I personaggi di Bones non mi appartengono e la storia è
stata scritta da Miss Bennet...io mi sono limitata a tradurla. Spero che vi
piaccia come è piaciuta a me!!!!
LA NUDA VERITÁ
Era piuttosto affollato quando attraversò l’ingresso della
luminosa stanza nella galleria Stardust. I muri erano bianchi, colorati solo
dai numerosi quadri che vi stavano appesi e dalle strane sedie poste nel mezzo
del salone.
Una telefonata ricevuta di mattina presto lo aveva spinto ad
uscire dalla sua zona di pace e lo aveva portato nell’unico posto dove aveva
giurato che non sarebbe tornato mai: Washington DC.
In piedi vicino alla porta, si prese il suo tempo per
analizzare le persone all’interno della galleria. Così tante forme, razze e
colori.
Non importava il loro aspetto, tutti si mescolavano. In
gruppi separati o soli, tutti sembravano divertirsi, persi nella conversazione
o nell’arte.
Vedendo tutto questo, Booth non poté fermare l’orgoglio che
andava gonfiandosi nel suo petto. Si era davvero ricomposta ed era riuscita ad
andare avanti.
Aggirandosi tra la folla, si ritrovò ad ammirare il suo
lavoro. I colori e le pennellate sempre forti e le distinte sagome di persone
irriconoscibili. Come sempre, attraverso il suo lavoro, lui riusciva
addirittura a toccare il familiare dolore che ne era emanato. Riusciva sempre a
sentire quel dolore anche dentro di sé, come lei riusciva sempre a percepire il
suo tormento.
Non appena un gruppo davanti a lui si divise, la vide.
Stava in piedi vicino a una donnina minuscola e vestiva nel
suo stile unico.
La guardò mentre parlava poco, cercando di sfuggire alla
compagnia. Sorrise, pensando al modo in cui era cambiata riuscendo, però, ad
apparire sempre la stessa.
Aveva gli stessi capelli, ora leggermente più lunghi, la
stessa carnagione ma per chi la conosceva
bene, il modo in cui i suoi occhi brillavano era terribilmente diverso.
Erano tristi, ora.
Sì, perché le sue labbra potevano ancora sorridere ma i suoi
occhi non ci riuscivano più.
Booth si allontanò, decidendo di lasciare che venisse lei da
lui, quando fosse stata pronta. Tutto il tempo trascorso separati li aveva
allontanati e ora voleva muoversi con cautela, per non rischiare di turbarla.
Lei aveva fatto la prima mossa, chiamandolo, e lui l’avrebbe
lasciata agire secondo il suo ritmo.
Camminando tra i gruppi, guardava distrattamente i dipinti
appesi alle pareti, resistendo al bisogno di toccare le tele.
Oltrepassando un ragazzo molto fastidioso che parlava in
modo saccente di qualcosa che lui non capiva e di cui nemmeno gli importava,
incappò in un particolare pezzo che si sentì costretto ad osservare più da
vicino.
Non appena si trovò faccia a faccia con esso, il suo cuore
inizio a battergli forte nel petto. Di fronte a lui non c’era un dipinto ma una
grande fotografia in bianco e nero.
Poteva vedere la chiara forma di un uomo, il quale dava la
schiena al fotografo, in modo che il suo viso risultasse nascosto. Di fronte
all’uomo c’era una lapide ma il nome era oscurato per proteggere il luogo di
sepoltura del defunto.
Nella mano dell’uomo c’era una sola rosa e i suoi petali
scarlatti erano l’unica parte colorata della fotografia.
Non aveva bisogno che qualcuno gli dicesse chi era l’uomo.
Sarebbe stato in grado di riconoscere se stesso ovunque.
Sotto alla fotografia era appesa una targhetta. Il nome di
questa particolare opera era “Dolore”.
Adatto, pensò.
Non conosceva niente di peggio di quello che aveva
sperimentato davanti a quella fredda lastra di marmo.
Sentendosi sopraffatto, decise di rinfrescarsi e si trascinò
sulla strada per il bagno. Con sollievo, si ritrovò da solo nella stanza.
Guardandosi allo specchio, contemplò i cambiamenti del
proprio volto. Era ancora giovane ma le borse scure sotto ai suoi occhi e le
piccole linee che tagliavano la sua un tempo liscia carnagione dicevano il
contrario.
Sembrava vecchio, distrutto.
Il suo aspetto esteriore rifletteva il suo essere interiore.
ERA effettivamente
distrutto; dalla vita e dal destino.
Spruzzandosi un po’ d’acqua in faccia, incontrò un paio di
occhi curiosi nello specchio.
Lei era lì, lo guardava con quei suoi scintillanti occhi blu
attraverso il riflesso. Le sue labbra si curvarono in un sorriso. Era una
visione di pura innocenza che lui conosceva fin troppo bene.
Braccato giorno e notte, quell’immagine non lo lasciava in
pace, ben noto fantasma in cerca di attenzione.
Piegò la testa e sbatté rapidamente le palpebre; quindi
riaprì gli occhi, per ritrovarsi nuovamente solo nella stanza.
Questo è invecchiare, pensò.
Uscendo dal bagno, fece del suo meglio per non sembrare
triste.
Mescolandosi con gli altri nella sala affollata, si ritrovò
a guardare la propria schiena in bianco e nero.
Non ricordava che giorno era stato.
Era semplicemente uguale a tutti i giorni trascorsi
rimirando quelle lettere argentate.
Passando un poco oltre, rimase meravigliato dal pezzo
successivo.
Un’altra fotografia ma questa volta non si trattava di lui.
Era una donna.
Dava la schiena alla macchina fotografica e il suo viso era
rivolto all’obbiettivo.
La sua schiena era nuda, completamente spogliata e si
mostrava fino al livello dell’osso sacro. La parte inferiore era coperta da un
lenzuolo avvolto intorno ai suoi fianchi.
I capelli le cadevano ondulati sulla schiena ma era il volto
ciò che aveva attirato l’attenzione di Booth.
Con gli occhi così fissi sul fotografo, si vedeva
chiaramente che stava piangendo.
Le lacrime correvano liberamente giù per le sue guance e
l’emozione che sprigionava era palpabile.
Stava soffrendo per qualcosa.
Come nell’altra fotografia, c’era una sola parte colorata: i
suoi occhi, di una profonda sfumatura di blu.
“Ti piace? Una voce arrivò da dietro di lui.
Si voltò, per essere accolto dallo sguardo caloroso di
Angela Montenegro.
“E’...” Non riusciva a trovare le parole.
Che cos’era?
“Per favore, non dire bella.” Disse lei con tono serio.
Bella.
La donna nella foto lo era di certo ma che dire del suo
dolore?
Anche quello era bello?
“No, non c’è niente di bello nel dolore. La parola che stavo
cercando è...reale.” Era questo che pensava.
L’immagine mostrava la realtà.
Era nuda, spogliata fin nella sua anima, senza vergogna nei
suoi veri colori, nella sua cruda emozione.
Era il suo dolore ad averla lasciata così, frantumata in
mille pezzi.
“Chiunque guardi questa foto dice che è dolorosamente bella.
Ipocriti. Non sanno niente del dolore, altrimenti vedrebbero la verità;
vedrebbero la mia verità, nascosta nei suoi occhi. La ragione per cui ho
esposto solo queste due fotografie è che non sono riuscita a trovare la verità
in nessun’altra. Ecco perché questo pezzo si chiama ‘La Nuda Verità’.”
Booth poteva vedere che era arrabbiata. Odiava quando le
altre persone fingevano di capire la sua perdita come la capiva lui.
“Mi è piaciuta molto la tua mostra, Angela. Non capisco
molto di arte ma sembra che tutti si stiano divertendo.”
“Sì. Sai cosa è ironico?” Chiese lei, guardandosi intorno.
“L’unico lavoro che non vendo è quello che riceve le offerte più alte.” Disse,
sorridendogli.
“La sua foto?” Chiese lui.
“Sì, la sua foto. Anche la tua.”
“Grazie, a proposito. Per non aver rivelato che sono io.
Davvero non avevo voglia di essere sommerso di domande.” Disse lui, con un
sorriso, portando gli occhi di nuovo sulla fotografia.
“Non lo avrei mai fatto. Tu hai la tua vita privata.” Disse,
lei, comprensivamente. “Ti ho mai detto quando è stata scattata questa
fotografia?” Chiese con una piccola risata.
“No, mai.”Rispose lui.
“Stavo preparando la mostra e avevo un sacco di materiale su
cui lavorare ma volevo comunque che Brennan posasse per me. Ho sempre pensato
che fosse fotogenica ma lei era irremovibile.” Angela sorrise, ripensando ai
molti momenti condivisi con la sua migliore amica. “Così ho dovuto usare il mio
vecchio fascino e dirle che avrebbe semplicemente fatto un enorme favore alla
sua più grande amica.”
“Non avrei mai pensato che si sarebbe lasciata fare uno
scatto nuda.” Disse Booth, sorridendo.
“Non era molto felice di farlo ma riuscii a convincerla,
dopo ore di proteste e minacce” Mentre si voltava verso la fotografia, il volto
di Angela assunse un’aria nostalgica. “Scherzai, dicendo che ti avrei dato una
copia della foto e lei protestò. Era davvero divertente.”
“Posso immaginarlo.” Disse Booth, provando a ricordare i,
suono della sua risata. Era un suono veramente
delizioso per le sue orecchie ma il tempo passava e la sua memoria stava
cominciando ad oscurarsi.
“Sì, ma quel giorno non andò
come avevo programmato. Durante la seduta fotografica ci fu quella
telefonata...”
“Avanti, Brennan! Dammi emozioni, dammi qualcosa con cui
lavorare.” Disse Angela, maneggiando la macchina fotografica.
“Non so come, non ho mai fatto una cosa del genere
prima.” Disse Brenna, usando le braccia per coprirsi il seno, improvvisamente
conscia della propria nudità.
“E’ facile, Brennan. Sei nuda di fronte all’uomo che
desideri. Mostrami semplicemente quanto lo vuoi.” Disse Angela, sistemando
l’obbiettivo. “pensa a Booth.”
Si abbassò appena in tempo per evitare il cuscino
lanciato nella sua direzione.
“Ange!” Esclamò Brennan, imbarazzata, arrossendo
visibilmente.
“Hai visto, ha funzionato! Adesso devi solo mantenere
quest’aspetto. Voglio emozioni.” Angela continuò a scattare, finché il forte
suono di un cellulare riecheggiò nella stanza.
“Non adesso!” Disse, appoggiando la macchina fotografica
sul tavolo e recuperò l’oggetto, passandolo a Brennan.
“Ma rimani così.”Avvisò Angela, prima che l’amica
rispondesse.
“Brennan.” Salutò lei, come al solito, quasi sperando che
fosse Booth che la chiamava per parlare di un caso.
Tuttavia, mentre la conversazione andava avanti, Angela
si rese conto che Brennan non stava parlando, ascoltava soltanto. Guardò la sua
migliore amica chiudere la telefonata e aspettò che si voltasse e le dicesse
cosa era successo ma lei rimase ferma.
“Bren, tesoro, cosa è successo?” Chiese Angela con il suo
tono più dolce e preoccupato.
Stava per ripetere la domanda, quando Brennan girò la
testa e il fiato dell’artista le morì in gola.
Le lacrime scendevano liberamente lungo il suo volto e
nei suoi occhi si vedeva chiara l’ombra del dolore.
“Fammi quelle foto, Angela.” Disse Brennan, con voce
forte ma calma.
“Ma Bren....”
“Fai quella fotografia.” Ripeté Brennan un po’ più forte.
Angela conosceva la sua amica e sapeva che non aveva
senso litigare con lei. Così scattò le fotografie, scioccata e affascinata allo
stesso tempo dalla cruda emozione che nuotava nei suoi profondi occhi blu.
“Ero così confusa. Non mi disse che cosa aveva saputo al
telefono finché non ebbi finito di scattare.” Disse Angela, guardando i
profondi occhi blu di Brennan.
“Me lo disse solamente quando iniziò a fare i preparativi
per il funerale, il giorno prima che la Scientifica rilasciasse i suoi resti.”
“Non è giusto, sai?” Disse Angela, la voce che ora tremava
un po’. “Non è stato giusto per Russ né per Brennan.”
“Lo so.” Disse piano Booth.
Brennan guardò i pezzi dello
scheletro che giacevano davanti a lei.
I suoi occhi non mettevano a fuoco, per quanto lei si concentrasse nel
cercare di metterli insieme
.Li guardava ma non li vedeva.
La sua mente era da un’altra
parte.
Stava pensando che quel giorno
avrebbe messo suo fratello sei piedi sotto terra. Il suo unico fratello sarebbe
diventato uno degli scheletri che lei studiava con tanta dedizione.
Quel pensiero da solo era capace
di provocarle un acuto dolore alla bocca dello stomaco.
Angela osservava la sua migliore
amica combattere le sue emozioni, cercare di mantenere un certo contegno.
“Come sta?” Chiese Jack, accanto
a lei.
“E’ Brennan.” Rispose
semplicemente, come se fosse una spiegazione sufficiente.
Nessuno notò l’uomo attraversare
le porte di vetro del laboratorio di medicina legale.
Non lo videro mai estrarre la
pistola dal cappotto e la loro attenzione tornò a concentrarsi sull’antropologa
solo quando il forte rumore degli allarmi riecheggiò per tutto il laboratorio.
Distratta, Brennan non ebbe il
tempo di reagire, quando si voltò per vedere che cosa aveva fatto scattare
l’allarme.
L’ultima cosa che vide fu la
canna della pistola, mentre tutto cominciava a girare e sentì il tavolo dietro
di sé, mentre il suo corpo sussultava per la forza dei proiettili che le
perforavano la pelle.
Le ginocchia cedettero sotto al
suo peso e sentì il proprio corpo scivolare sul pavimento freddo.
L’ultima cosa che sentì furono
le grida provenienti dalla sua migliore amica, mentre il mondo intero spariva.
Tutto accadde al rallentatore e
Angela vide la sua amica cadere a terra.
Non notò che la guardia di
sicurezza aveva sparato all’uomo e non sentì più neppure l’allarme.
Corse da Brennan e la donna
sanguinante di fronte a lei era tutto ciò che poteva vedere.
Gridò il suo nome, scuotendola,
pregandola di svegliarsi ma i suoi occhi rimasero chiusi e la pozza di liquido
scarlatto continuò a crescere sotto di lei.
“Non ci siamo mai dette addio.”
Disse Angela, cacciando indietro la voglia di piangere.
“Non, non l’abbiamo mai fatto.”
Disse Booth, abbassando il capo per nascondere gli occhi pieni di lacrime. “E
lei non ha mai saputo quanto significasse per me, quanto l’amavo.”
Angela si avvicinò a Booth, gli
occhi puntati su di lui.
“Lo sogno ancora, sai?” Disse,
portandosi u ciuffo di capelli neri dietro all’orecchio. “Le persone mi dicono
di lasciarla andare, di dimenticarla. Ma come posso dimenticare, quando mi
sveglio alle tre del mattino per un incubo sulla morte della mia migliore
amica?”
“Lo sogno anche io.” Disse Booth,
con un sorriso comprensivo.
“Ma sono io quella che ha visto
tutto. E io ricordo ancora l’odore del sangue mentre scorreva fuori dal suo
corpo e il sentore della sua pelle fredda o il pallore del suo volto, mentre la
vita la abbandonava.” Disse Angela, mentre una lacrima scivolava per tutta la
lunghezza della sua guancia. “Jack è grande ed è un ottimo supporto ma non sa
cosa sia sentire correre via la vita di qualcuno che ami. Ci prova, lo sai, mi
sostiene con la mia arte e io lo amo davvero per questo.”
“Quindi tornerai mai al
Jeffersonian?” Chiese Booth.
“E tu tornerai mai a Washington?”
Ritorse Angela.
“No.” Rispose Booth.
“Nemmeno io. Non riesco nemmeno a
entrare nel museo senza pensare a lei. E’ troppo per me. Dipingere è
un’alternativa migliore.” Disse Angela. “E’ per lo meno meglio di tagliare le
tele.”
Hai tagliato le tue tele?” Chiese
Booth.
“Tutte quelle che avevo nel mio
ufficio il giorno dopo il suo funerale.” Rispose Angela.
“Io ho picchiato ripetutamente il
mio specchio e anche tre reporter che volevano un’intervista.”
Disse Booth.
“Immagino che abbiamo sofferto allo stesso modo. Tu per la perdita di un
amore, io per quella di una sorella e di un’amica.” Disse Angela, riportando
gli occhi sulla figura davanti a lei.
Booth rimase in silenzio per un
minuto, contemplando qualcosa nella sua mente.
“la vedo ancora.” Disse, ottenendo
l’immediata attenzione di Angela. “Dietro di me in uno specchio, nelle ombre
della notte, nel riflesso di una finestra di vetro, la vedo sempre che mi
sorride.”
“Vorrei succedesse a me.” Disse
Angela, nei suoi occhi nuove lacrime silenziose. “Qualche volta tutto ciò che
desidero è poterla rivedere.”
Entrambi si concentrarono sulla
foto per un po’, continuando ad ignorare la gente intorno a loro.
“Ho ricevuto un pacco ieri.” Disse
Booth.
“Da chi?” Chiese Angela.
“Da Max. Doveva essermi consegnato
nel caso lei fosse morta. La persona che lo ha mandato, probabilmente ha saputo
della sua morte solo ora.”
“Cosa c’era nel pacco?”
“Tutto ciò che ha potuto trovare
sulle persone che hanno ucciso la sua famiglia. Indirizzi, foto, documenti.”
“Ma perché lo ha mandato a te?”
Chiese Angela, confusa.
“Voleva che io finissi ciò che lui
ha iniziato.”
Booth entrò nell’atrio dl
Jeffersonian per la prima volta dopo la sua morte, due giorni prima.
Con lo scopo di raccogliere i
suoi effetti personali rimasti in ufficio, camminò attraverso il laboratorio
silenzioso.
Sopra di lui, la notte scura si
era portata via il giorno ma le stelle rifiutavano di brillare, si
nascondevano.
Lasciando che i suoi occhi si
posassero sulla piattaforma, sentì un dolore al cuore, pensando di non vederla
mai più concentrata su un gruppo di resti.
Se n’era andata e questa
dolorosa verità bastava a metterlo in ginocchio.
Entrando nel suo ufficio, fu
assalito dal sentore di vaniglia del suo profumo che aleggiava ancora
nell’aria.
Al di là della scrivania, si
fermò davanti al gancio dove il suo camice era stato dimenticato. Prendendolo,
passò oltre e si sistemò sulla sedia che lei aveva occupato.
Sulla scrivania, cominciò a
radunare i suoi oggetti. Il maiale giocattolo Jasper, il portatile, il suo
ultimo manoscritto ancora senza dedica e alcune foto incorniciate di lei, i
suoi assistenti e lui.
Dopo aver messo tutto in una
piccola scatola che si era portato, si lasciò andare contro lo schienale della
sedia, permettendo alle immagini di lei di scorrere nella sua mente.
“Salve, agente Booth.” Disse una
voce dall’ombra, facendo trasalire Booth. Solo allora realizzò di non essere
solo.
“Chi c’è?” Chiese.
“Max Keenan.” Non appena ebbe pronunciato il proprio nome,
uscì dall’ombra. A Booth non sembrò nemmeno lui, con scure borse sotto agli
occhi, pelle pallida...sembrava persino dimagrito.
“Quindi lo sa.” Non era una
domanda, ma un’affermazione.
“Sì, lo so.” La sua voce era
pesante, spessa di emozione. “Domani seppellirete due delle tre persone che io
abbia mai amato. La mia Ruth è morta e ora il mio ragazzo e la mia bambina la
raggiungeranno. Sono l’unico Brennan rimasto.”
“Troverò chi ha fatto questo.”
Disse Booth, la voce intrisa di rabbia.
“No, Booth, io lo farò. Ho
sempre agito con prudenza per proteggere i miei figli ma ora...” Si fermò,
prendendo un profondo respiro. “Ora più niente mi trattiene qui. Li ucciderò
uno per uno, finché non ne resteranno più.”
Come agente federale, avrebbe
dovuto arrestare Max sedutastante ma come uomo che stava per seppellire l’amore
della sua vita, poteva solo sperare che il vecchio riuscisse nel suo intento.
“Si farà ammazzare.” Disse
Booth.
“Non mi importa!” Gridò Max.
“Non sai cosa vuol dire! Nessun
genitore dovrebbe seppellire il proprio figlio e io sto per farlo con entrambi
i miei!” Era arrabbiato, in collera, e Booth poteva solo immaginare il suo
dolore. Non riusciva nemmeno a pensare
a cosa avrebbe fatto se fosse successo qualcosa a Parker.
“Ho stretto il mio bambino
appena nato, Booth, l’ho visto crescere, cacciarsi nei guai, avere la sua prima
ragazza, rompere con lei per la prima volta. E ora vederlo scivolare via è...”
Lottava per tenersi insieme, non voleva esplodere davanti a Booth.
“Mi dispiace. “Disse Booth.
“E la mia bambina... con quei
grandi, curiosi occhi blu, sempre a pregarmi di portarla in biblioteca a
prendere libri nuovi. La mia dolce, piccola Temperance, che una volta sognava
di diventare ballerina, uccisa a colpi di pistola da quegli animali.... Non ha
mai avuto una chance nella vita, sempre chiusa nel suo piccolo mondo. Avrei
voluto vederla sposarsi, avere dei figli, ma ora.... è tutto finito. I miei
bambini sono morti.”
Booth poteva sentire le sue
lacrime, il profondo, inimmaginabile dolore che Max stava provando.
Voltandogli la schiena, Keenan
si avviò verso l’uscita dell’ufficio.
“Mi dispiace, Max.” Disse Booth
di nuovo.
“Lo so. A dispetto di tutto,
sono felice che la mia piccolina fosse amata da qualcuno.” Con questo, uscì.
Booth portò la propria
attenzione di nuovo sulla scrivania. Guardando il tavolo, decise che tutto ciò
che contava era con lui. Assicurandosi di non aver dimenticato niente, aprì i
cassetti.
Nell’ultimo trovò un carillon.
Glielo aveva regalato lui,
avrebbe dovuto calmarla.
Sollevando il coperchio, fu
avvolto da una dolce musica, così si rannicchiò sulla sedia e si strinse al
petto il camice.
Era impregnato del suo profumo e
la sua mente fu sopraffatta dal ricordo di lei.
Chiudendo gli occhi, si lasciò
cullare dai propri singhiozzi disperati e le lacrime che tratteneva fin dalla
notizia della sua morte presero a scorrere libere sul suo viso.
“Finirai quello che lui ha
iniziato?” Chiese Angela.
“Sì, lo devo fare.” Disse lui. “Lo
devo a lei e alla sua famiglia.”
I suoi pensieri scivolarono sulla
sua famiglia. Ora erano stati tutti uccisi, allineati sotto a quattro lapidi di
marmo.
“Non si arrabbierebbe se decidessi
di lasciar perdere, lo sai?”
“Lo so, ma ho bisogno di farlo. E’
qualcosa che Max mi ha detto o, meglio, mi ha scritto.”
Le porse un piccolo pezzo di carta.
“Se
ami la mia bambina, finirai quello che ho iniziato.”
“Una volta gli promisi che mi sarei
preso cura di lei e ho fallito. Non spezzerò un’altra promessa.” Disse. “E’
stato fantastico vederti, Ange, ma ora devo andare. C’è un posto dove dovrei
essere.”
“E io credo di sapere di che cosa
si tratta.” Disse lei, abbracciando stretto Booth, sperando che non fosse il
loro ultimo incontro.
“Ti voglio bene, amico mio. Stai
attento.”
“Lo farò.” Le voltò la schiena,
camminando verso l’uscita.
Vicino alla porta si fermò, poiché
la sua attenzione era stata attirata da un messaggio scritto su un grosso
cartellone appeso al muro.
QUESTA MOSTRA è DEDICATA A TEMPERANCE BRENNAN E ALLA SUA
FAMIGLIA
Sorrise.
Era amata più di quanto non avesse
mai saputo.
Uscendo, localizzò la propria auto
ed entrò nel veicolo.
Alzò la testa per controllare lo
specchietto retrovisore e lei era lì.
Nello specchio poteva vedere i suoi
occhi luminosi e il suo dolce sorriso.
“Ti amo.” Disse.
Non si voltò a guardarsi indietro,
spaventato di vederla scomparire.
Girò semplicemente la macchina e
uscì dal cortile, diretto a New York.
Lì avrebbe iniziato il suo sentiero
di redenzione.
Lì avrebbe avuto la sua vendetta,
la sua giustizia.
Non aveva idea di come tutto
sarebbe finito.
C’erano alte probabilità che
sarebbe morto e nulla era ancora certo.
L’unica cosa che sapeva, nel suo
cuore, era che lui, un giorno, avrebbe rivisto la sua Temperance.
Fine.