Artemisia [Something To
Do]
L'uomo seduto sulla panchina aveva
la faccia di chi sapeva tutto e non voleva nulla, tipica di
quando si perde coscienza di sé con lentezza. Non lo avvicinai, bensì
rimasi qualche minuto a fissarlo; avvolto da una strana aura di desolazione e
sgomento - un'aura vecchia, ormai logora, che tornava indietro come solo i
fantasmi potevano fare - non si mosse di un solo millimetro per tutto il tempo
in cui lo guardai.
A ben osservarlo, ci si poteva
rendere conto di come, per quanto cercasse di dissimulare con alcune smorfie
insistenti, la sua espressione fosse nulla, rintanata
sotto la pelle. Gli occhi, d'una tonalità straordinariamente scura, fissavano
un punto imprecisato della via, e la piega della bocca, dopo alcuni tentativi
infruttuosi, era tornata piatta come una linea retta di unica
perfezione.
Decisi di sedermi accanto a lui.
Lo confesso, ero mossa sia da uno strano sentimento di
pietà, sia da un'inarrestabile curiosità. E poi le
gambe mi facevano male, e quella era l'unica panchina del raggio di tutto
l'isolato. L'Uomo Senza Espressione, come lo rinominai affettuosamente tra me e
me, avrebbe dovuto sopportare la mia presenza per un poco.
Così, mi accasciai sulla panchina.
Forse dire "accasciai" è poco appropriato e non si confà ad una
signorina come me, ma poco male, fu proprio quello che
feci: mi accasciai. Perché avevo corso per almeno sei
miglia, e i miei polmoni bruciavano ad ogni respiro. Non mi sedetti compostamente, anzi, buttai la testa all'indietro, tendendo
il collo, mugolando lievemente mentre la tensione si scioglieva disperdendosi
nella mia mente. Il cielo era azzurro, quella mattina, e si prospettava
l'innumerevole giornata soleggiata dell'estate: l'avrei passata a boccheggiare
distesa sul divano guardando la tv, o leggendo un libro.
Leggendo un libro, decisi. La notte prima mi ero addormentata a quaranta pagine dalla
fine del libro, incapace di tenere gli occhi aperti per un solo istante di più.
Avrei dovuto finirlo, o sarei stata arsa dalla curiosità in breve tempo.
D'altra parte, quaranta pagine non occupavano di certo l'intero pomeriggio. Leggendo un libro prima,
e poi guardando la tv, buttai lì come annotazione mentale.
L'Uomo Senza Espressione, fedele
al suo soprannome, non mosse ciglio di fronte a tanto movimento al suo fianco:
non mi dedicò nemmeno un'occhiata. Non un attimo spostò i
suoi occhi su di me, non un istante si fece distrarre dal mio ansare, o
dal lieve suono della mia voce. Aveva ancora le mani poggiate mollemente - come
prive di vita - sulle gambe, le dita semichiuse, il palmo appena visibile.
Pensai alla corolla di un fiore che si schiude alla
mattina, ma poi giudicai troppo vivo
il paragone, e lo accantonai. Tornai a vedere le sue mani come mani. Non che mi dispiacesse, erano
belle mani, delicate e affusolate, appena mordicchiate dalla vecchiaia. C'era
un neo elegante sul mignolo destro. Lo trovai estremamente
sensuale.
Decisi d'istinto
che doveva avere un bel nome altisonante, fatto per essere ascoltato ed
apprezzato durante le presentazioni private, un nome che ti colpiva e che ti
lasciava a boccheggiare, un nome che permetteva al ricordo del suo viso
d'arrivare prepotentemente alla tua mente.
Perché il suo, era indubbiamente un viso bello. Non bello perché piano, liscio, ma
tutto al contrario: i tratti erano marcati, il naso
significativo, persino gli occhi, leggermente sporgenti, gli conferivano
un'espressione sempre attenta. Ad una prima espressione, il suo volto sembrava
un volto quasi grifagno, stemperato solo dalla
morbidezza delle labbra.
E invece adesso se ne stava lì,
immobile, cercando d'apparire invisibile al mondo, mentre ogni cellula del suo
corpo urlava disperatamente per emergere, per far sì che occhi e menti e cuori
si ricordassero di lui. Non sapevo perché lo stesse
facendo, o per chi.
Ma non ero mai stata una persona
prudente, e tremavo per il desiderio di conoscere la sua storia. Una storia
tormentata, senza dubbi.
« Non credo sia la strategia
giusta. »
Gli ci volle un attimo per capire
che stavo parlando proprio lui. D'altra parte, credo sia l'ultima cosa che ti aspetti, quando sei imbambolato su una panchina da
chissà quanto tempo - da quanto tempo è
qui?, mi chiesi all'improvviso capendo che non lo sapevo affatto. L'arrivo
di una ragazzina sconvolge sempre i piani, certo, ma i suoi sembravano
particolarmente distrutti, in quel
momento. Gli sorrisi, incoraggiante.
« Come, scusi? » disse con voce
flebile. Pensai che anche la voce era una voce
importante, se non mascherata. In realtà era troppo vibrante per i miei gusti, ma
conoscevo persone che non avrebbero saputo resisterle.
« Intendo, il suo tentativo
d'apparire invisibile. Non è seguito da una giusta strategia. Io, per esempio,
l'ho smascherata subito. » cantilenai, e lui, improvvisamente, sorrise.
Sorrise e rimase senza
espressione, contemporaneamente. Non mi chiesi come fosse possibile una cosa
del genere, né cercai di ragionarci a casa, e nemmeno gli anni seguenti.
Semplicemente, l'aveva fatto. Aveva lasciato correre le labbra, ma aveva tenuto
il resto. Era una cosa orribile.
« E
saprebbe anche dirmi perché, signorina? »
« Beh », tentennai, cercando un
modo elegante per esprimere quello che avrei voluto dirgli l'istante dopo
averlo conosciuto, a bruciapelo. « stavo semplicemente osservando il suo modo
di stare seduto, la piega del mento. E' come se ci fosse una contraddizione
interna, dentro di lei, per cui la sua mente vuole
rendersi invisibile, mentre il suo corpo trema per farsi notare. E questo la fa risaltare ancora di più. E' come se si
cercasse di rendere meno sensuale una donna nuda coprendola con un francobollo,
credo. » ridacchiai.
« Così, pare che non stia
particolarmente riuscendo nel mio intento. »
« No, non credo. »
« D'altra parte », osservò lui «
se ti faccio venire in mente una donna nuda con un francobollo, devo proprio
essere inconsapevole di me stesso. »
Sì,
pensai. È esattamente quello che sembrava, inconsapevole di sé, privo di
qualunque ricordo in cui si era guardato allo specchio, e vi aveva visto
riflesso un bell'uomo, dallo sguardo scuro estremamente volitivo. A quanto pare, per quanto inadeguato,
il paragone aveva portato entrambi sul crinale del discorso, sul precipizio del non ritorno.
Avrei osato andare avanti? Non
sapevo quanto volessi inoltrarmi nella foresta dei
suoi pensieri, e nemmeno quanto lui me l'avrebbe permesso. Però, quel sorriso
insieme al niente, gli occhi scuri, la piega delle
labbra. Tutto sembrava pronto a raccontare qualcosa.
« Senza dubbio, signor… »
« Marlowe,
solo Marlowe. » era un nome importante.
« Marlowe,
non è la giusta strategia. » concessi. Così, l'Uomo Senza Espressione aveva un
nome perfetto per lui. Ma il viso continuava ad essere
piatto, e dentro di me preferii rimanere fedele al nomignolo che avevo creato.
Mi sorrise ancora. E
non cambiò nulla.
« E' sicuro di stare bene, Marlowe? » mi rigirai il suo nome tra le labbra, tenendolo
fra i miei denti bianchi ed acuminati. Un nome importante per
una persona invisibile, un nome pesante quasi quanto la storia che nascondeva
dietro all'espressione vuota. Era stata una domanda azzardata? Forse, ma
mi parve abbastanza generica da poter sembrare spontanea. In un certo senso lo
era, spontanea: la mia curiosità,
perlomeno.
« No, non credo. Dorothy è morta. Non penso di poter star bene, adesso.
Morta, capisci? Venti anni fa. »
Annuii perché avevo capito il
concetto fondamentale. Era morta una donna, e questo fatto gli procurava un
dolore che andava oltre l'immaginabile. Ma chi era, Dorothy? Un amante, una sorella, magari un'amica? La
moglie, forse? La invidiai, all'improvviso. Era stata capace di lasciare un
tale segno di sé, dentro quell'uomo. Un segno contro cui
probabilmente Marlowe avrebbe combattuto per tutta la
sua vita, cercando disperatamente di lasciarlo allo spalle, inutilmente.
Sì, la invidiai e la odiai,
insieme. Contemporaneamente. Vidi dentro di me il viso buio di Dorothy e immaginai di sfregiarlo con le mie unghie lunghe,
di morderlo coi denti. Poi, così com'era venuto, il
moto di passione che mi aveva attanagliato le viscere
scomparve. Ero sempre stata una persona impetuosa, e dunque non mi sorpresi
troppo per quello sfogo, che puntualmente m'ottenebrava i sensi almeno una
volta al giorno. D'altra parte, lo ritenevo un tratto
distintivo, e non avevo mai cercato di combatterlo. Molte volte, anzi, aveva
funto da sprone, da incitamento.
« Sì, capisco. » e lo dissi con convinzione, scostando il capo e distogliendo
lo sguardo per evitare che lui potesse sprofondare in me con quegli occhi così
scuri. Facevano quasi paura.
« No », rispose lui mesto « non
credo che tu capisca. »
Aveva capito che non avevo capito
e io stessa non capivo se la cosa mi procurasse
maggiormente piacere o rabbia. Feci un sorrisino strano, cercando di imitare
quello dell'Uomo Senza Espressione: non seppi mai se riuscii nell'impresa o
meno. Solo, vidi il volto di Marlowe raggelarsi
all'improvviso. Per il timore d'essersi scoperto? Per aver visto il mio viso?
Il perché lo capii solo in seguito.
« Marlowe,
mi chiamo Dorothea Brann, e permettimi di dire che un po' capisco, quando sento il mio nome associato
all'aggettivo "morta". Non sono io, non è un
membro della mia famiglia. Ma è il mio nome, capisci?
E' il mio nome, che è appena morto. »
Lui annuì lentamente, la testa
come immobilizzata assieme al collo. Per compiere quel semplice movimento
d'annuire, dovette piegare anche il busto. Altrimenti, sarebbe rimasto fermo
come una statua.
« Allora, Dorothea, ti basti
sapere che Dorothy era la mia ragazza, e che è morta,
quasi vent'anni fa, in un incendio. Lei aveva occhi
verdi come la foresta di primavera, e capelli scuri, lunghi. Ondeggiavano al
vento, quando erano sciolti sulle sue spalle. Proprio dei bei capelli bruni, i
suoi. L'amavo molto, sai, studiavamo insieme, parlavamo di libri e il mondo ci
pareva perfetto. »
« Finché lei non
è morta. »
dissi. E capii perché l'Uomo Senza Espressione si era
raggelato nell'osservarmi bene, poco prima. Io avevo capelli mori, lunghi, e
occhi verdi. Ridacchiai della mia scelta, del mio acume e della mia
intelligenza, che una volta in più avevano aiutato la
mia curiosità, appagandola.
Le eleganti mani dell'uomo si
stesero sul tessuto di fustagno dei suoi pantaloni. La mia attenzione fu
nuovamente richiamata da quel neo particolare, perfettamente disegnato, tondo,
una macchia d'inchiostro nel latte, sulla neve fresca. Che
poesia.
Lui fece cenno di sì con la testa.
« Fino a che non è morta, e io non riesco a trovare perdono per non esserle
stato vicino. »
« Di certo non è colpa tua! »
protestai, sfiorandogli una mano. « Che colpa ne hai?
Non si può sempre essere vicini alla persona che si ama. Anche
il mio ragazzo… »
Chinai la testa e versai qualche
lacrima sulle mie mani pallide, raggomitolandomi. La sensazione che avevo
cercato m'avvolse nel suo bozzolo dorato, cullandomi. Ripresi fiato,
spezzandolo a metà con un singulto. « Anche lui, è morto
mentre giocava. Ma l'ho sognato spesso, durante queste notti, e ogni
volta vedevo il suo volto sereno dirmi che non avrei
potuto fare niente. »
La mano destra di lui, quella adornata dal neo che tanto amavo, mi si poggiò sulle
spalle, gentilmente, come se il suo dolore fosse il mio, e insieme potessimo
opporgli una resistenza tale da annullarlo. Non fu così.
L'espressione dell'uomo rimase
ancora assente, concentrata ma contemporaneamente al di là
del mondo terreno. Non voleva ignorarmi, no.
Semplicemente non era capace di spostare la mente dall'idea di Dorothy morta, e dal fuoco, nonostante gli anni passati
fossero venti. Venti. Più della mia intera vita passata a ricordare una morta.
Marlowe non era più una
persona interessante, decisi. Era una persona molto interessante. E il mio stesso nome
m'imponeva di donargli quello che io non potevo avere.
Serenità.
« Però, Marlowe, credo che Dorothy non si
perdonerebbe mai, se ti vedesse così. So che può sembrare sciocco, però… »
« Lei non è mai comparsa nei miei
sogni. »
« Perché
sei tu che vuoi solo crogiolarti nel dolore, perché ti consideri colpevole, non
è così, Marlowe? » lui mi fissò. Per un attimo
temetti che mi avrebbe urlato di andare via, di correre lontano da lui, perché
ero solo una sciocca ragazzina impertinente che non sapeva cos'era la vita. E forse, in parte, avrebbe avuto ragione.
« Non è così. » disse solo,
invece, scuotendo la testa. « E' che non mi resta nulla. Solo dei libri. Li credevo immortali, beh, non lo sono. Sono sbiaditi,
Dorothea. »
Presi un sospiro e rimasi per un
attimo in silenzio. Non sapevo cosa controbattere. Non avevo frasi magiche da
tirare fuori dal cappello, di quelle che leggi nei
libri e che ti aprono il cuore all'improvviso, squarciando le tenebre della
notte. Non ne avevo. Nemmeno una minuscola,
insignificante parola. Perciò feci l'unica cosa che
sapevo fare bene.
Afferrai la mano dell'Uomo Senza
Espressione e lo costrinsi a fissarmi, anche con una certa malcelata rudezza. Quindi, presi un respiro e cominciai a recitare.
Mi ero immaginata una Dorothy tenera e dolce, ma anche capace di imporsi sulle
volontà altrui, quando era necessario. La vedevo davanti a me.
Dorothy, pensai, scusami se prima ti ho sfregiata, ma per
favore, recita insieme a me. E Dorothy iniziò a
sorridere, davanti ai miei occhi, e aveva davvero un sorriso perfetto, tanto
che sembrava fatto con uno spicchio di pesca appena matura. Però
negli occhi le leggevo la determinazione che volevo avere io, che io avevo
dipinto nei suoi occhi verdi.
« Marlowe.
» dissi cambiando tono di voce. « Compra nuovi libri, ricomincia a leggere, e
butta quel dannato anello, se lo senti troppo pesante. »
Vidi la sua espressione
inesistente sgretolarsi cellula dopo cellula,
centimetro dopo centimetro, fino a che dietro all'impalcatura non emerse un
viso stravolto dalla tristezza e dalla solitudine.
Presi un respiro. « E poi, smetti di amarmi. »
Gli sfiorai il capo con una mano,
alzandomi in un movimento fluido e scorrevole, poiché non sentivo più alcun
male nelle gambe, nonostante la corsa mattutina. Recitai un sorriso dolce, un sorriso alla pesca
appena matura, e sussurrai un addio.
Poi corsi via,
tranquilla, apprestandomi a scoprire qual era il finale del mio libro.
Poi avrei iniziato a recitarlo. E forse avrei trovato
quella calma che non avevo mai avuto, così ridicolmente impressa in me a causa
del nome che mi era stato dato.
Artemisia.
Nel linguaggio dei fiori, vuol
dire serenità. Recitavo libri per me
stessa, e recitavo parti - mentivo - inventate per gli
altri, perché condividere la tranquillità era una cosa buona: e in fondo io non
ero una persona cattiva.
Nel finale del romanzo, la fanciulla coronava il suo sogno d'amore insieme al suo
fidanzato, e nonostante l'ondata di rabbia e di invidia mi sbattesse con forza
contro lo stomaco, riuscì ad essere contenta per lei. Con un ultimo pensiero
all'Uomo Senza Espressione, accesi la tv, dimenticandomi di tutto il resto.
Fine.
Allora!
Questa fanfiction,
che è la spin off di Ulisse,
splendida fanfiction di Artemisia89, è per
ringraziarla di qualcosa che lei ben conosce, e di cui, perciò, non mi
sprecherò a scrivere.
Prima
di tutto, chiarisco che, nonostante la mia protagonista si chiami Artemisia,
non è la stessa persona che conosco io. L'idea di usare il nome Artemisia mi
viene dall'aver trovato, su internet, il significato di questo fiore, che è per
l'appunto serenità.
Spero non vi aspettaste
cose particolarmente intelligenti: questa fanfiction
non vuole indagare i sentimenti di pena e di tristezza dell'uomo, ma solo
parlare di conforto.
Lo stesso (ma non solo) che mi è
stato gentilmente offerto per tutta la durata della mia vacanza in Germania, e
ben oltre.
Grazie ancora.
RoSs