Produzione di allucinogeni Esther Duncan: Three Hundred Thousand.

di Gatto Magro
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Capitano, ti scrivo una lettera perché non ho altro da fare, qui al buio.
Capitano, scusa se le parole si mescolano e cambiano di riga senz’ordine, so quanto non sopporti che gli oggetti non siano in ordine, e allora guarda le parole come se non fossero affatto oggetti, immagina che ci sia io davanti a te che parlo e mi si mescolino fra labbra e lingua per l’emozione e la fretta. Scusa per il carboncino che sbava e la polvere nera che se ne va dove vuole: al buio non la vedo Capitano, non posso neanche sgridarla per farmi rispettare un po’. E così è dappertutto sul foglio e sulle mani; forse è anche colpa mia perché sto tremando, Capitano.
Stai cominciando a capire, tu; io sto cominciando a diventare vecchio. Senza il sole si appassisce, te lo raccontava sempre Fabula e ti piaceva ascoltare le sue storie quando ci fermavamo la notte e accendevamo il fuoco. Io sono appassito fra la polvere e la roccia: se mi tocco non capisco a chi appartiene, ora, il mio corpo. Dove finisce la pelle piagata e inizia la screpolata roccia, e se quello che mi rimane fra le dita, quello che respiro, sia polvere o siano i miei capelli. Non fanno che cadere, Capitano.
Non mi ricordo più il loro colore, ma mi ricordo quello dei tuoi.
Di te ricordo tutto. Con la cera che mi avevi infilato nelle orecchie ho modellato il tuo viso finché il sale non l’ha sciolta; allora ho cercato di scolpirlo sulla roccia, con le unghie.
Capitano, se pensi a me pensami in piedi, perché io non riesco più ad alzarmi. Ho dimenticato dove siano i miei piedi, o forse non li ho più, si sono trasformati in pesci e sono sguazzati fuori. Pensami dritto e non con le ossa spezzate.
Capitano, io a volte ti odio. La mia tomba di ossigeno sul fondo del mare avrebbe dovuto essere tua, ma non ti meritava. Non ti meritavano le alghe viscide, la gola scura in cui sono rimasto chiuso. Ma se fosse stata piena di conchiglie rosa, di sirene dai capelli verdi e di busti d’oro, Capitano, tu ci saresti morto in pace.
Capitano, è la mia ultima lettera.
Stanotte saranno sorte cinque lune da quello strano giorno, e la grotta si riempirà d’acqua. Ho paura, ma tu non averne: credo che sarà bellissimo, come tornare a respirare, e il mio corpo sarà pulito e svuotato, si nuovo corpo, di nuovo carne e acqua e sangue, forse. Nuoterò fuori da esso fino in superficie, fino ai nostri porti, e mi arrampicherò sulla scogliera e le rocce non mi mozzeranno le dita, spargerò il sale alle radici del tuoi fichi e farò fiorire i papaveri.
Capitano, poi verrò a prenderti.

 

Levante





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