Moma-Son
Moma-Son
13 Settembre 1990
Sta seduto su uno sgabello con il mento poggiato al bancone
e il bicchiere di plastica tra i denti. Ascolta il nastro per la terza volta e,
subito dopo, una quarta. Ascolta il primo riff di chitarra e reprime un grido
in gola. Un grido roco, gutturale, primitivo. E’ lento e diventa via via più
incalzante, sembra scandire parole, dividerle in sillabe. La batteria segna la
distanza tra una parola e l’altra, come punteggiatura, una virgola, un punto. E
poi il basso a calcare gli accenti.
Si versa dell’acqua e rigira la cassetta. Di nuovo, da capo.
Parola, parola, virgola; accento sul secondo accordo, accento sul terzo e un
punto alla fine. La seconda chitarra entra fluida tra il punto e l’a capo con
una storia da raccontare; deve premere le mani sulle cuffie per sentirne i
sospiri straziati e spalanca gli occhi quando un grido rischia di perforagli i
timpani.
E’ già scritta una canzone su quelle note; ha il testo in
mente e il quaderno aperto sotto il gomito. La penna nera, senza tappo, gli
macchia la pelle bruciata dal sole della California. Prova a scrivere qualcosa
e finisce per disegnare un’onda sull’angolo basso della pagina quadrettata;
osserva la curva morbida chiudersi su se stessa e immagina della schiuma lì
dove la punta della penna si è improvvisamente bloccata, incapace di andare
avanti. Ha bisogno di entrare in acqua, cercare le parole giuste scivolando
sulla tavola e ingurgitando sale e spuma e riempiendo i polmoni di ossigeno
liquido.
Chiude il quaderno e si alza dallo sgabello, il turno è
finito e si chiude la porta alle spalle.
14 Settembre 1990
Ha riascoltato i pezzi prima di entrare in acqua, seduto
sulla sabbia dorata e guardando l’oceano. C’è solo lui, così prende tempo e
scavalca la prima onda, l’ultima della prima batteria, e aspetta, steso con la
schiena sulla tavola ruvida di paraffina. Il cielo grigio non lo vede nemmeno, come non
riesce a distinguere le onde che arrivano; ci saranno scarsi sei metri di visibilità
ma non riesce a distinguere il suo palmo alla distanza di un braccio dal naso.
Può solo aspettare. Aspetta. Chiude gli
occhi e riascolta nelle orecchie il primo accordo e poi quel grido, nasce dal
petto e scoppia nella gola e grida. Grida forte, spaventando un gabbiano e
sorprendendo se stesso. I capelli lunghi gli ricadono sugli occhi e lentamente
concentra la sua attenzione su quell’onda che si crea in lontananza, ne sente
il ruggito e si tende verso l’orizzonte, cominciando a remare. Affonda le
braccia nell’acqua; ad ogni bracciata una parola. Le sussurra e a tratti le
grida, si alza in piedi e prende la sua prima onda mentre un ritornello, il
primo, gli muore in gola in un gemito soffocato che lo fa scivolare e cadere in
acqua.
La seconda lo travolge e non oppone resistenza, si sente
trascinare giù insieme alla tavola, il laccio che stringe intorno alla
caviglia, i polmoni che si riempiono, i capelli che lo avvolgono e il suo
elemento che lo culla dolce, sempre più a fondo. Ed è lì, in quel blu pesto,
che un frame illumina lo stomaco dell’oceano e si accorge della spuma che lo
circonda. E’ riemerso e vomita liquidi, note e immagini che si perdono in quel
muro denso di nebbia umida. Si guarda intorno e con il mento sulla tavola sussurra
una sola e rassegnata parola: Alive. E’
più una sensazione legata al peso di un ricordo, di una mancanza, un vuoto al
centro del proprio codice genetico, molto più intimo e radicato delle sue
stesse paure.
E rimonta e aspetta e questa volta la vede e ci si butta
contro. Carico di aspettativa, carico di rabbia, rema contro un muro d’acqua
alto due o tre volte la sua figura minuta. Stringe i pugni e si fa forza sulle
ginocchia e all’ultimo, solo all’ultimo, vira bruscamente la punta della tavola
e scivola fulmineo lungo il fianco dell’onda; ne disegna i contorni e affonda
le mani lungo tutta la parete, lacerando la superfice liscia e perfetta da cui
sgorga sangue bianco e schiumoso. Si accarezza il mento e porta le dita alle
labbra che assaporano curiose la ferita dell’oceano, mentre gli occhi osservano
l’onda accartocciarsi e morire divorata dalla nebbia.
E tutto torna chiaro, le parole diventano frasi con
punteggiatura e accenti e, fluide, confluiscono tutte in quella piccola gabbia
che diventa storia e che non smette di raccontare a se stesso e alle onde e a
quel muro grigio che gli impedisce di vedere e di ascoltare. Come isolato, come
rinchiuso, come esiliato dal resto del mondo. Solo lui e le onde, lui e le
canzoni già scritte, solamente da riscoprire e incidere su un nastro.
E’ in piedi, le dita ancora immerse nell’oceano e guarda
l’orizzonte umido e denso e cerca di ricordare quell’onda. Enorme, liscia,
perfetta e… ferita. E’ andato al largo, molto più al largo del solito, si è
perso per minuti interi dimenticando se stesso e tutto il resto, in mente una
melodia e tre testi differenti nati per essere letti ed ascoltati come uno.
Raccolti dal ventre dell’oceano e riportati in superfice da un paio di braccia
che non hanno mai smesso di remare sempre più lontano, sempre più a fondo di
quel muro grigio, cantando una storia che sa tanto di ricordi e rabbia e
rimorso.
Ed è soddisfatto, talmente soddisfatto che corre a casa, si
chiude la porta alle spalle e afferra il quaderno nero cominciando a scrivere
ciò che ha cantato quella mattina al centro di quell’onda disegnata con
l’inchiostro nero sulla pagina bianca.
Alle quattro sono già pronte e chiuse in un pacco, dirette a
Seattle senza possibilità di ripensamenti.
“Jack. Sì, ho appena inviato la cassetta e i testi. Ci ho
messo anche il mio numero, nel caso volessero richiamarmi, non si sa mai.”
“Ora che ci ripenso, non credo di aver surfato granché quel giorno.
Ricordo che ero là fuori. Non ricordo le onde che ho cavalcato. E, sai, i
surfer ricordano sempre le loro onde. Non ne presi nemmeno una quel giorno… beh,
una sì, enorme.”
Eddie
***
Io-ho-un-fottuto-terrore-a-pubblicare-in-questo-fandom.
Non
mi sento per nulla all'altezza, forse perchè Eddie è
Eddie e i Pearl sono i Pearl e non è che tu possa dire molto di
loro. Cioè c'è un fottio di roba da dire ma qualsiasi
parola scegli ne riduce il valore quindi fai silenzio e lasci perdere e
rimandi alla prossima e alla prossima e alla prossima ancora.
Però poi ti viene voglia, cioè ti compaiono davanti certe
immagini che proprio non puoi farti scappare e. bam, ecco che hai
già due pagine di Word piene, anche se alla fine non ti
soddisferà mai totalmente perchè quello che pensi
è sempre troppo, sempre tutto, sempre inadatto a quello che esce
fuori.
Però
ecco ci ho provato. C'è Eddie, c'è il miosuo oceano e ci
sono Alive, Once e Footsteps che nascono dalla nebbia e finiscono in
una cassetta della posta.
So, vi saluto e che Eddie sia con voi, sempre!
Lis
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