiasi cosa vorrai
che accade, ora, tra cent’anni, in questo corpo o in un
altro, tu sarai
mia. Mi apparterrai, e mi servirai, mi custodirai, perché
hai mio
ricordo, mia forza, mia coscienza, mi manterrai vivo, ed io
parlerò e
vivrò per la tua bocca ed il tuo cuore. Tu non hai il mio
marchio sulla
pelle, ma l’hai nell’anima, ed esso è
indelebile, eterno. E ucciderò
con le tue mani e abbraccerò con le tue braccia.”
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