Premetto che
ero piuttosto indecisa se pubblicare o meno questo racconto: ammetto
che
l’accostamento di personaggi sia piuttosto…
insolito (non che possa ancora
arrogarmi
il diritto di superare le castronerie che Murphy ci sta
riservando ultimamente)
ma anzitutto il racconto è stato scritto per uno sfizio
personale.
Uno dei miei
crucci è sempre quello di vedere inseriti personaggi nuovi,
senza mai vengano
approfonditi e così restano molte domande sul
perché agiscano in un certo modo
a meno che non si supponga che abbiano una doppia
personalità (o forse
tripla?).
E’ stato così
anche per il personaggio di Hunter
ma se cercate qualcuno da incolpare – oltre
alla sottoscritta e l’ispirazione folle della scorsa Domenica
mattina –
prendetevela anche con Nolan
Funk e le sue speculazioni su una possibile
storyline per il suo alter ego.
Ma non
dilunghiamoci troppo: se soffrite quando le coppie canon e il
loro evolversi
non viene rispettato, allora vi invito a non farvi del male; se siete
anche solo
incuriositi o vorreste un approfondimento sul personaggio, spero possa
esservi cosa gradita,
In ogni caso,
sarò lieta, come sempre, di condividere miei pensieri con
voi quindi non
esitate in caso di commenti (anche critiche, sia mai!) o qualsiasi
feedback
vorrete lasciarmi.
Se siete
ancora qui (audaci!), vi auguro buona lettura!
Premetto che
per il personaggio di Hunter, non avendo un’introspezione
precisa, mi sono
sbizzarrita ma spero il personaggio di Brittany non vi risulti (troppo)
OOC.
Nota: SPOILER su
un evento della 4x14.
« Il brutto della
dipendenza è che non finisce mai
bene. Perché ad un certo punto qualunque cosa sia quella che
ti fa stare
bene... smette di farti bene... e comincia a farti male.
Eppure
dicono che non ti togli il vizio finché non
tocchi il fondo. Ma come fai a sapere quando l'hai toccato?
Non
importa quanto una cosa ci faccia male... certe
volte rinunciare a quella cosa... fa ancora più male.
»
Dr.ssa
Meredith Grey dalla serie tv “Grey’s
Anatomy”.
“La
fragola, che cresce sotto l’ortica,
rappresenta l’eccezione più bella alla regola,
poiché innocenza e fragranza
sono i suoi nomi”.
William
Shakespeare.
Addicted
(to you)
La
porta si era chiusa dietro la piccola star delle Nuove Direzioni e
Brittany
aveva spento il computer fisso e la web cam (sì,
c’era voluta molta pazienza da
parte di Sam a farle intendere quale fosse la giusta operazione,
specialmente
dopo il suo involontario spogliarello di fronte alla stessa
telecamera), si era
sciolta i capelli e si era stiracchiata.
Decidendo
se posticipare lo shampoo e la doccia
dopo la cena, si era riscossa al sentire nuovamente una
lieve pressione
sulla tastiera del computer portatile della madre, abbandonato sul
proprio
letto. Si era voltata ed aveva osservato il micio disteso sulla
trapunta, le
zampe che, fino a pochi secondi prima, continuavano a sfiorare i tasti
con una
propria volontà.
Inclinò
il viso di un lato e si appoggiò al materasso, guardandolo
di traverso.
“Ora
basta partecipare a quell’asta su eBay: ho detto una bugia a
Marley per
permetterti di comprare quel cappello, lo sai?”.
Seppur
dovesse sembrare un rimprovero, il tono aveva la stessa dolcezza e
delicatezza
che contraddistingueva ogni sua conversazione con il suo adorato
animaletto da
compagnia nonché co-presentatore di Fondue For Two, quando
non troppo impegnato
in qualche vendita illecita.
Il
micio le rivolse appena lo sguardo, il suono delle fusa che si
espandeva e un
lieve miagolio ma Brittany si riscosse quando la finestra della chat si
illuminò, aprendo una schermata che corrispondeva ad un
indirizzo sconosciuto.
Sbatté
le palpebre nel leggere il messaggio:
Da
H.C.
dfknmdfklnmaklfnkaldfnk
Aggrottò
le sopracciglia mentre Lord Tubbington premeva rapidamente le zampe a
sua
volta.
Da
Unicorn Girl:
Djnfkdfnklajdsopdjdnisodhn
“Ohh!”
aveva pigolato la ragazza, una mano sul cuore.
“Tu
e la tua fidanzatina vi scrivete in un linguaggio segreto, ma prometto
di non
guardare”. Si era tappata gli occhi ma, vinta dalla
curiosità, si era sporta
ulteriormente a leggere il nickname del mittente.
“Ma
voglio sapere chi è” si era giustificata con una
risatina.
“H.C.”
aggrottò le sopracciglia. “Che nome
strano”.
Arricciò
il naso per poi scrutare la finestra con l’avatar scelto
dalla stessa persona:
nessuna fotografia di una micetta innamorata. Vi era una
“D”[1]
sinuosa scritta in rosso e drappeggiata da quello che somigliava ad uno
scudo
su uno sfondo bluastro.
Era
sicura di averlo già visto da qualche parte.
Si
illuminò mentre accarezzava il micio.
“Esci
con il gatto di uno dei One Direction[2]?
Va bene, vado a farmi la doccia e vi lascio parlare da soli
perché mi fido di
te” gli aveva accarezzato le orecchie e si era finalmente
alzata.
Lord
Tubbington emise un vago miagolio prima di riprendere a digitare
freneticamente.
~
Chiuse
la porta dietro di sé con un moto stizzito: il cellulare non
aveva smesso di
suonare un solo istante. Imprecò, maledisse suo padre che
aveva avuto
l’accortezza di azzerare il suo conto in banca senza il quale
non avrebbe
neppure potuto cambiare numero ed evitare le telefonate di qualche
impiastro
umano di giornalista mediocre, capace di gettarsi sulla sua storia pur
di
ricavarne qualche soldo utile a mantenere la sua famiglia di miserabili
falliti.
Il
cellulare vibrò nuovamente nella tasca del blazer e fu con
uno scatto rabbioso
che gettò l’iPhone a terra e lo
calpestò.
Un
brivido di adrenalina che sembrò disperdersi altrettanto
rapidamente: aveva il
respiro affannato mentre sostava con la schiena premuta contro la
superficie
dell’uscio. Una mano tra i capelli a rimuovere le gocce di
sudore dalla fronte
mentre riprendeva una naturale respirazione.
Slacciò
il blazer, sentendosi soffocare e tolse anche la sciarpa: solo allora
lasciò
vagare lo sguardo sulla sua camera: la più lussuosa
dell’Accademia e ovviamente
singola.
Il
micio bianco lo guardò apprensivo, semi nascosto sotto un
suo maglione, il capo
che sbucava timidamente dalla manica dello stesso – aveva
preso la strana
abitudine di dormirci appallottolato da quando era divenuto sempre meno
sollecito a coccolarlo – ed emise un flebile miagolio di
richiamo che Hunter
ignorò.
Attraversò
la stanza per avvicinarsi al balcone e prendere una boccata
d’aria ma con la
coda dell’occhio registrò uno strano movimento.
Fissò il computer portatile
acceso e una schermata di chat che si era illuminata al suo passaggio.
Da Unicorn Girl:
Ciao,
sono la padrona di Lord Tubbington. Scusati con la tua
gattina ma devo chiudere la chat perché il computer serve
alla mia mamma.
Xoxo
Brittany.
Lesse
il messaggio qualche volta, sbattendo le palpebre per stabilire che
quella
visione non era un effetto ritardato del consumo di steroidi. Scorse la
finestra della conversazione composta di parole indecifrabili, quasi
qualcuno
avesse letteralmente premuto a casaccio: aggrottò le
sopracciglia ma prima che
potesse eventualmente decidere di traumatizzare l’ochetta
tredicenne che doveva
celarsi dall’altra parte dello schermo, si era voltato verso
la piccola sagoma
sotto il proprio pullover.
Un
gatto pedofilo era l’ultima cosa di cui avesse bisogno ma,
avendo intuito il
suo stato d’animo, il micio era scivolato dal letto con un
placido miagolio.
Scosse
il capo, abbassò lo schermo del computer e
spalancò l’uscio della
portafinestra: si appoggiò alla balaustra e socchiuse gli
occhi.
Aria,
disperava di aria.
~
Camminava
con incedere fluido nei corridoi: i passi lunghi, quasi gli stessi
ripetuti ad
oltranza nella vecchia Accademia di Colorado Springs quando la marcia
iniziava
alle prime ore del mattino. Quasi un senso di futile soddisfazione nel
mondo in
cui tutti i giovani in divisa si scostassero per lasciarlo passare, uno
spartiacque tra le due file che Hunter superò con il
cipiglio corrugato, le
braccia che non aveva lasciato penzolare svogliatamente ma rigide lungo
i
fianchi, i pugni stretti e la fronte corrugata.
Non
si guardò alle spalle, ignorò il brusio che si
accendeva e si spegneva
automaticamente al suo passaggio, gli sguardi fissi sulla sua figura e
mal
celanti la rabbia, il disgusto, il biasimo o la timorosa soggezione che
vacillava precaria su un equilibrio ormai compromesso.
Soltanto
quando varcò l'uscio della propria camera, si
fermò.
Socchiuse
gli occhi e cercò nuovamente di placare il battito alterato
e il respiro
convulso, fino a quando le immagini di quel breve colloquio non
apparvero di
nuovo di fronte ai suoi occhi.
Un
verso simile ad un ringhio sgorgò dalla gola:
afferrò la sedia di fronte alla
scrivania e la scagliò con violenza sul pavimento,
colpendola con la gamba fino
a spezzarla.
Tolse
il blazer, l'ultima volta si disse, e lo gettò sul
pavimento, lo calpestò prima
di spalancare la portafinestra e fermarsi di fronte al balconcino.
Slacciò
la cravatta.
Quella
calma esterna era così irreale e quasi stomachevole rispetto
a quella sorta di
bestia che sentiva trattenuta a stento dentro di sé, quel
fuoco che non avrebbe
neppure più cercato di domare.
Non
che ce ne fosse motivo.
La
voce del Dirigente era ancora perfettamente udibile.
“Signor
Clarington, il Consiglio Scolastico si è riunito e abbiamo
ascoltato le
testimonianze di tutti i membri dei Warblers”.
Aveva
sorriso, un sorriso sgradevole, quasi beffardo e divertito.
“Volete
che vi mostri le siringhe?” domandò, le
sopracciglia inarcate e una vaga
soddisfazione di fronte agli sguardi gelidi e increduli degli altri
insegnanti.
Il
Dirigente aveva sollevato il braccio a metterli a tacere: aveva
sospirato prima
di guardare il giovane e togliersi gli occhiali.
“Forse
non si rende conto della gravità di quanto accaduto: non
soltanto la
reputazione del nostro Glee Club ma quella dell'intero istituto
è stata
compromessa per la sua bravata. Anni ed anni di rispetto e di decoro
come una
delle istituzioni scolastiche per la promozione di sani valori e di
principi:
tutto distrutto.
Il
minimo che possiamo fare è garantire che la Dalton
stessa prenda i provvedimenti necessari
per salvaguardare il benessere e la sicurezza di chi la
frequenta”.
Il
ghigno ancora più esteso ne fece scintillare le iridi:
un'espressione che
anziché ammorbidirne i lineamenti, sembrava renderli persino
più marcati, quasi
spaventosi.
“Nessuno
è stato costretto” sottolineò e il
Dirigente annuì.
“...
pena l'esclusione dalla competizione più
importante”. Precisò quasi ironico. La
voce, in realtà, per quanto pacata ne tradiva l'indignazione
e la gravità delle
parole che sembravano sgorgare dalle sue labbra con grande dolore.
“Se
proprio vogliamo osservare i cavilli” si era stretto nelle
spalle e il brusio e
le occhiate gelide e sconcertate degli insegnanti si fecero ancora
più pungenti
ma non vi badò.
Non
era mai stata la loro approvazione quella ricercata, mai il loro sprono.
“I
Warblers sono stati cacciati dalla competizione e lei, Hunter
Clarington, per
la decisione unanime del consiglio, è da questo momento
espulso”.
Parole
che sembrarono rimbalzare nelle pareti di quella stanza: soltanto uno
spasmo
all'altezza della mascella e il pulsare del pomo d'Adamo ne tradirono
la
reazione.
Aveva
stretto i pugni ma non aveva distolto lo sguardo.
“La
preghiamo di lasciare l'istituto domani stesso”.
Si
era alzato bruscamente in piedi, lasciando cadere la sedia alle sue
spalle,
incrociò le braccia al petto ed inclinò il viso
di un lato.
“E'
tutto?”.
Un
vago accenno dell'uomo e Hunter si volse, diretto senza esitazione
verso
l'uscita.
“Le
auguro buona fortuna Signor Clarington, spero che fuori di qui trovi
qualunque
cosa stia disperatamente cercando” era stato l'ultimo
commento dell'uomo. Si
era voltato ad osservarlo, le sopracciglia inarcate quasi a volerne
intravedere
un bluff o un'accezione ironica ma constatò, un guizzo di
ironico divertimento,
quanto fosse sincero.
Aveva
riso, senza ironia, la fronte adagiata contro la porta: non vide gli
sguardi
increduli e sconcertati che l'assemblea si era scambiata ed
uscì dalla stanza.
Si
servì l'ennesimo bicchiere, lo sguardo più fosco
e la piacevole sensazione che
la sua mente stesse galleggiando: quella strana euforia che lo faceva
quasi
sorridere nel silenzio e nella penombra della stanza. Rigirò
il bicchiere tra
le dita, finì di berne il contenuto, si strofinò
le labbra con il palmo della
mano e rientrò nella camera: osservò il micio
mangiucchiare nervosamente dalla
ciotola, lo sguardo che lo percorreva quasi tremante prima di tornare a
nascondersi.
Aveva
sorriso divertito e compiaciuto, attraversando la stanza.
“Ho
ferito i tuoi sentimenti felini?” aveva chiesto prima di
lasciarsi sedere sul
proprio letto e strofinarsi le dita sulla fronte.
Fu
un trillo del computer a riscuoterlo: schiuse appena gli occhi per
rimirare il
lampeggiare di una schermata di chat che non si era neppure dato la
pena di
disconnettere.
Aguzzò
la vista, chissà che il padre non lo stesse convocando via
Skype proprio in
quel momento: oh, sarebbe stato divertente vederlo scomporsi con la sua
bella
divisa piena di lustrini.
“Cazzate”
disse tra sé e sé, un vago risolino prima di
sollevarsi ed avvicinarsi allo
schermo del pc, l'unica fonte di luce nella stanza. Appoggiò
rumorosamente il
bicchiere e storse appena le labbra alla vista del nick-name quasi
familiare.
“Se
persino tu scopi più di me, devo aver decisamente toccato il
fondo” convenne
fissando il baluginare dello sguardo di Mr Pussy da sotto il suo letto:
inarcò
appena le sopracciglia quando si rese conto che era una frase intera
quella
composta. Persino dotata di senso per quanto mancasse di ogni contatto
con il
mondo reale.
Da
Unicorn Girl:
Ciao, sono
ancora io, la padrona di Lord Tubbington. Non vuole
mangiare e sono preoccupata: potresti lasciare il computer acceso,
così può
parlare con la sua fidanzatina?
Aveva riso
fissando le parole prima di volgersi nuovamente al
gatto.
“Non
sapevo fossi gay. O forse sei femmina? Fa differenza?” si era
riscosso quando un secondo messaggio era lampeggiato.
Sarò
al McKinley fino a stasera: dopo le prove del Glee, c'è la
partita di football. Grazie ancora anche da parte di Lord Tubbington,
Brittany.
La sua mente
sembrò reagire dopo qualche secondo di ritardo: si
era sollevato bruscamente dalla sedia e, con lo stesso incedere rapido,
aveva
attraversato la stanza.
Scrutò
tra i volumi, ignorando la vista offuscata e l'emicrania
fino a quando non trovò il raccoglitore che cercava.
Vi aveva
raccolto tutte le informazioni carpite sui rivali del
Liceo e scorse rapidamente tutti i nomi fino a quando la sua vista non
si
bloccò allo scorgere, sotto la fotografia di una ragazza in
divisa da
cheerleader, il nome contrassegnato.
Brittany S.
Pierce.
Vi erano delle
annotazioni scritte a penna: mediocre cantante,
ballerina di punta delle Nuove Direzioni, spesso associata a Mike Chang
nelle
coreografie più elaborate.
Nota bene: non
si è diplomata insieme a Rachel Berry, Kurt
Hummel, Finn Hudson, Noah Puckerman, Santana Lopez, Mercedes Jones e
Mike
Chang.
Accese
l'interruttore per scrutarne i lineamenti: sembrava la
classica biondina senza cervello – il che avrebbe spiegato
anche l'utilizzo di
quel nomignolo di dubbia intelligenza e quel parlare come una bambina
ritardata, tanto fiduciosa delle capacità di due gatti di
avere volontariamente
una conversazione al computer, quando molto probabilmente stavano solo
dando
sollievo alle pulci o ad un prurito sessuale – e lo sguardo
fissò la parete di
fronte a sé mentre cercava di ricordare l'esibizione dei
rivali.
La rivide in
prima fila: i movimenti perfettamente coordinati a
quelli del partner. I capelli biondi che ondeggiavano sulle spalle ad
ogni
movimento, la scioltezza dei passi ed una sicurezza che rendeva
evidente quanto
la danza fosse il suo elemento.
La stessa
biondina che aveva visto, poco prima, mano nella mano
con la brutta imitazione di Leonardo di Caprio con la bocca enorme,
quello che
insieme al traditore Blaine aveva tolto loro il trofeo.
Fu come un lampo
di consapevolezza nell'oscurità.
Strappò
la fotografia dall'album e quel ghigno scintillò
nell'oscurità.
Adesso sapeva
esattamente cosa fare: che Evans si fregiasse
dell'idea di averlo fatto espellere; lui aveva tra le mani qualcosa di
molto
più succulento.
Tornò
rapidamente alla sua postazione, cambiò il nick-name con un
altro paio di iniziali e prese a digitare rapidamente qualche parola.
Chiedo
scusa per la risposta così in ritardo: ho prestato il
computer ad un amico. Comunque piacere di conoscerti, padrona di Lord
Tubbington (nome davvero originale!).
Sarò
lieto di aiutare i nostri mici nella loro romanticissima
relazione platonica.
Mi chiamo
Jason, a proposito.
Ps:
Ballerina e cheerleader? Credo di aver sentito parlare di te.
Complimenti per il piazzamento in classifica!
~
Entrò
nella propria camera, decorata di quella delicata tonalità
d'azzurro che dava sempre l'impressione di rimirare il cielo in una
stanza: era
un pensiero che la faceva sentire leggera. Era facile immaginarsi
danzare su
quelle nuvole: libera e leggiadra, senza quel timore inconscio di dire
o fare
la cosa sbagliata. Senza il timore di non essere mai adeguata alla
situazione.
Se era piuttosto
facile essere quasi sempre di buon umore e
spensierata, allegra e solare, in grado di trovare il lato positivo di
ogni
cosa e di strappare un sorriso alle persone accanto; quella era una di
quelle
giornate nelle quali si trovava a riflettere su come spesso i sorrisi
che la
circondavano sembravano essere di circostanza o non intaccare la
simpatia delle
persone.
Si
lasciò cadere sul proprio letto e si rannicchiò
di un fianco,
il viso premuto contro il cuscino e quel nodo in gola che ne faceva
stringere
le labbra.
Erano in momenti
come quelli che la mancanza di Santana era più
che mai palese: adorava Sam e il suo sorriso, il luccichio del suo
sguardo, le
sue imitazioni spassose e il modo in cui riusciva a farla sentire
meravigliosamente pur restando se stessa. Era come un complice con il
quale
condividere un linguaggio speciale e soltanto loro.
Ma era Santana a
farle credere vi fosse davvero qualcosa di
speciale in lei: per quanto molto più matura, affascinante,
sensuale ed
intelligente, riusciva sempre a lenire ogni remora stringendola tra le
braccia.
Abbandonandosi alla sua presenza, alla certezza di una carezza o di un
semplice
sorriso, qualche frase in spagnolo che avrebbe saputo strapparne
nuovamente una
risata.
Scosse il capo:
Santana aveva la sua nuova vita e non si sarebbe
mai pentita di averla spronata a realizzare il suo sogno. Sapeva che
una parte
di sé non avrebbe mai smesso di amarla e che il sentimento
non sarebbe fluito,
probabilmente rimasto sopito o probabilmente destinato a confluire in
note più
dolci e delicate per la sua migliore amica.
Abbracciò
il cuscino, decisa a dormirci sopra, prima che un
familiare suono le facesse schiudere gli occhi azzurri.
Le sopracciglia
inarcate alla vista della casella di posta che
lampeggiava sulla schermata del computer. Si sollevò con il
torso per poter
leggerne il mittente ed illuminarsi letteralmente alla vista dello
stesso: si
avvicinò alla scrivania, giocherellando con la coda di
cavallo prima di leggere
l'ennesimo messaggio di quella nuova corrispondenza.
Ciao
Jason,
Gli
allenamenti sono andati molto bene, anche se non mi piace
quando la
Sylvester
comincia ad urlarmi contro. E poi continua a parlare del suo cannone ma
non
riesco a capire perché tutte guardano me quando pensa di
usarlo per le
Nazionali.
Oggi
è una giornata da mal di gola: mi brucia tanto e non riesco
a capire perché. Ho tanti pensieri che mi fanno scoppiare la
testa e mi sento
come se tutti vedessero qualcosa di sbagliato. Allora perché
nessuno ne parla?
Tu me
lo diresti se ci fosse qualcosa di sbagliato in me, vero?
Spero
il tuo corso di musica sia andato bene, saluta la micina.
Credo
Lord Tubbington sia davvero innamorato: quando dorme fa le
fusa. Oppure fa le fusa mentre dorme, non lo so ma sicuramente
è amore.
Xoxo
Brittany.
~
Lo
sguardo era fisso sul proprio piatto senza neppure riuscire esattamente
a
vedere ciò che era stato preparato dalle cuoche. Vi era un
silenzio quasi
assordante: soltanto il cozzare delle posate contro i piatti di
ceramica o gli
spostamenti del braccio dell’uno o dell’altro
commensale nel prendere il sale o
raggiungere il bicchiere.
Un
sordo silenzio che sembrava quasi farne fischiare le orecchie mentre
contraeva
dolorosamente la mano fino a conficcare le unghie nel palmo.
Non
gli aveva rivolto parola: l’unica volta era stato
quell’imperativo ordine di
salire in auto quando da Westerville lo aveva condotto nella loro casa
a Lima.
Aveva
sollevato lo sguardo sull’uomo dall’altra
estremità della tavola rettangolare.
Sedeva
con la sua uniforme perfettamente lustra, tanto da chiedersi quasi se
la
indossasse anche per coricarsi o se ormai fosse divenuta parte
così intrigante
di se stesso da non riuscire ad immaginare di indossare un semplice
completo
sportivo o qualcosa di meno dannatamente formale.
Jonathan
Clarington e suo figlio si somigliavano per corporatura: la stessa
figura alta
e il fisico temprato dall’addestramento militare, ma non lo
sguardo. Erano
occhi di un azzurro quasi glaciale quelli del padre: spesso
impenetrabili,
spesso capaci di lacerare il respiro per come riuscivano a scovare le
emozioni,
quasi fosse capace di comprendere ciò che era sempre
trattenuto e celato.
Lo
vide pulirsi meccanicamente le labbra col tovagliolo, spostò
la sedia e si
rimise in piedi: senza neppure rivolgergli lo sguardo, si
avviò all’uscita.
Hunter
ebbe un fremito: con uno scatto gettò il tovagliolo sul
proprio piatto, si
rimise a sua volta in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi.
“Di’
qualcosa!” lo esortò con voce rabbiosa, il respiro
convulso nel percorrere in
rapide falcate quella distanza mentre suo padre, molto lentamente, si
voltava.
Le sopracciglia inarcate, i muscoli serrati della mascella mentre
Hunter lo
fissava: il respiro ansante e la vena pulsante sul collo.
L’ultima volta che
aveva sentito un tale impeto, aveva rovesciato suppellettili del
più rinomato
bar di Lima.
Suo
padre incrociò le braccia al petto, quasi stesse
ulteriormente aspettando e
Hunter strinse i pugni, avvicinandosi ulteriormente.
“SMETTILA
D' IGNORARMI”.
Era
stato un movimento fluido ed elegante quello con cui la mano
dell’uomo si era
stretta alla sua gola: l’impatto con la parete alle sue
spalle era stato
abbastanza irruento da intontirlo mentre fissava quegli occhi glaciali.
Sorrideva suo padre, un modo rabbioso e simile a quello che increspava
le sue
stesse labbra.
“Guardati”
lo scrutò con evidente disprezzo nel farne cozzare
nuovamente il capo contro la
parete dietro di sé e Hunter trattenne il fiato.
“Neppure
la tua rabbia è autentica: è frutto di una
reazione chimica perché sapevi di
non essere capace di battere uno stupido coretto di una scuola statale,
senza
doverti drogare” gli occhi sgranati, Hunter osservava suo
padre vomitargli
addosso quella verità che non era sembrata tanto letale fino
a quando non erano
state le sue labbra a pronunciarla.
“E
adesso” aveva proseguito in tono basso, rabbioso, divertito
quasi. “… vuoi che
io ti guardi in faccia da uomo a uomo quando sei solo un patetico
ragazzino
senza onore e senza gloria… e pretendi che io abbia qualcosa
da dirti? Che io
possa confrontarmi con te?”.
Cercò
di continuare a sostenerne lo sguardo anche quando fu ulteriormente
strattonato: la mano che cercava di afferrare quella
dell’uomo perché
l’abbassasse; cercò di continuare a guardarlo
negli occhi, alla ricerca del
fantasma di un sentimento diverso che si era illuso avrebbe mai provato
nei
suoi confronti.
“Non
sei degno di considerarti mio figlio” aveva mollato la presa
e il ragazzo si
era dovuto sostenere alla parete, tossendo convulsamente per ritrovare
aria che
ne riempisse i polmoni, stramazzando in ginocchio.
Suo
padre sorrise appena, il viso inclinato di un lato
nell’osservarlo prima di
incrociare le braccia al petto.
“Tornerai
in Accademia il prossimo semestre” si era chinato e ne aveva
strattonato i
capelli sulla nuca, inducendolo a sollevare lo sguardo.
“Se
c’è ancora qualcosa dell’uomo che
credevo tu fossi, lo troveremo”.
Lo
lasciò andare e si allontanò.
Non
seppe quanto tempo rimase immobile al centro della stanza: nelle
orecchie
ancora l’eco delle parole del padre, il pulsare della nuca
laddove lo aveva fatto
cozzare alla parete alle sue spalle.
Si
sollevò lentamente, i pugni stretti lungo i fianchi e la
rigidità dei muscoli
del viso.
Nuovamente
incapace di respirare, nuovamente incapace di agire.
~
Fusa e
lunghe dormite sono senz’altro sintomo di qualcosa, hai
ragione come sempre: sono sicuro che tu sia il migliore veterinario
possibile
per il tuo amato Lord Tubbington.
Permettimi
una parola, Britt (è così che ti chiamano, vero?).
Non
dovresti permettere agli altri di condizionare il tuo giudizio
su te stessa: continua a camminare a testa alta e fare ciò
che ritieni più
opportuno. Segui il tuo cuore e non può che essere la scelta
più giusta: mi
fido di te; dovresti fare lo stesso.
Fissò
lo schermo del tablet con aria annoiata prima di inviare il tutto dopo
una
frase di commiato: avrebbe avuto bisogno di un caffè extra -
amaro per riuscire
a smaltire la quantità illegale di glicemia che stava
ingerendo da quando
avevano cominciato quella sorta di corrispondenza. Non era stato
difficile
accattivarsene la simpatia: fin troppo semplice abbindolarla con
qualche frase
ben costruita e qualche carineria gratuita; meno piacevole doversi
sorbire i
patemi d’animo di quella che mentalmente sembrava sostare
nell’infanzia o
decifrare i cosiddetti “mal di gola”.
Perché non poteva semplicemente dire,
come le persone normali, di avere avuto una brutta giornata? O di non
vedere
sempre tutto maledettamente in rosa senza coinvolgere un circo di
animali
inesistenti.
Storse
nuovamente le labbra, osservò il display che diede segno del
messaggio
correttamente inviato ed attese il ritorno del suo appuntamento della
serata.
Doveva
pur passare il tempo in qualche maniera e se non aveva più
messo piede al Lima
Bean, poteva ancora permettersi di invitare qualche ragazza nel
prestigioso “Breadsticks”
per una cena e, soprattutto, il dopo cena che fungesse come metodo per
incanalare le energie.
Improvvisò
un sorriso cordiale al ritorno della giovane (aveva alluso a dover
incipriarsi
il naso, quando non sembrava avere alcuna differenza), alzandosi
cavallerescamente – cercando di non sollevare gli occhi al
cielo o non serrare
la mascella quando la sentì squittire in risposta - e
spostandole la sedia. Le
mani adagiate allo schienale della sedia, fu in quel momento che le
porte del
ristorante si aprirono a rivelare l'ingresso del biondino dalle labbra
di
pesce, la mano stretta a quella della giovane. Cercò di
celare il sorriso che
prepotente voleva farne curvare le labbra, prima di tornare al proprio
posto e
affrettarsi a nascondersi dietro il menù mentre il
maître li accompagnava ad un
tavolo di fronte alle vetrate.
Persino
nel vestire e nella postura aveva qualcosa di incredibilmente puerile:
a
partire dalla sfumatura rosa del vestitino che ne fasciava il fisico
slanciato,
non particolarmente formoso seppur dovesse riconoscere gambe lunghe e
slanciate
mentre le accavallava, coprendosi con il tovagliolo. Giocherellava con
il
ciondolo al collo, il viso inclinato di un lato mentre osservava il
giovane che
stava profondendosi in qualche ebete imitazione che riuscì,
tuttavia, a farla
scuotere dalle risatine.
O
fingeva per compiacerlo – coppia alquanto vomitevole seppur
sembrassero
incarnare perfettamente lo stereotipo da “biondo senza
cervello” – oppure era
reale divertimento quello che ne faceva curvare le labbra ritoccate di
un
lucidalabbra rosato, la mano ancora a sostenersi il viso prima di
protendersi a
sussurrare qualcosa.
“E
così sei stato in un’Accademia militare”
gli stava chiedendo la giovane di
fronte a sé che inarcò le sopracciglia alla
mancanza di un’immediata risposta.
Si mosse confusamente sulla sedia ma prima che potesse voltarsi a
comprendere
quale angolo della stanza stesse osservando, si affrettò a
cingerne la mano con
un gesto fluido.
Quel
sorriso più suadente e affascinante che la fece arrossire
con fare compiaciuto
e seppe di aver già vinto la partita.
Annuì
in risposta ma l’impaccio di trovare qualcosa da dire, fu
sventato dall’arrivo
del cameriere e lasciò fosse prima la giovane a rispondere.
Lo
sguardo di Hunter corse nuovamente all’angolo di fronte alla
vetrata: si era
scostata dal giovane Brittany, giocherellava con il ciondolo e sembrava
persa
nel suo mondo rosato e fiabesco.
Non
smetteva di sorridere.
Una
fatina distratta e sognatrice, ecco come appariva.
“E
lei, Signore..?”
“Hunter?”.
Estrasse
il denaro dal portafoglio dopo aver osservato soltanto distrattamente
la cifra
impressa sullo scontrino, una mano affondata nella tasca del soprabito
a
cercare le chiavi dell’auto mentre la giovane lo attendeva al
tavolo,
rimettendosi in fretta il soprabito.
Si
riscosse al tocco delicato di una mano tra le scapole.
“Scusa?”.
Aveva
sussurrato una voce femminile e Hunter si era voltato lentamente mentre
riponeva il portafoglio nella tasca interna del soprabito ma lo sguardo
tradì
un fremito di sorpresa nello scorgere proprio la Pierce
alle sue spalle.
Vista
da vicino appariva ancora più sperduta ed esile, soprattutto
con un abito che
ne abbracciava le forme ad una maniera femminile per quanto non
confondesse
quell’atteggiamento più puerile e delicato. Lo
stesso che gli parve di scorgere
persino nel riflesso delle sue iridi: una limpida tonalità
d’azzurro, un cielo
terso di nuvole e puro ed incontaminato come appariva la sua indole, a
tratti.
Lo
sguardo azzurro baluginò e indugiò sul suo viso,
gli parve che schiudesse
appena le labbra nel rimirarlo con le sopracciglia inarcate prima di
porgergli
la sciarpa con motivo alla scozzese.
“Ti
è caduta questa” sussurrò e anche la
sua voce sembrava uno scampanellio e,
mentre abbassava appena lo sguardo per prendere la sciarpa, le iridi
verdi
indugiarono sul suo volto.
“Grazie”
sussurrò in risposta e la ragazza accennò un
sorriso ma sembrarono entrambi
fermarsi in quella reciproca osservazione, quasi attendendo fosse
l’altro a
compiere un movimento o un qualunque gesto.
Fu
Hunter a scostarsi per superarla ma ne sentì nuovamente la
voce: la tonalità
meno squillante ma più incuriosita e confusa.
“Ci
siamo già visti?”.
Sorrise
Hunter, lo sguardo rivolto di fronte a sé:
roteò appena il viso, scrutandola con la coda
dell’occhio mentre sostava
alle sue spalle.
“Te
lo dirò la prossima volta che ci rivedremo”
sussurrò in risposta, un mormorio
appena più suadente e divertito – se soltanto
avesse saputo! – prima di
avvicinarsi alla sua dama, porgendole il braccio e tenendole aperta la
porta.
Indugiava
ancora nello stesso punto, Brittany, le mani strette in grembo, il viso
inclinato di un lato ed una muta domanda che ne faceva ancora schiudere
le
labbra.
Sentì
il suo sguardo su di sé mentre si chiudeva la porta alle
spalle.
Non
avrebbe dovuto attendere troppo.
~
Non
aveva capito cosa si celasse dietro lo sguardo pensieroso di Sam: in
vero non
era mai stata particolarmente abile nel comprenderne lo stato
d’animo ed era
sempre stato molto più semplice con Santana. In quel caso,
non era neppure
necessario quasi ch’ella parlasse: la sua postura
più o meno rigida, la
contrazione delle labbra e anche lo sguardo erano spesso eloquenti ed
era anche
più naturale reagire in modo da riuscire a placarne il
fastidio o strapparne
nuovamente un sorriso che ne illuminasse gli occhi.
Se
lei e Sam sembravano tanto simili, per certi versi, probabilmente era
una
propri a mancanza quella che le impediva di comprendere tutto e di
riuscire a
reagire di conseguenza, che cosa dovesse esattamente fare o dire.
Essere se
stessa non era sempre la soluzione più opportuna: vi era
sempre quella
sensazione di non comprendere a fondo cosa stessa accadendo o di non
essere
semplicemente adeguata alla situazione.
Aveva
l’aria stanca Sam mentre le prendeva la mano che strinse per
istinto,
avvicinandosi d’istinto, quasi aspettando un abbraccio o un
gesto d’affetto.
Continuava ad osservarla il giovane e aveva trattenuto il respiro prima
di
pronunciare quelle parole che non avrebbe potuto dimenticare. Parole
che
sembravano immortalare quel momento e renderlo più reale e
doloroso, un nodo in
gola che difficilmente si sarebbe sciolto quella volta.
“Devo
lasciarti andare, Brittany” aveva sussurrato, lo sguardo
velato di dolore e
aveva sentito qualcosa spezzarsi dentro di sé: ne aveva
stretto maggiormente la
mano e aveva boccheggiato prima di scuotere la testa.
“N-Non
capisco, è perché ho dimenticato di richiamarti o
perché-”.
Aveva
scosso il capo Sam, l’ombra di un sorriso prima di sfiorarne
teneramente la mano
e osservarla in viso con maggiore attenzione: aveva allungato la mano a
sfiorarne la guancia e scostarne i ciuffi di capelli biondi.
“Non
mi vuoi più bene?” aveva chiesto, la voce
più rauca ma il ragazzo aveva scosso
il capo, una contrazione dolorosa della mascella.
“E’
proprio per questo che devo farlo: perché so che il tuo
cuore non è mio”.
“Sam-”.
Aveva
boccheggiato, le labbra schiuse e gli occhi lucidi nel tentativo di
dire
qualcosa: vi era qualcosa da dire a quel punto? Una parte di
sé neppure sembrava
sorpresa di quelle parole, forse una parte di sé aveva
già capito ed era
d’accordo con lui.
“Mi
dispiace Britt” ne aveva baciato delicatamente la fronte e si
era alzato: non
si era voltato e si era allontanato. Soltanto sulla soglia
dell’uscio si era
voltato per quella che sembrava un’ultima volta.
“Lo
so che lo capirai”. Le aveva sorriso, quel sorriso
più dolce e sbarazzino e
Brittany era rimasta ad osservarlo fino a quando non era uscito
dall’aula di
canto.
No,
non capiva.
Perché
chiunque dicesse di amarla, finiva poi con l’abbandonarla?
Cosa
c’era di sbagliato in lei?
Perché
nessuno lo avrebbe mai spiegato?
Affondò
il viso nel cuscino, rannicchiata in posizione fetale, gli occhi chiusi
e
strinse con forza il cuscino.
Oggi
è una di quelle giornate in cui non importa ciò
che fai o
dici, ciò che pensi. Accade tutto quello che temevi e non
puoi fare nulla.
Sono
tanta stanca.
~
Era
passato molto tempo dall’ultima volta che era entrato nello
studio del padre ma
faceva effetto come, anche a distanza di tempo, riuscisse a procurare
quella
sensazione di profondo soffocamento. Quel desiderio di sfuggire da
quelle
stesse pareti, quel nodo in gola e quella contrazione del petto: si
rivide
bambino a rimirarne il profilo e cercarne un segno, una parola di
conforto o la
sua presenza.
Era
sempre stato così incredibilmente rigido, sempre impossibile
capirne i
pensieri, sempre arduo cercare di compiacerlo o riceverne un gesto di
apprezzamento.
Neppure
l’Accademia era servita: averlo tra gli insegnanti ben lungi
dall’essere uno
stimolo un avvicinamento, aveva reso tutto persino più
angosciante, soprattutto
leggere l’insoddisfazione per quanto cercasse di compiacerlo,
per quanto fosse
sempre una tortura sentirsi sminuire di fronte al resto della camerata.
Per
quanto essere suo padre non sembrasse fonte di orgoglioso o sprono a
stargli
vicino ma, piuttosto, un peso perché tutto ciò
che faceva non era mai
all’altezza delle sue aspettative.
Era
un dato di fatto e Hunter si era arreso all’evidenza.
Ma
sostava una parte di lui, la stessa che si accendeva talvolta di rabbia
e di
dolore che sembrava reclamare qualcosa, che sembrava incapace di
trovare pace.
Entrò
nella stanza dopo averne abbassato la maniglia con un gesto fluido e
sicuro:
era chino sulla propria scrivania, di fronte alla quale vi era un altro
uomo,
anch’egli in divisa.
Sollevarono
entrambi lo sguardo in sua direzione e il secondo uomo gli si
avvicinò: scrutò
a sua volta il nuovo arrivato ma, mentre lo sguardo del padre era
impenetrabile
come sempre, l’uomo gli rivolse un vago cenno del capo.
“Hunter”
lo salutò, infatti, e il ragazzo fece un cenno del capo a
quello che era stato
uno degli insegnanti dell’Accademia. “…
tuo padre mi ha comunicato la tua
decisione di tornare tra noi”.
Un
muscolo si contrasse sulla mascella del ragazzo che fissò il
padre, le
sopracciglia inarcate e la rigidità delle spalle mentre
questi tornava a
stilare qualcosa sul foglio di fronte a sé, totalmente
disinteressato alla
discussione.
“Saremo
lieti di riaverti: non avresti mai dovuto lasciare
l’Accademia per fare qualche
salto su un palco tra adolescenti pieni di frivoli sogni e false
speranze” era
evidente l’intonazione canzonatoria e il padre
serrò appena la mascella mentre
Hunter sostava immobile, ignorando le parole dell’uomo.
“Devo
parlarti” si rivolse al genitore ma questi lo
ignorò: per lunghi istanti di
silenzio il solo suono prodotto fu quello della penna che grattava sul
foglio.
L’ospite guardò dall’uno
all’altro vagamente divertito.
Solo
alla fine della stesura, Jonathan Clarington levò lo sguardo.
“Non
ho nulla da dirti” fu la gelida risposta e il ragazzo
trasalì come se fosse
stato schiaffeggiato.
Un
vago verso di divertimento dell’altro uomo.
“Papà”.
Tentò nuovamente, muovendo un passo in sua direzione ma fu
l’altro a
intervenire, le braccia incrociate al petto.
“Tuo
padre e superiore ti ha parlato: non hai motivo di restare qui.
Ritirati, è un
ordine”.
“ME
NE FREGO DEI TUOI ORDINI” si sentì gridare, i
pugni tremanti e la vista
offuscata ma sostenne lo sguardo dell’uomo che
sembrò persino più soddisfatto.
Si rivolse al collega con un sospiro.
“Come
ti dicevo, non avresti dovuto acconsentire ma sono sicuro che
riprendere
l’addestramento ne farà sbollire gli ardori da
steroidi e -”.
Jonathan
levò la mano ad interromperlo e si rimise in piedi.
“Andiamo,
abbiamo finito: parleremo altrove”.
Aveva
raccolto i documenti in una valigetta e, seguito dall’altro
uomo, aveva
attraversato la stanza: non aveva rivolto alcuno sguardo al figlio che
sostò
immobile. L’altro uomo ne diede una pacca sulla schiena,
chinandosi al suo
orecchio.
“Ci
vedremo molto presto, riposa Hunter”. Un verso di
divertimento e dovette
trattenersi dal fare nuovamente esplodere la rabbia e colpirlo.
La
porta si chiuse alle sue spalle e Hunter rilasciò il
respiro: ascoltò i loro
stivali percorrere i lunghi corridoi della villa prima di uscire e
sbattere
l’uscio.
Il
rumore dell’auto che usciva dal vialetto e
attraversò a grandi passi la stanza:
un gesto rabbioso quello con cui rovesciò tutte le
suppellettili dalla
scrivania e calciò via la sedia prima di uscire dalla stanza.
Dovremmo
smetterla di permettere agli altri di definire la
nostra vita e di calpestarci. Dovremmo parlarne di persona.
Si
era asciugato le labbra e aveva risposto il bicchiere sulla scrivania,
ignorando il miagolio preoccupato di Mr Pussy e il timido tentativo di
strusciarsi alla sua gamba. Un sorriso quasi maligno sul volto mentre
accludeva
un indirizzo.
Era
arrivato il momento che Sam Evans – o chi per lui –
pagasse per quello che
aveva causato.
~
Sembrava davvero un posto
strano ed insolito per un appuntamento: probabilmente
Jason non conosceva così bene Lima se aveva scelto un
edificio abbandonato e
non una caffetteria del centro o una piazza o una strada più
colorata e piena
di vita.
Si
era guardata attorno confusamente, ma aveva controllato più
di una volta ed era
certa che quella fosse la strada giusta: la stanza doveva esser stata
un atrio
o qualcosa di simile e vi erano ancora delle bacheche appese alle
pareti,
vecchi poster strappati.
Si
guardò ancora attorno, cincischiando con il cellulare fino a
quando una ventata
d’aria fredda non era penetrata nella stanza quando la porta
era stata
spalancata: si era voltata, pronta a conoscere il volto di Jason per
poi
inarcare le sopracciglia e sgranare gli occhi nel riconoscere il
giovane.
Questi
sorrideva, la mano adagiata alla porta mentre si guardava attorno, dopo
averle
rivolto uno sguardo ed essersi illuminato.
“Io
ti conosco” aveva sussurrato la giovane, il viso inclinato di
un lato mentre
questi – dopo aver controllato fosse tutto tranquillo
– si chiudeva la porta
alle spalle. Il sorriso continuava a baluginare nelle iridi ma non era
il
sorriso di ringraziamento che le aveva rivolto al ristorante, non
sembrava
neppure un sorriso particolarmente lieto e soddisfatto.
Sentì
una strana sensazione di disagio nello scrutarlo mentre questi si
toglieva il
soprabito che appoggiò all’attaccapanni.
“Sei
il ragazzo del ristorante” aveva proseguito e soltanto allora
era tornato ad
osservarla, il sorriso persino più divertito e soddisfatto
ma annuì.
“Hunter
Clarington” pronunciò e lo smarrimento ne
attraversò lo sguardo azzurro mentre
egli affondava le mani nelle tasche e cominciava ad avanzare in sua
direzione.
Non sembrava aver fretta, scrutava bene l’ambiente
circostante e continuava a
ronzarle attorno con lo stesso incedere flemmatico di un predatore.
“Credevo
ti chiamassi Jason” aveva ribattuto lei confusa, seguendone i
movimenti e
l’altro aveva ridacchiato in risposta, continuando a
scrutarne la figura,
camminandole attorno.
“Ho
mentito” replicò semplicemente.
“Non
ti piace il tuo nome?” aveva chiesto ingenuamente e
l’altro sembrò ridere
persino più forte.
“A
te non piacerà molto presto” di fronte al suo
sguardo sempre più confuso, aveva
sorriso.
“A
nessuno dei tuoi amici piace il mio nome ma, come ti avevo promesso,
ora ti
dirò dove ci siamo già visti”.
Si
era fermato di fronte alla giovane, le braccia incrociate al petto
prima di
porgerle una fotografia, strappata da un articolo, con tutto il coro
dei
Warblers.
Nel
riconoscere il giovane aveva sgranato gli occhi prima di tornare ad
osservarlo.
“Non
capisco, io-”.
Le
aveva appoggiato le dita sulle labbra, un sorriso canzonatorio nello
scrutarla.
“Credo
ci siano molte cose che tu e i tuoi amici non avete capito”
aveva sibilato.
“Una di queste è che non è mai
conveniente mettersi contro di me: dovresti
dirlo al tuo ragazzo, prima che riprenda a giocare al Detective
Conan”.
Normalmente
avrebbe sorriso del riferimento, affermando che Sam non amava
particolarmente
quel cartone ma preferiva i Simpson ma c’era qualcosa nel suo
sguardo che la
faceva atterrire. Sembrava esserci un fuoco, qualcosa di cattivo e di
maligno e
non riusciva a comprendere cosa potesse desiderare da lei,
perché dovesse prendersela
con lei.
Aveva
boccheggiato e aveva cercato qualcosa da dire.
“Se
sei arrabbiato, mi dispiace, a me è piaciuta la vostra
esibizione e-”.
“Shhh”
di nuovo alle sue spalle, Hunter le aveva cinto il fianco con un gesto
rapido e
secco che l’aveva fatta trasalire mentre ne carezzava
distrattamente con le
dita, una morsa quasi glaciale e prepotente prima di costringerla a
voltarsi e
osservarne gli occhi sgranati.
Era
impallidita e le tremavano le labbra: cercò di apporre una
timida resistenza ma
Hunter la premette maggiormente a sé.
Se
si fosse concentrato, nonostante le percezioni distolte
dell’alcool, avrebbe
potuto sentirne il calore della pelle al di sotto degli abiti, il seno
piccolo
ma sodo che premeva contro il petto, il suo battito alterato che era
persino
più eccitante mentre lentamente la povera piccola Alice
sperduta sembrava
realizzare il brutto guaio nel quale si era cacciata.
“Il
tuo ragazzo si è divertito con me ma, adesso,
sarò io a divertirmi con te”
aveva sussurrato mentre entrambe le mani ne cingevano la vita a
pressarla
maggiormente contro di sé: la sentì dibattersi ma
ne strinse i capelli,
facendole reclinare il capo all’indietro.
“E’
inutile che provi a urlare: non c’è nessuno qui
attorno” le disse maligno, il
sorriso ancora più prepotente ma la ragazza lo
guardò con occhi velati di
angoscia e di preoccupazione, un lieve gemito di dolore alla pressione
della
sua mano mentre Hunter ne scrutava la gola esile e delicata.
“Lo
so che Jason dentro di te, da qualche parte” aveva sussurrato
con voce flebile
e tremante, una supplica disperata che fece ridere Hunter persino
più forte.
“Quando
lo capirai che gli unicorni non esistono, tesoro?” la
schernì, attirandola
maggiormente a sé e strappandone un gemito di timore e di
dolore mentre si
chinava verso il suo collo e le mani cercavano di insinuarsi
nell’apertura
dell’abito sulla schiena.
Appoggiò
il viso al suo collo, ne percorse la linea curva con il respiro, la
sentì
cercare di scostarlo ma rafforzò solo la pressione.
Schiuse
le labbra per mordere la pelle candida e delicata, soffice.
Per
contaminare la sua purezza e sentirsi lui stesso meno sporco, per
deturpare
qualcosa di delicato perché nulla in quel mondo valeva la
pena di restare
integro.
Una
fragranza delicata e stuzzicante e sbarrò gli occhi nel
riconoscerla: un dardo
di luce nell’oscurità e sembrò
ritrovare un barlume di lucidità.
Voci
ed immagini lontane tornavano vivide e reali nella sua mente, ne
strappavano il
fiato e ne immobilizzavano il cuore in une gelida morsa.
Che sto facendo?
Ne
sentì il tremore diffuso, la voce ridotta ad un sussurro
disperato.
“Ti
prego… non lo dirò a nessuno, lasciami”
stava supplicando con il viso nascosto
contro il suo petto e Hunter deglutì a fatica.
Le
sue mani tremarono prima di scostarsi bruscamente, si passò
una mano sul viso
quasi soltanto in quel momento realizzasse lo scempio che stava per
compiersi.
Boccheggiò,
quel profumo quasi intossicante che ne riempì i pensieri.
“Vattene”
sussurrò e seppur dovesse essere un ordine, suonò
come una supplica, quasi non
si fidasse più di se stesso.
La
sentì trasalire: ne immaginò gli occhi sgranati e
confusi ma non volle leggere
nello sguardo azzurro quale mostro fosse divenuto, non voleva
incontrare i suoi
occhi e sapere quanto fosse ormai dannato e soltanto degno di biasimo o
di
disgusto.
Ne
ascoltò lo scalpiccio di passi mentre si affrettava a
raggiungere l’uscita e si
appoggiò alla parete alle sue spalle, gli occhi socchiusi e
il respiro
affannato prima di lasciarsi scivolare lungo la stessa.
Lo
sguardo verde perso in un punto indefinito e un solo pensiero fisso e
implacabile.
Fragola. Profuma di fragola.
~
Non
riusciva ad addormentarsi quella notte, Brittany: la sua mente
ripercorreva gli
eventi della giornata e l'incontro inconsapevole con quello stesso
ragazzo con
cui aveva parlato a lungo attraverso il computer.
Neppure
per un istante l'aveva sfiorata il dubbio che potesse essere
pericoloso, che
potesse celarsi qualche malintenzionato in una persona che, fino a quel
momento, le era stata di conforto, l'aveva fatta sentire compresa,
persino
protetta.
Ascoltò
i suoni del temporale ma ogni volta che provava a chiudere gli occhi
rivedeva
quello sguardo verde completamente trasfigurato dalla rabbia, da
qualcosa di
oscuro che sembrava dilaniarlo dall'interno, stravolgendone i
lineamenti,
rendendo essi stessi paurosi.
Si
strinse maggiormente alle coperte, premette il viso contro il peluche e
si
morse il labbro.
Forse
Hunter su una cosa era stato sincero: gli unicorni non esistevano.
C'era
un mondo spaventoso racchiuso fuori da quelle mura e lei era stata
sempre fin
troppo entusiasta e poco attenta per comprenderlo, lasciando che
fossero prima
Santana e poi Sam a prendersi cura di lei.
Ma
in quel momento non aveva più nessuno e avrebbe dovuto
risollevarsi con le sue
sole forze. Un lampo illuminò la camera e strinse
maggiormente il pupazzo.
Ma
anche in una notte di tempesta, ogni tanto luce squarciava le nuvole:
in Hunter
si celava ancora il Jason che aveva imparato a conoscere e al quale si
era
affezionata.
Doveva
soltanto lasciarlo emergere.
La
vista era annebbiata ma non era poi qualcosa di inusuale: era
appoggiato al
balcone del bar e svuotò l'ennesimo bicchiere. Il temporale
fuori dal locale
sembrava lontano anni luce.
Per
quanto cercasse di stordirsi, continuava a vedere lo sconcerto e la
paura in
quegli occhi, quelle labbra tremanti e quella supplica silenziosa.
Si
chiese come avesse potuto desiderare di insozzare quella purezza, come
avrebbe
potuto, soprattutto, vivere da quel momento in poi con una simile
consapevolezza.
Non
aveva in fondo già distrutto la reputazione e il rispetto
della Dalton?
Probabilmente
era il suo destino rompere tutto ciò cui appartenesse: il
prestigio della sua
famiglia, la fama di uno dei gruppi di canto coreografato tra i
più rispettati
e persino la purezza di una ragazza che aveva peccato di
ingenuità.
La
musica era sempre più alta, sorseggiò un altro
bicchiere e si rimise in piedi:
barcollò leggermente verso l'uscita, scontrandosi con uno
sconosciuto. Cercò di
metterne a fuoco l'immagine, mentre questi lo scostava bruscamente.
“Guarda
dove cammini”.
Un
vago sorriso gli increspò le labbra: forse non sarebbe
stata, dopotutto, una
serata del tutto inutile.
“Levati”
un gelido sibilo.
“Non
ho capito bene” lo minacciò l'altro e Hunter
sorrise. Lasciò scorrere lo
sguardo su tutto il locale prima di stringere la mascella e colpirlo.
Gli
furono addosso in breve tempo, trascinandolo fuori dal locale, sotto la
pioggia
incessante ed accerchiandolo. Non emise un gemito, chiuse gli occhi ad
ogni singolo
impatto, ogni singolo pugno e calcio che si abbatté sul suo
corpo.
Una
parte di sé seppe di meritarlo.
Fragola, pensò ancora
prima di perdere i sensi, neppure
accorgendosi della polizia giunta sul posto, lei
profuma di fragola.
~
Era
una bella giornata di sole quando si svegliò e Brittany
scostò le tendine della
finestra per rimirare il paesaggio con un sospiro. Lasciò
entrare l'aria fresca
e si voltò con sguardo più deciso.
Gettò un'occhiata al computer sul quale
aveva spesso, negli ultimi tempi, trovato risposte ai suoi dubbi e
tormenti, ma
non quel giorno.
Scosse
il capo.
Sarebbe
iniziata una nuova fase della sua vita, si era detta.
Sorrise
a sua madre, venti minuti dopo, quando entrò in cucina e
prese i cereali da
immergere nella propria tazza di latte mentre il padre seguiva il
notiziario
del mattino.
Non
amava i telegiornali, specialmente le brutte notizie che sembravano
sempre
rovinare il buon umore: immerse il cucchiaio nella tazza, riponendosi i
capelli
dietro l'orecchio fino a quando suo padre non alzò il volume.
“La Dalton?
Non erano i vostri
rivali?” le chiese e Brittany sollevò il capo
mentre il cucchiaio le sfuggiva
di mano dopo aver scorto la fotografia di quel viso fin troppo
familiare.
Lo
speaker prese nuovamente parola, si trovava al di fuori dell'ospedale
cittadino.
“Hunter
Clarington, già noto per l'accusa del ricorso agli steroidi
e l'espulsione del
suo gruppo dalle competizioni di canto del Paese, è stato
ieri ritrovato privo
di sensi all'uscita di un locale notturno. Sembra sia stato vittima di
un'aggressione: ha riportato due costole fratturate e delle
escoriazioni sul
volto. Inoltre, i livelli di alcool nel sangue erano elevati ma nessuna
sostanza stupefacente. Gli inquirenti sospettano che si tratti di una
rappresaglia tra ex compagni di scuola: ricordiamo che il giovane
è stato
espulso dalla Dalton Academy che si è detta completamente
all'oscuro
dell'intera vicenda.
Quel
che è certo è che l'inchiesta è
tutt'altro che conclusa”.
Suo
padre scosse il capo e spense la televisione con un sospiro.
“Non
mi sorprende che un tipo del genere abbia imbrogliato, ma è
stato tutto vano,
vero tesoro?” si era volto verso la postazione della figlia
ma sgranò gli occhi
al vedere il suo posto vuoto e, poco dopo, udì il tonfo
della porta di ingresso.
Indugiò
di fronte alla vetrata a lungo, lo sguardo perso nel vuoto e il respiro
convulso: ricordava ancora l'accusa che il giovane le aveva mosso
contro. Non
avrebbe potuto facilmente dimenticare quella luce nello sguardo fosco,
quella
rabbia quasi bestiale e selvaggia.
Nulla
di completamente simile all'immagine che scorgeva da quel vetro: era
steso sul
letto, il viso aveva qualche ammaccatura che era già stata
disinfettata.
Un'ampia fasciatura a coprirne il torace sotto la casacca
dell’ospedale.
“Vuole
entrare?” le chiese un'infermiera con aria bonaria e Brittany
esitò, il respiro
trattenuto prima che la donna le appoggiasse la mano sulla spalla e le
sorridesse con maggiore dolcezza.
“Non
avere paura: preferiamo rimanga addormentato ancora un po'. Era tutto
ammaccato” spiegò e Brittany varcò la
soglia della camera mentre l'infermiera
le indicava la sedia accanto al letto. Esitò ancora la
giovane ma, mossa da
qualcosa di inspiegabile (che fosse il dispiacere, la confusione o la
mera
curiosità, non seppe dirlo) si accomodò poco
dopo.
Ne
osservò il viso rilassato nel sonno: aveva le palpebre
strizzate e il respiro
era irregolare e difficoltoso: sembrava febbricitante a giudicare dalle
gocce
di sudore che colavano sul viso e un'escoriazione particolarmente
visibile
sulla guancia, poco sopra il neo accanto alle labbra.
“Sei
una sua amica?”.
Le
chiese l'infermiera, tra le mani la cartella del giovane e la penna tra
le
dita.
Brittany
si morse il labbro, distolse lo sguardo per osservare l'infermiera e
scuotere leggermente
il capo.
“Una
parente?” incalzò. “... abbiamo
già contattato suo padre ma non è ancora
arrivato: sono sicura che gli farebbe piacere avere qualcuno accanto,
quando si
sveglierà”.
Non
rispose Brittany, lo sguardo corse nuovamente al suo viso e alla
contrazione
dolorosa dei lineamenti.
“Si
riprenderà presto” le sorrise l'infermiera ma pose
da parte la cartella e le
strinse la spalla. “Vi lascio un po' soli”.
Il
suo viso sembrava invecchiato e gli occhi di una tonalità
verde simile alla sua
sembravano più opachi: ancora stentava a credere che se ne
stesse andando così
rapidamente.
Che
nell'arco di pochi mesi, della madre che aveva sempre amato fosse
rimasto così
poco: il viso era già incavato, quasi sempre stanca e il
parlare era sempre più
difficoltoso. Ma continuava a stringergli la mano, paradossalmente era
sempre
lei a farlo sentire al sicuro.
Bastava
il tocco delle sue dita tra i capelli o sul viso a farne infondere un
dolce
calore o specchiarsi nel suo sguardo per ritrovare una parvenza di
serenità.
Almeno
quella necessaria a mantenersi calmo e mantenere il controllo di
sé.
Era
stato in occasione della vittoria alle Provinciali che ne aveva visto
lo
sguardo raggiante di gioia e di orgoglio, lo aveva stretto e quella
fragranza
dolce e soffusa sembrava la sola a farne ritrovare il respiro. Le sue
dita a
sfiorarne i capelli e si era lasciato cullare come quel bambino che
cercava
l'approvazione del padre e trovava poi rifugio soltanto tra le sue
braccia.
Aveva
provato vergogna, per la prima volta, soltanto presentandosi a lei e
dicendole
ciò che era accaduto quando le analisi del sangue si erano
rivelate positive
all'uso di sostanze stupefacenti e il provvedimento disciplinare aveva
coinvolto l'intero coro.
Lo
aveva ascoltato sua madre, malgrado non osasse guardarla negli occhi,
gli aveva
stretto la mano con la stessa energia ed intensità e ne
aveva accarezzato il
dorso.
Solo
allora aveva puntato gli occhi nei suoi e il nodo in gola era divenuto
quasi
insopportabile.
“Mi
dispiace, mamma” aveva sussurrato con voce rauca.
Ella
aveva continuato a sorridergli con dolcezza e aveva scosso il capo.
“L'importante
è che tu stia bene” aveva articolato le parole con
difficoltà e Hunter aveva
schiuso le labbra.
“Non
volevo deluderti”.
“Non
lo hai fatto” aveva parlato con voce affannata e aveva
continuato a stringerne
la mano, prima di sollevare a fatica la sua. Hunter si era sporto,
consapevole
di cosa volesse fare e aveva lasciato che la carezza giungesse al suo
volto.
Aveva socchiuso gli occhi.
“Promettimi
che non ti farai più del male” aveva esalato sua
madre e Hunter aveva annuito
cercando di trattenere le lacrime.
“Va
tutto bene” lo aveva stretto a sé con dolcezza.
“Va tutto bene”.
Sembrava
fluttuare nel suo vuoto interiore: non vi erano suoni o luci, soltanto
oscurità
e silenzio e i volti e le immagini si sovrapponevano, senza lasciargli
trovare
pace o respiro.
“Cerca
di riposare, Hunter” sentì quel sussurro appena
percepibile, da qualche parte
lì vicino.
Di
nuovo quel profumo e quella determinazione interiore a seguirlo,
perché esso
stesso ne avrebbe procurato una guarigione.
Esso
stesso doveva essere quel segno invocato, il ritrovamento di se stesso.
Si
era alzata in piedi, sapeva che era giunto il momento di allontanarsi e
lasciare finalmente il capezzale del giovane: aveva passato
quell'ultima ora
ferma su quella sedia, rimirandone i lineamenti sofferenti per la
febbre, il
petto che si alzava e si abbassava quasi faticosamente e la contrazione
dei
muscoli. Era sempre più pallido ed emaciato,
sembrò provare a schiudere le
labbra, muoversi nel sonno e non poté che domandarsi se non
vi fosse anche un
brutto sogno a turbarlo. A quelle immagini, si erano sostituite quelle
del
giorno prima che aveva tuttavia rimosso per poi rimandare a mente
quegli scambi
di e-mail e quella comunicazione sotto false spoglie.
Malgrado
tutto, non poteva che continuare a ripetersi che il suo giudizio non
era stato
del tutto scorretto. Era sicura che Jason fosse dentro di lui, che si
celava
tra tanta rabbia e tanto dolore, qualcosa di buono. Che qualcosa lo
avesse
fatto cambiare e se era stata davvero la vittoria delle Nuove
Direzioni, dopo
la squalifica, non poteva che dispiacersene.
In
fondo, pensò osservandolo e non potendo fare a meno di
pensare che somigliasse
ad un bambino, era come in una delle sue favole preferite: il ragazzo
rancoroso
e maligno del giorno prima era una forma simbolica della Bestia, di
quell'anima
con le fauci e lo sguardo aggressivo; che in fondo non era che un
Principe, in
attesa della persona che spezzasse l'incantesimo che lo rendeva schiavo
di se
stesso.
Aveva
allungato una mano al suo viso, attenta a non urtare una delle
escoriazioni e
scostandone una ciocca di capelli.
“Cerca
di riposare, Hunter” aveva sussurrato, aveva lasciato il
bigliettino scritto poco
prima sul comodino accanto al letto e si era diretta verso l'uscita,
dopo
avergli rivolto un ultimo sguardo.
Quasi
si scontrò con un uomo sulla soglia dell'uscio e questi la
scrutò dall'alto, le
sopracciglia inarcate prima di spostarsi per consentirle di uscire.
Lo
ringraziò con un sorriso, immaginando – data la
somiglianza – si trattasse del
padre.
“Si
riprenderà presto” gli disse con voce soffice e
l'uomo inarcò le sopracciglia.
Annuì
appena, porgendole la mano.
“Jonathan
Clarington” si presentò e la ragazza la strinse a
sua volta.
“Brittany
Pierce”.
“Una
studentessa presumo”.
Aveva
annuito.
“La Dalton
Academy è un
istituto maschile”.
“Frequento
il McKinley”.
L'uomo
aveva appena annuito, seppur apparisse confuso e incuriosito dalla sua
presenza.
“Grazie
della visita: apprezzo un comportamento sportivo e leale” le
disse con fare
pomposo ma il sorriso non si estese allo sguardo che restò
glaciale nello
scrutarla.
“Sta
arrivando anche sua moglie?”.
L'uomo
si irrigidì.
“Hunter
la stava chiamando prima...”. Il cipiglio sulla fronte
dell'uomo sembrò persino
più accentuato.
“E'
morta due settimane fa” rispose secco e Brittany trattenne il
fiato mentre
l'uomo le volgeva appena un cenno del capo.
“Buona
giornata” non ebbe tempo di replicare perché la
porta le fu chiusa in faccia:
restò per qualche istante immobile ad osservare l'uomo di
fronte al letto del
figlio.
Gli
sembrava di sostare in una sorta di limbo senza suoni né
rumori: riusciva
tuttavia a percepire, di quando in quando, qualche voce. Sarebbe potuto
restare
esattamente in quel nulla, non la situazione ideale,forse, ma
lì non c'era
dolore.
Non
c'era timore e non c'era quella mancanza di respiro.
A
nessuno comunque sarebbe importato.
“Hai
visto quella ragazza?” sentì una voce poco
distante da lui e l'attimo dopo quel
piacevole refrigerio sulla pelle che lo indusse a rilassarsi mentre,
molto
lentamente, cominciava a riacquistare consapevolezza del suo corpo. Un
profondo
dolore all'altezza del fianco, il bruciore della pelle insieme alle
ferite sul viso.
“Quella
biondina carina? Non ha parlato molto: deve essere la fidanzata ma
è andata via
appena è arrivato il padre” sembrava confusa.
“Non mi sorprende,
faceva impressione persino
a me”. Ribatté l’altra ironicamente.
“Gli
ci vorranno un bel po' di antidolorifici”.
“Sempre
meglio degli steroidi: così giovane poi”.
Si
svegliò poche ore dopo: la gola secca e cercò di
sollevare il torace, gemendo
per il dolore e sfiorandosi appena il fianco laddove vi era la stretta
fasciatura. Allungò il braccio verso il comodino a prendere
un bicchiere
d'acqua fresca, scorse un cartiglio in un cartoncino colorato che prese
tra le
dita con sguardo incuriosito.
Una
calligrafia tondeggiante e femminile.
Ciao
Hunter,
Ho
ripensato a quello che mi hai detto ieri e se tutto questo è
accaduto per colpa
del mio Glee Club, mi dispiace e mi scuso per tutti noi.
Ma
credo ancora che tu in realtà sia quel Jason che ho
conosciuto: un po' come il
Principe e la
Bestia,
anche se non sembri un mostro e non hai le zanne!
Spero
che tu guarisca presto, non ho voluto svegliarti.
Ti
abbraccio,
xoxo
Brittany.
Si
adagiò nuovamente tra i cuscini, una mano sulla fronte,
ignorando l'infermiera
che era appena entrata e gli parlava con fare materno.
Continuò
a scrutare il cartiglio, nella mente l'immagine di quegli occhi
sgranati nel
timore e quel sorriso trasognato mentre giocherellava con il suo
ciondolo al
ristorante.
O
mentre gli porgeva la sua sciarpa e lo scrutava curiosamente per una
somiglianza non riconosciuta.
“Tornerà
presto” gli sorrise l’infermiera con aria appena
più maliziosa. “E’ stata lì
seduta per ore, prima che arrivasse tuo padre: davvero un fiore di
ragazza” si
era permessa di aggiungere e Hunter non aveva replicato.
Un
vago sospiro nell’appoggiarsi nuovamente al cuscino: ancora
una volta, Brittany
Pierce lo aveva lasciato senza parole.
Non
aveva detto a nessuno dove era stata realmente il giorno prima: una
parte di sé
sembrava sapere che non avrebbero mai potuto capire o avrebbero
continuato a
pensare che Hunter fosse solo un criminale e dovesse essere recluso.
Aveva
cominciato ad abituarsi a quella solitudine e guardare il profilo di
Sam non
era più molto doloroso: aveva fiducia in lui e sapeva che
avrebbe compreso a
pieno le sue parole e che separarsi fosse stata la giusta decisione.
O
forse il suo destino sarebbe stato simile a quello di Marley prima di
trovare
il coraggio di farsi avanti con Jake: guardare la felicità
altrui e restare
immobile o piagnucolare come un cucciolo.
Si
fermò di fronte al proprio armadietto, al solito
indugiò nel tentativo di
trovare la combinazione: era il suo compleanno o quello di Lord
Tubbington?
Avrebbe
dovuto scriverselo sulla mano, sospirò tra sé.
“Brittany
Pierce?”.
Si
volse confusamente.
“Sono
io” commentò e il fattorino le sorrise prima di
porgerle un pacco confezionato.
“Per
lei”.
“Wow!
Non è neppure il mio compleanno”
cantilenò allegra e, dopo aver firmato il
modulo del ragazzo, lo scartò incuriosita.
Rimirò
con un sorriso emozionato il peluche dell'unicorno: vaporoso, morbido e
rosa
con tanto di corno bianco. Ne baciò la punta del naso e se
lo strinse,
dondolandolo appena prima di notare la busta inclusa.
La
prese tra le dita e lesse attentamente.
Sbagliavo nel
dire che non esistono gli unicorni: sei
sicuramente una Unicorn Girl.
Perdonami per tutto, se puoi.
H.C.
Sorrise,
Brittany nello stringere più forte l'unicorno.
“Ti
chiamerò Hunter” sussurrò.
“Ma non dirlo a nessuno”.
~
La
festa era davvero ben riuscita se non fosse stato per il dettaglio
circa il
mancato matrimonio tra il Signor Shue e la consulente scolastica, un
epilogo
che nessuno avrebbe potuto immaginare. Tuttavia era stata una splendida
occasione per poter riabbracciare gli amici e rivedere chi si era ormai
allontanato da Lima verso un futuro splendido e pieno di gloria e di
successi.
Tutti comunque rimasti uniti dopo esser stati, tutti insieme,
l’anima del Glee
Club, uno spirito di unione che Brittany non aveva più
respirato malgrado
avessero imparato ad apprezzare ed amare anche i nuovi arrivati.
Non
si era aspettata di essere nuovamente serena anche nel rivedere Santana
e Sam:
una parte di sé sembrava consapevole che tutto fosse
avvenuto per uno specifico
motivo e si era ormai rasserenata nel vivere un’amicizia
speciale con entrambi.
Ricongiungersi sulla pista da ballo con Mike, poi, era stato come
recuperare
una parte di sé lasciata sopita: i loro movimenti erano
armonici e perfetti. Vi
era un’intesa del tutto particolare: laddove iniziavano i
movimenti dell’uno,
confluivano perfettamente a sincrono quelli dell’altra;
laddove l’uno prendeva
l’iniziativa, l’altro sembrava presagire quale
fosse la giusta risposta e, così
via, vincendosi sempre il centro della scena, almeno fino a quando, con
le
guance arrossate e qualche ciuffo a scivolarle dalla crocchia, non si
allontanò
dalla pista.
Si
appoggiò al balcone del bar, osservò Santana
ballare con Quinn e sorrise appena
prima che il barman le porgesse un frullato di fragola che
rimirò con le
sopracciglia inarcate.
“Signorina”.
“Non
l’ho ordinato” commentò confusamente, a
meno che il barista non avesse poteri
magici e riuscisse a leggerle la mente e sapere esattamente che cosa
avrebbe
desiderato.
“Le
è stato offerto, e mi è stato chiesto di
lasciarle anche questo” le aveva porto
una piccola busta che la giovane aveva schiuso nel rivelare un
cartiglio con
una scrittura familiare.
Spero di aver indovinato il gusto e
di vederti prima
della fine della festa.
H.C.
Controllò
nella busta e lasciò cadere la tessera magnetica che doveva
dare accesso ad una
delle camere dell’albergo. Sentì un fiotto di
calore salirle al viso seppur
continuasse a sorridere, nel rigirare il cucchiaio nel bicchiere per
poi
assaggiare la fresca bevanda.
Recuperò
la pochette e si allontanò con circospezione dalla sala per
poi cercare i
corridoi delle camere e quella contrassegnata dallo stesso numero
inciso sulla
tessera.
Rimirò
l’uscio, un’ultima occhiata tutto attorno, prima di
inserire la tessera nella
serratura che lasciò aprire la porta: entrò
all’interno e adagiò la pochette
sul mobile accanto all’ingresso mentre osservava la
portafinestra lasciata
schiusa.
Le
tendine ondeggiavano al tocco del vento ma, quando richiuse la porta
alle sue
spalle, ne intravide l’alta figura mentre rientrava nella
camera: appariva
molto più in forma di come lo aveva visto l’ultima
volta. Indossava un completo
scuro ma era un sorriso più amichevole e sbarazzino quello
che gli curvava le
labbra: era ormai in via di guarigione seppur ancora dovesse restare a
riposo.
La
loro interazione era ripresa poco dopo le dimissioni del giovane: lo
aveva
ringraziato per il peluche che sostava sempre sul suo letto e che
abbracciava
nelle notti di tempesta e lo aveva rassicurato di non provare rancore
nei suoi
confronti.
Era
buffo come lei stessa sembrasse esser divenuta il pilastro a
rassicurarlo ed
era proprio il giovane che aveva di fronte il vero Hunter, quello che
non si
rifugiava negli steroidi o quello vendicativo e pieno di rabbia, seppur
ancora
sostasse quell’aria più malinconica e misteriosa
nel suo sguardo.
“Ciao”
sorrise quando lo vide avanzare in sua direzione dopo che ebbe richiuso
la
portafinestra alle sue spalle. “Come stai?”.
Aveva
sorriso in risposta, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni e
inclinando
il viso di un lato.
“In
piena guarigione” rispose tranquillamente.
“E come va la festa di matrimonio?”.
“Bene,
a parte che non c’è stato nessun
matrimonio” specificò e di fronte al cipiglio
perplesso dell’altro si affrettò ad aggiungere:
“Il
Signor Shuester voleva comunque che ci godessimo il rinfresco. E, a
proposito,
grazie del frullato” si era appena dondolata con il busto in
un sorriso grato e
il giovane si era stretto nelle spalle con un cenno non curante, una
vaga
espressione pensierosa.
“Ti
ho vista ballare” commentò, le braccia incrociate
al petto, le sopracciglia appena
aggrottate. “E non mi è piaciuto”.
Aveva
sbattuto le palpebre, genuinamente confusa e un poco offesa nel
raggrinzire il
naso. “Non ti piace come ballo?” aveva chiesto,
infatti, vagamente risentita in
quell’increspare le labbra come una bambina.
Ridacchiò
nell’avvicinarsi maggiormente e scuotere il capo.
“Non
mi piace con chi hai ballato” fu la semplice replica.
Sgranò
gli occhi Brittany ma prima di chiedergli se avesse qualche particolare
antipatia per i cinesi (o Mike era coreano? O forse giapponese?), lo
osservò
porgerle la mano con un gesto fluido e, di fronte al suo sguardo verde,
sentì
il cuore accelerare lievemente i battiti.
“Non
c’è musica” osservò
confusamente e il ragazzo si scostò appena per estrarre,
dalla giacca del completo, il suo iPod che appoggiò sul
tavolo e collegò ad una
presa per lo stereo.
Fece
scorrere le tracce per cercare un brano e Brittany si sorprese della
scelta di
uno lento.
Buffo
come le fosse semplice imitare coreografie di Britney Spears o Ke$ha ma
un
brano simile potesse suscitarle una minima insicurezza, o forse era il
pensiero
di un simile contatto proprio con lui. Le si avvicinò
nuovamente ma, con sua
sorpresa, allungò entrambe le mani verso il suo volto.
“Scusami”
sussurrò e delicatamente accostò le dita al
fermaglio che ne tratteneva i
capelli in quella crocchia più austera: li lasciò
scivolare lentamente e
delicatamente in ciocche più lunghe e lievemente ondulate
che ricaddero sulle
sue spalle e sul vestitino bianco con decorazioni di rose rosse, lo
stesso
colore delle fragole.
Era
stato proprio quello il mezzo con cui era stato in grado di
riconoscerla fin
dal primo istante: quasi la sua figura in qualche modo riuscisse sempre
a
spiccare. Tra abiti eleganti e donne dal fascino sinuoso e
più sfacciato,
sembrava sorgere timida come le fragole di bosco eppure naturale. Vera
per
quanto vi fosse quella spiccata innocenza che sembrava così
poco collimare con
un fisico sbocciato da ballerina.
“Molto
meglio” commentò il giovane e la ragazza si
concesse di sorridere ma attese che
le porgesse nuovamente la mano.
“Quindi
non ti piace come ballo con Mike e non ti piacciono i capelli legati,
qualcos’altro?”.
“Te
lo farò sapere se mi calpesterai i piedi” fu la
risposta fintamente altezzosa
che le strappò un verso divertito ed indignato prima di
intrecciare le dita
alle sue e cercarne istintivamente lo sguardo. Una dolce aritmia mentre
l’altra
mano del giovane si adagiava alla sua vita: un gesto delicato ma fermo,
quasi
temesse di farle male e, ricordando che Hunter stesso fosse ancora in
via di
guarigione, stette attenta a non comprimerlo mentre appoggiava la mano
libera
alla sua spalla.
Non
sapeva esattamente cosa fosse quella sensazione: era come se, dopo
tanta rabbia
e tanto dolore, tanto diniego di se stesso e di tutto quello che era
accaduto e
in rapida frequenza, quando tutto gli era caduto addosso; finalmente vi
fossero
attimi nei quali riuscisse a sentire di nuovo qualcosa.
Qualcosa che non fosse il desiderio di rivalsa, o una
selvaggia gioia al pensiero di poter calpestare gli altri e detenere il
controllo.
Nulla
di tutto questo, soltanto una nuova serenità che lo induceva
a rilassarsi ed
abbassare le difese, lasciare che la sua ingenuità e
sincerità, che quella
dolcezza mista ad una spontaneità quasi infantile, riuscisse
a scorgere una
parte di sé. Forse persino comprenderla.
Aveva
imparato fosse tutt’altro che scontata: laddove apparisse
quasi
oltraggiosamente ingenua, dimostrava una sensibilità
altrettanto sconcertante.
O forse quella traccia di calore in un semplice sorriso, nel suo
arrossire, o
quella delicatezza con cui la sua mano sostava nella propria, persino
troppo
piccola. Quasi vi era la suggestione e l’attenzione a non
stringerla troppo
eppure quel contatto appariva qualcosa di perfetto.
Di
giusto e di sospirato mentre socchiudeva gli occhi, guidandola in
movimenti
lenti a descrivere delle semicirconferenze.
It's
hard for me to say the things[3]
I
want to say sometimes
There's
no one here but you and me
And
that broken old street light
Lock
the doors
We'll
leave the world outside.
Un
invito quasi naturale per farla salire nella camera che aveva
appositamente
affittato: non premeditato per condurla in quelle note. Non
c’era il bisogno di
ostentare nulla in quei movimenti, alcuna competizione o dimostrazione
di
forza: era il gesto in se stesso e condividerlo con chi qualcosa di
speciale e
di unico lo racchiudeva in sé.
Qualcosa
che forse non era sempre compreso o apprezzato, qualcosa che non si
scorgeva di
prima istanza ma che, scavando oltre le apparenze e quella prima
scorza,
riusciva a farne brillare tutto il resto.
Qualcosa
che andava protetto e custodito, aveva pensato nel rafforzare
istintivamente
quel contatto e nel socchiudere gli occhi quasi a concentrarsi sui loro
respiri
sincronizzati.
O
sulla fragranza di fragola che lo investiva in un abbraccio silenzioso
eppure
avvolgente che sembrava giungere fin dentro l’anima.
I
never knew I had a dream
Until
that dream was you
When
I look into your eyes
The
sky's a different blue.
Si
era scostato appena a scrutarne gli occhi limpidi e sinceri: neppure
lei
sorrideva in quel momento. Ne sentiva il corpo esile adagiato
perfettamente al
proprio, i movimenti perfettamente sincronizzati nel sollevare appena
il
braccio perché potesse fare una piroetta e poi attirarla di
nuovo a sé.
Fu
forse in quel momento: quando entrambe le braccia della giovane si
ancorarono
al suo collo e ne cinse la vita, che tutto il resto sembrò
fermarsi in quel
reciproco contatto di iridi.
In
una domanda inespressa che sembrava sostare tra loro, levandosi con le
note più
struggenti, quelle che riuscivano a far breccia nella consapevolezza
ancora
annebbiata.
Quasi
fossero sempre state scritte e riprodotte fin quando non giungesse il
loro
momento.
Quando
sembrò impossibile ignorare quel richiamo e si
chinò appena: lo sguardo ancora
sostava nel suo al vederla sgranare gli occhi, le guance arrossate.
Per
la prima volta quasi timoroso e consapevole di un possibile diniego, la
vide
distogliere lo sguardo e sostò con la fronte appena
appoggiata alla sua.
“D-Devo
andare” sussurrò e Hunter fremette.
Ne
cercò lo sguardo, cercando di ignorare quel peso nel petto,
ma sembrava persino
più dispiaciuta di lui che annuì, ancora sostando
in quel momento e lasciandone
la vita, gli occhi socchiusi.
Lasciò
che si scostasse, il respiro appena più difficoltoso, ne
scrutò la schiena
esile mentre afferrava la pochette e abbassava la maniglia per
schiudere la
porta.
Sembrava
però esitare da compiere quel passo in avanti e
affondò nuovamente le mani
nelle tasche, ignorando il pulsare del pomo d’Adamo.
“Ho
prenotato per tutta la notte” sussurrò in
risposta, una richiesta o una
preghiera, difficile dirsi.
La
sentì trasalire e quel momento di silenzio sembrò
il più lungo mai vissuto.
“Ciao
Hunter” sussurrò con voce soffocata e
oltrepassò la soglia.
Cross my
heart
I wear no disguise
If I tried, you'd make believe
That you believed my lies.
Si passò una mano
tra i
capelli, Hunter, un sospiro pesante prima di spegnere lo stereo, lo
sguardo
fisso laddove era appena svanita.
E
con lei anche quel
calore benefico.
Si adagiò contro la
porta, la mano sul cuore che non aveva smesso un solo
istante di scalpitare furiosamente e le sue labbra tremavano di quel
bacio in
sospeso e quella malinconia improvvisa.
Osservò
la porta dietro di sé, un corrugamento delle labbra, la
sfiorò delicatamente,
quasi sperando quel gesto potesse compiere una simile carezza sul suo
volto.
Qualunque cosa per non far smettere quegli occhi di splendere, oltre
quella
rabbia o la malinconia di cui erano stati per troppo tempo intrisi.
Continuò
ad osservare le coppie danzanti ma quando un giovane le si
avvicinò porgendole
la mano in un gesto fluido, rifiutò con un sorriso di scuse
e una parola
gentile.
Sospirò
nel giocherellare con una ciocca di capelli, le mani a sfiorarsi
istintivamente
le labbra per poi inarcare le sopracciglia al vedere la macchia di
rossetto e
ridere di se stessa.
Non
era quello il suo posto.
Fu
con un sorriso allegro che varcò per la seconda volta la
soglia della camera
del giovane e si guardò attorno, notando la portafinestra
nuovamente aperta.
Si
avvicinò in punta di piedi, dopo aver tolto le scarpe
– un breve gemito per il
gonfiore dei piedi – e si affacciò sulla soglia
della terrazza: tra le mani una
coppa di fragole e nell’altra un barattolo di panna montata
mentre il ragazzo,
quasi percependone lo sguardo, si era voltato in sua direzione.
Un
vago inarcare delle sopracciglia seguito da un sorriso al vederla
agitare il
barattolo.
“Avevo
un languorino” si giustificò e lo sguardo del
giovane corse alla coppa che
teneva tra le mani prima di tornare ad osservarla e gli allineamenti si
ammorbidirono nel sorriso che ne fece guizzare le iridi.
“Sei
una fragola”.
“Mh?”.
Scosse
il capo, un vago sorriso prima di entrare per un istante nella camera,
il tempo
di prendere un lenzuolo da disporre per un improvvisato pic nic al
chiaro di
luna.
Era
da molto tempo che non provava una simile serenità in cuor
suo, Brittany: non
vi era neppure bisogno di parole o di trovare qualcosa di giusto e di
sensato da
dire. Anche il silenzio sembrava qualcosa di piacevole
perché condiviso mentre,
di quando in quando, ne scrutava il profilo, illuminato soltanto dalle
stelle e
dalla luce all’interno della stanza.
Era
stato un gesto silenzioso quello con cui l’aveva avvolta in
una coperta perché
non sentisse freddo, poggiandogliela sulle spalle e aveva sorriso
intenerita da
quelle premure, mentre appoggiavano entrambi la mano nella coppa alla
ricerca
delle ultime fragole.
Un
contatto tra le loro dita, uno scambio di sguardi e un cenno di scuse
prima che
il giovane la esortasse a prendere l’ultima che si
portò alle labbra con un
sorriso giocoso.
Non
aveva parlato, Hunter, lo sguardo aveva indugiato sulle sue labbra
prima di
scostarlo nuovamente e tornò un lieve silenzio tra loro
prima che fosse il
giovane stesso a infrangerlo mentre quella brezza gli sfiorava i
capelli.
“Pensi
che lei non lo ami: per questo è fuggita via?”
aveva domandato in un sussurro e
Brittany aveva aggrottato le sopracciglia nel pensare a quella
splendida coppia
e a quanto ognuno di loro avesse atteso il momento in cui Mr Shue
ammettesse i
suoi sentimenti e lui ed Emma potessero essere felici. E insieme. Per
sempre
felici e contenti, come in una favola.
Aveva
scosso il capo alla domanda, guardandolo apertamente, sicura come poche
volte
in vita sua.
“Forse
è scappata perché lo ama troppo e teme di non
essere abbastanza” erano state
parole quasi spontanee, naturali, quasi una verità che
avesse sempre saputo.
Probabilmente
una verità celata in se stessa, visto come la sua voce
tremò nel continuare ad
osservarlo, quasi fossero un suo stesso riflesso.
Doveva
averlo intuito Hunter perché silenziò a lungo, lo
sguardo che, tuttavia,
restava concatenato a quello della giovane seppur non osasse un
avvicinamento
ulteriore. Seppur dovesse indugiare a quella distanza, anche quando
sembrava
esserci un filo che li legasse ed impedisse loro di spostarsi troppo
senza
compromettere anche l’altro.
“Allora
lui dovrebbe farle sapere che è soltanto una sua
paura”.
Fu
il suo commento, la voce più placida e delicata nel
continuare ad osservarla,
quasi volesse che quelle parole fossero perfettamente comprese, persino
il
significato sottinteso seppur non proclamato.
Brittany
sentì quel nodo in gola attenuarsi: proprio come
all’inizio della loro
corrispondenza – seppur con mentite spoglie –
sapeva sempre trovare le parole
giuste per farle intravedere speranza. Per attenuare il suo malessere,
anche
quando non manifestato.
Annuì
mentre sentiva la stanchezza prendere il sopravvento, stringendosi
maggiormente
nella coperta ma Hunter si sollevò ed ella lo
guardò confusamente.
“E’
tardi” le aveva sorriso, porgendole la mano che Brittany
aveva preso senza
esitazione, si sollevò, ancora avvolta nella coperta, e
rientrarono nella
camera.
“Vuoi…
vuoi che ti accompagni a casa?”. Aveva chiesto il giovane e
la ragazza aveva
rimirato la stanza d’albergo e l’altro letto
singolo ed intatto.
Lo
aveva guardato quasi esitante prima di accomodarsi sul secondo letto,
togliendosi di dosso la coperta, osservando le sue scarpe abbandonate
in un
angolo della stanza.
Aveva
scosso il capo e Hunter aveva lentamente sorriso prima di annuire e
accomodarsi
sul letto di fronte.
“Il
bagno è di là se vuoi rinfrescarti”.
~
Il
suo viso era scolpito nella
concentrazione di quei gesti che le erano naturali ed erano espressione
della
sua stessa delicatezza, insita in ogni azione. Non era insolito che,
adagiato
sul balcone ed impegnato nel suo studio, sollevasse di tanto in tanto
lo
sguardo.
Mr Pussy gli procurava un
piacevole
calore strusciandosi alle sue caviglie per poi saltargli in grembo e
cercarne
una carezza anche quando ancora intento a svolgere i suoi compiti.
Sua madre appoggiò
la crostata sul
piatto con espressione soddisfatta e il giovane la osservò
mentre, un gesto più
infantile, allungava il dito a saggiarne la marmellata.
Non c’era neppure
bisogno di
chiederle quale avesse scelto: sembrava essere il suo tratto
distintivo. Una
luce di colore nella routine e nel contrasto netto e quasi spaventoso
con
l’autoritarismo del padre.
Osservandola così
vicina, reale, così
delicata nei movimenti, aveva adesso la sensazione imminente che
avrebbe potuto
spezzarsi da un momento all’altro, quella voglia e
quell’impulso di coprire le
distanze, avvolgerla in un abbraccio. Quasi consapevole che la lancetta
del
tempo non stesse girando in suo favore e che presto avrebbe dovuto
soffrirne la
mancanza.
Ma proprio quando ella
allungò il
viso in sua direzione e si protese a ricevere quella carezza,
l’immagine svanì.
L’odore dei
medicinali era acre,
quasi pungente a farne lacrimare gli occhi: di quella
vitalità non restava che
una foglia quasi spezzata. Lo sguardo era stanco, sofferente, il viso
era
pallido e stentava ad allungare la mano per riuscire a sfiorarne il
volto.
Continuava a stringere la sua mano: la remota e pallida speranza di
trattenerla.
Fin quando ne avesse bisogno,
fin
quando egoisticamente non si fosse sentito pronto a lasciarla andare;
un
momento che, per quanto paventato e noto, non avrebbe potuto
sopportare, non
senza recriminare. Non senza sentirsi pieno di rabbia, non senza quella
sensazione di impotenza che gli faceva desiderare di avere nuovamente
il
controllo. Di poter gestire le cose a suo piacimento, di sentirsi
nuovamente
pervadere del piacere di sapersi forte ed incrollabile; di
quell’attimo di
adrenalina nel quale tutti gli sguardi ammirati gli fossero rivolti e
leggesse
il timore e la soggezione dei suoi rivali.
Un solo attimo, lo stesso
battito di
ciglia in cui la presa sulla sua mano si era affievolita: gli aveva
rivolto un
ultimo sguardo d’amore, di scuse e di dolcezza e lentamente
le palpebre si
erano abbassate, le labbra si erano schiuse.
E tutto era spento intorno a
sé.
Tutto era perduto, una parte
di sé
era morta con lei.
“Hunter”
ne sentì il placido richiamo e si drizzò con il
busto: il viso madido di sudore
e pallido, le labbra schiuse nel tentativo di inspirare nuovamente, il
battito
convulso e quasi disperato.
“Era
solo un incubo” aveva sentito la stessa voce delicata e
sussurrata e,
lentamente, aveva cominciato a mettere a fuoco l’immagine del
suo volto mentre
ella si sporgeva ad accendere la lampada accanto al comodino del suo
letto. Si
era seduta sul letto, e lo osservava preoccupata, il viso inclinato di
un lato
e Hunter distolse lo sguardo, le labbra ancora tremanti nel tentativo
di
comprendere se quell’oppressione al petto fosse una
conseguenza del sogno o non
lo avesse mai abbandonato.
Aveva
sentito la giovane allungare esitante la mano al suo viso, sfiorandone
appena
lo zigomo.
“Stai
bene?” aveva chiesto in un sussurro e il giovane era tornato
ad osservarne gli
occhi limpidi, quell’aroma in sospeso tra loro e che sembrava
impresso sulla
sua stessa pelle, tra i capelli, la sua stessa essenza vitale.
Scosse
lentamente il capo, il timore di pronunciare parola che rendesse tutto
più
reale ed insopportabile; il timore di lasciare andare quel dolore e con
esso
perdere nuovamente una parte di sé.
La
giovane sembrò sorpresa di quell’ammissione ma
sembrò comunque aver pensato
qualcosa perché gli sorrise prima di sollevare le lenzuola
ed appoggiarsi essa
stessa al suo materasso, osservandolo incoraggiante.
“Ti
darò un abbraccio magico:
funziona
sempre quando me lo dà mamma e ti prometto che non farai
più incubi” sussurrò
soltanto, facendone inarcare le sopracciglia ma quando, con lo stesso
sorriso
giocoso e più sicuro, la giovane si sporse a cingerne il
collo, sentì soltanto
quell’effluvio di calore aromatizzato alla fragola.
Lasciò
ch’ella, con la pressione delicata ma ferma, lo facesse
stendere: la vide
allungare nuovamente il braccio a spegnere la luce e tutto fu ombra.
Ma
non era mai parso così luminoso: restò rigido un
primo istante, riusciva a
percepire le dita carezzevoli ed attente sfiorarne delicatamente la
nuca, quasi
a cullarlo, respirava quel profumo direttamente dalla sua pelle e
lentamente
chiuse gli occhi.
Sembrò
finalmente respirare di nuovo: le sue braccia ne serrarono
delicatamente la
vita, affondò il viso contro la sua spalla esile e rimase
immobile mentre ella
stessa si rilassava, continuando a sfiorarne i capelli, la schiena.
Una
placida rassicurazione che tutto sarebbe andato bene e, per la prima
volta,
Hunter vi credette. Vi
si abbandonò. La
cercò, nel modo in cui ne cinse la vita, disperando che quel
momento lo
cullasse ancora a lungo e che non dovesse affrontare il mondo fuori da
quella
stanza. Che l’ombra li avvolgesse e li nascondesse.
Ancora
un altro attimo.
La
brezza leggera ne sfiorò il viso e schiuse lentamente gli
occhi dopo quel lungo
e benefico torpore. Mosse appena il volto e allungò la mano
ma sembrò solo
raccogliere con le dita un sogno scivolato dalle stesse. Schiuse gli
occhi per
scoprire che l’altra parte del letto era vuota: si
voltò ma anche l’altro letto
era vuoto e lentamente si sollevò con il torso: si sporse a
cercare le scarpe
abbandonate sulla moquette per poi realizzare di essere solo.
Un
lento e pesante sospiro prima di voltarsi verso il comodino e scorgere
il
foglietto scritto con quella ormai svolazzante e familiare grafia.
Ho
detto una bugia, Hunter.
Gli
abbracci magici non esistono ma volevo tanto tenerti vicino.
Scusami.
Lentamente
le labbra si contrassero in un sorriso, sfiorò appena le
parole iscritte e ne
immaginò il volto mentre le tracciava sul foglio di carta.
Sbagliava
ancora una volta: la magia non era impressa in una creatura mitologica
o in una
convinzione puerile.
L’aveva
con sé ed era riuscita a fargliene percepire un anelito.
Sperò non fosse
l’ultimo.
~
Osservò
l’abito appeso sull’anta del proprio armadio mentre
sostava seduta sul proprio
letto, accarezzando distrattamente Lord Tubbington.
Lo
sguardo era fisso ed immobile, perso in un punto lontano, ripercorrendo
quella
notte trascorsa con il giovane: il calore che aveva provato lei stessa
in
quell’abbraccio, la sensazione di pace e di benessere,
persino di appartenenza
a quel momento e la consapevolezza fosse tutto perfetto e lei stessa
stava
cercando di renderlo tale ma non soltanto per sé.
Le
sembrava di aver scorto in quello sguardo, in quel segno di diniego,
tutto il
bisogno e il dolore che doveva aver trattenuto troppo a lungo:
istintivo era
stato allora il pensiero di poter cercare di alleviarlo. Anche soltanto
poche
ore perché riuscisse a riposare senza sentire quel nodo in
gola, senza
svegliarsi turbato da un sogno.
Lo
aveva osservato a lungo quando si era svegliata: quasi timorosa che un
respiro
troppo forte potesse disturbarne il riposo, quella pace che si
intravedeva nei
suoi lineamenti e che li plasmava in quel momento. Le palpebre
abbassate, il
viso rilassato e il petto che si alzava ed abbassava regolarmente, la
pressione
con cui l’aveva trattenuta a sé con decisione
seppur senza troppa forza.
Aveva
sentito qualcosa di simile ad un nodo in gola nel momento in cui si era
costretta a scostarsi ed allontanarsi: aveva indossato nuovamente le
scarpe ma
aveva indugiato accanto al letto prima di chinarsi a baciarne la fronte.
Aveva
camminato in punta di piedi prima di chiudersi dolcemente la porta alle
spalle
ma aveva indugiato un altro lungo istante ad osservare la porta prima
di
allontanarsi, eppure la sensazione di essergli vicina più
che mai.
Era
rientrato di primo mattino e non era stato sorpreso di constatare che
la casa
fosse vuota: si era chiuso l’uscio alle spalle e Mr Pussy
aveva miagolato a mo’
di saluto prima di avvicinarsi e strusciarsi alle sue gambe. Si era
chinato
appena a sfiorarne il pelo prima di avviarsi in cucina, incoraggiandolo
a
seguirlo per poi versargli del cibo e dell’acqua nelle
rispettive ciotole.
SI
era tolto la giacca e sbottonato la camicia prima di rientrare nella
propria
camera, stiracchiandosi un poco, seppur il sorriso sembrasse impresso
sulle
labbra e tutto apparisse molto più leggero.
C’era
tuttavia una scintilla di determinazione nello sguardo mentre apriva le
ante
dell’armadio per cercare qualcosa da mettere:
sfiorò il tessuto pesante della
divisa che indossava in Accademia, sfiorò tutte le spille
per un lungo istante.
Osservò
i moduli da compilare per l’iscrizione che suo padre aveva
lasciato sulla sua
scrivania.
Si
rivide in quella risoluzione nel fare proprio il sogno del padre, nel
cercare
di emularlo e compiacerlo fino a trasferirsi in Colorado, lontano dalla
sua
casa e dagli amici, lontano da sua madre e dal mondo in cui era
cresciuto.
Richiuse
l’armadio e seppe qual era la giusta decisione.
Non
era insolito che suo padre si fermasse fuori a pranzo ma attese che
fosse
chiuso nel suo studio per raggiungerlo: aveva bussato ma non aveva
atteso
risposta e aveva schiuso la porta per poi entrare ad avvicinarsi alla
scrivania.
L’uomo
era seduto a compilare dei documenti ma sollevò lo sguardo
quando Hunter si
fermò di fronte a lui e depositò il modulo di
fronte a lui.
Lo
scrutò, le sopracciglia inarcate.
“Non
è compilato” commentò e si
appoggiò alla sedia, le dita delle mani incrociate
ed adagiate sullo stomaco mentre lo scrutava con le sopracciglia
inarcate.
Annuì
Hunter, risoluto.
“Non
ho intenzione di tornare in Accademia”.
“E
me lo staresti chiedendo perché hai cambiato idea
dopo…?”.
“Non
te lo sto chiedendo” fu la risposta del ragazzo, scrutandolo
con sguardo più
sicuro e limpido. “Ho preso la mia decisione: te
l’ho solo comunicata”.
Rimasero
a scrutarsi per un lungo istante prima che Jonathan parlasse.
“Ha
a che fare con quella ragazza?” di fronte
all’evidente sorpresa dell’altro,
annuì come a convalidare la propria ipotesi..
“Quella all’ospedale? Perché non
ti permetterei di gettare via il tuo futuro per una futile e
sciocca…”.
“Brittany
non è futile né sciocca” fu la replica
secca e stizzita, un corrugamento delle
sopracciglia e strinse i pugni lungo i fianchi.
“Ma
la decisione è mia: per troppo tempo ho cercato di emularti,
di compiacerti
senza mai riuscirci. E’ il momento di realizzare le mie
aspettative”. Era stata
la replica del ragazzo prima di voltarsi e attraversare lo studio.
Solo
quando appoggiò la mano sulla maniglia, sentì il
richiamo del padre: si volse e
l’uomo lo guardò con il viso inclinato di un lato.
“Dovrei
cavartela da solo d’ora in poi” fu il pacato
commento e il ragazzo annuì.
“E’
la mia decisione”.
Annuì,
Jonathan, strappò il modulo, lo appallottolò e lo
gettò nel cestino.
“Chiudi
la porta quando esci”.
Sospirò
Hunter e osservò il corridoio vuoto, decisamente da quel
momento respirare
sarebbe stato molto più semplice.
~
Quello
era uno dei frangenti nei quali non avesse timore di lasciarsi andare:
poteva
essere completamente se stessa, senza più timori o
soggezione perché quando era
sul palco, quando ballava di fronte ad un pubblico o poteva lasciarsi
volteggiare, era in quei momenti che credeva di poter liberare la sua
stessa
essenza.
Dimenticava
la pressione, le aspettative di tutti o la competizione con altri
gruppi di
canto coreografato altrettanto determinati, talentuosi se non persino
più
appariscenti; se una parte del Glee Club se n’era andato
quando Santana, Rachel,
Kurt, Mike e gli altri se n’erano andati, sapeva fosse suo
compito, in
particolare, aiutare la squadra e contribuire con
quell’innesto di energia che
non le era mancato.
Soprattutto
in quei momenti.
Eppure,
al contempo, la sua danza sembrava diversa: i movimenti erano quelli
della
coreografia già appresa ma c’era una nuova
vitalità ed era più che mai
consapevole dell’armonia che la danza poteva farle esprimere,
un dialogo con se
stessa e con i suoi sentimenti.
Dopo
l’esibizione tornarono dietro le quinte, abbracciandosi e
congratulandosi gli
uni con gli altri e solo allora si concesse di togliere i nastri con
cui aveva
trattenuto i capelli e di aspettare che gli altri gruppi potessero
esibirsi per
poi conoscere la decisione finale dei giudici.
Stava
per accomodarsi nella sala d’attesa quando lo sguardo fu
catturato da un
bouquet di rose e una busta insinuata al di sopra con il suo nome: si
avvicinò
con il cuore scalpitante e un sorriso più dolce nel
riconoscere la calligrafia.
Forse
(non ne sono sicuro) gli abbracci magici non
esistono ma mi piacciono le piroette magiche. Mi piacciono le tue.
H.C.
Si
guardò attorno confusamente, ignorando i richiami degli
amici e, il bouquet tra
le mani, uscì dalla stanza, guardandosi attorno tra i vari
corridoi fino a
quando non riconobbe una schiena familiare che sembrava dirigersi verso
l’uscita.
Accelerò
il passo, incurante del costume di scena e degli sguardi che
attirò di
avversari e di altri gruppi che attendevano il loro turno per esibirsi:
chiamò
il giovane e lo vide fermarsi di fronte alla porta prima di voltarsi.
Un
sorriso gli increspò le labbra mentre lo raggiungeva.
Schiuse
l’uscio e lo trattenne aperto, facendole cenno di passare per
prima: un sorriso
le fece curvare le labbra, si avvicinò e si
sollevò sulle punte per baciarne la
guancia, specchiandosi nel suo sguardo limpido.
Un
timido gesto ma un boato interiore mentre, le guance rosate e gli occhi
appena
più luminosi, usciva insieme a lui nel parco vicino al
teatro nel quale aveva
luogo l’esibizione.
Camminarono
fianco a fianco per diversi istanti ma prima che Brittany prendesse la
risoluzione per ringraziarlo dei fiori, il giovane si volse ad
osservarla.
“Sei
fuggita di nuovo” fu il placido sussurro e Brittany
abbassò per un istante lo
sguardo con fare colpevole prima di sollevarlo nuovamente in sua
direzione e
scuotere il capo.
Le
tremavano le labbra ma ne sostenne lo sguardo di smeraldo mentre
ansiosamente
dava voce ai suoi pensieri.
“Non
l’ho fatto perché non tengo a te” aveva
sussurrato quasi timorosa che lui non
ne accettasse la spiegazione ma il giovane la scrutò a
lungo: c’era tenerezza,
comprensione, dolcezza nel farlo. Una dolce luce nel suo sguardo che
appariva
meno tormentato o distante di come fosse apparso a lungo, a farle
comprendere
quanto ormai la sua assenza fosse dolorosa. Sembrava esservi
continuamente un
legame, un laccio che impediva ad entrambi di scostarsi troppo senza,
con
questo, compromettere il bisogno di restare vicini.
“Lo
so” aveva sussurrato, infatti, il giovane e si era avvicinato
di un passo: gli
sguardi che continuavano a fondersi, quasi fosse quella comunicazione
silenziosa a rendere tutto più reale e Brittany
reclinò appena il capo,
continuando a stringersi ai fiori prima di schiudere le labbra.
“E’
solo che” aveva abbassato lo sguardo, ancora timorosa e
febbrile, fino a quando
non aveva percepito la pressione delicata delle sue dita a sollevarle
il mento:
si era nuovamente specchiata nel suo sguardo e le era mancato il fiato
per
quanto fosse vicino.
Il
suo profumo l’avvolgeva in un intimo e silenzioso abbraccio e
il ragazzo
inclinò il capo di un lato, le sopracciglia inarcate quasi
ad incoraggiarla a
continuare a parlare.
Brittany
ne aveva cinto a sua volta la mano: aveva lasciato che le sue dita si
intrecciassero alle proprie e che quel calore sembrasse scivolare lungo
la
spina dorsale, senza sottrarsi all’incanto dei suoi occhi.
“…
ogni volta che voglio bene a qualcuno, se ne va” ammise con
voce più contrita
ma Hunter, lo sguardo ancora fisso nel suo, scosse impercettibilmente
il capo:
la mano libera ne cinse delicatamente la vita fino a quando non
percepì
nuovamente il calore del suo corpo.
La
mano esile della giovane si adagiò sul suo petto e il
giovane appoggiò appena
la fronte alla sua: Brittany trattenne il fiato ma cercò di
non sottrarsi al
suo sguardo, quasi timorosa che ciò potesse rompere il
contatto, la magia di
quel momento.
Sembrava
una delle scene da favola che aveva sempre amato fin da bambina.
“Se
ti prometto di non andarmene” la voce di Hunter era sussurro
appena percepibile
ma stava cercando di combattere l’istinto che le voleva far
socchiudere gli
occhi al sentire il suo respiro sul viso. “…
fuggirai di nuovo?” aveva chiesto
con voce appena superiore ad un sussurro.
Aveva
sentito le labbra tremare, Brittany, ma aveva sorriso.
“No”
era stato il sussurro sulle sue labbra e Hunter aveva sorriso prima di
avvolgerle entrambe le braccia intorno alla vita, prima di cingerne
delicatamente la gota a scostarne una ciocca di capelli dal viso ma
chinarsi
sul suo viso a siglare quella promessa con un bacio.
Sorrise
sulle sue labbra Brittany, gli occhi socchiusi mentre, con un fluido
movimento,
ne cingeva il collo, sfiorandone la nuca in un tocco delicato come lo
aveva
cullato quella notte in albergo, eppure consapevole che quel momento
era
finalmente giunto. Ed era soltanto loro.
Fu come ritrovare quella parte di sé che
sembrava smarrita, quasi
dovesse soltanto abbandonarsi a quel momento, alla delicatezza con cui
le sue
dita le sfioravano il viso, la morbidezza delle sue labbra che
sfioravano
appena le sue.
Una
prima carezza quasi sussurrata, prima di rafforzare la pressione,
sollevandola
appena con un guizzo divertito nel racchiuderla maggiormente nella
morsa
protettiva del suo abbraccio e del suo cappotto.
Le
strappò un verso di divertimento anche quando si
coccolò al suo petto e
socchiuse gli occhi.
Lo
sentì affondare il viso sulla sua spalla, gli occhi
socchiusi a inspirarne il
profumo e Brittany stessa ne sfiorò i capelli e lo trattenne
a sé, ne baciò la
mascella, soffermandosi appena sul neo accanto alle labbra.
“Dovresti
rientrare” sussurrò con voce appena rauca eppure
ne intuiva il sorriso seppur
sostasse contro il suo petto. “… proclameranno
presto il vincitore”.
“Ma
io ho già vinto” fu la risposta sognante di lei.
“Fila
dentro” l’ammonì appena, un verso di
divertimento, pur sfiorandone nuovamente
le labbra, trattenendola un istante di più, quello
necessario a farla mugugnare
e stringersi maggiormente a lui per poi emettere quasi una supplica.
Si
sollevò appena sulle punte a sfiorarne nuovamente le labbra
con le proprie
prima di cingerne la mano ed indicare l’edificio con un cenno
del capo ma il
ragazzo sembrò dubbioso.
“Non
penso saranno lieti di rivedermi” commentò,
stringendosi nelle spalle seppur
non sciogliendo quel contatto tra le loro dita.
La
ragazza non demorse, continuò a stringerne la mano e
attirarlo a sé.
“Non
sei solo” aveva sussurrato e il ragazzo indugiò
nei suoi occhi limpidi per un
solo istante prima di sorriderle ed annuire, rafforzando la pressione
del
contatto.
Aveva
ragione, si era detto sentendo persino quella fragranza di fragola
sulla
propria pelle.
Non
era più solo.
~
Sistemò
meglio gli occhiali sul naso mentre apriva l’armadietto per
cercare dei libri:
il suo primo giorno e, malgrado le apparenze e quel suo cercare, per
molto
tempo, di dimostrarsi perfettamente padrone della situazione, non
poteva celare
anche a se stesso una fitta di nervosismo mentre si guardava attorno.
Non
mancavano occhiate curiose e/o persino di sprezzo nei suoi confronti e
non ne
era sorpreso: per quanto lì il Glee Club stesso non godesse
di grande
prestigio, era stato pur sempre dalla parte dei rivali e i notiziari
avevano
contribuito a darne una visione tutt’altro che positiva.
Scosse
il capo tra sé salvo trasalire quando avvertì la
pressione di due mani sul viso
o meglio detto sugli occhiali, quella familiare fragranza a circondarlo
e
quell’istintivo sorriso che riusciva sempre a suscitargli.
Una ventata di pura
allegria e di serenità e rise al sentirla intonare un:
“Indovina
chi sono?” con voce altrettanto infantile ed entusiasta prima
di lasciarlo
andare.
Il
giovane fu lesto a voltarsi, togliendosi gli occhiali per pulirli con
il lembo
della t-shirt, prima di osservarla con addosso la divisa da Cheerleader
e la coda
di cavallo.
Persino
quella era di uno sgargiante color rosso.
“Una
cheerleader?”.
“Il
Capitano” commentò in tono di importanza ma lui
sorrise appena prima di
allungare le mani a scioglierne i capelli, facendola ridacchiare.
“La Sylvester
non vuole che li
portiamo sciolti” commentò ma il giovane
arricciò il naso, facendo muovere gli
occhiali e facendola sorridere mentre ne cingeva la vita.
“Non
glielo dirò” sussurrò in risposta prima
di chinarsi a sfiorarne lievemente le
labbra.
“Com’è
andato il primo giorno?” gli chiese e il giovane si strinse
nelle spalle,
mentre si incamminavano nel corridoio, le dita intrecciate.
Si
guardò ancora attorno, ignorando gli sguardi curiosi,
domandandosi se fossero
dovuti soltanto alla sua presenza o alla popolarità della
ragazza.
“Credo
che sopravvivrò: hai altre lezioni?”. Le chiese,
molto più interessato ad un
pomeriggio in sua compagnia.
“Il
Glee Club: dobbiamo pensare alle Nazionali” era stato
l’entusiastico commento e
il ragazzo aveva annuito.
“Ti
accompagno”. Si offrì, allora.
“Perché
non vieni con me?”. Fu la sua innocente ed entusiastica
proposta: evidentemente
quello sarebbe stato il finale da favola che avrebbe desiderato.
Averlo
vicino anche durante quelle lezioni e farlo nuovamente salire sul palco.
“Non
credo sia il caso”. Forse un giorno ci sarebbe riuscito, per
lei avrebbe potuto
tentare.
“Oh,
avanti, puoi sentire un po’ di musica, vedermi ballare,
magari potresti anche
aiutarci”.
“Niente
più competizioni per quest’anno”. Le
ricordò la squalifica ma Brittany
imbronciò appena le labbra con fare puerile.
“Devi
ricominciare da qualcosa”.
“Lo
sto già facendo” le sorrise, sfiorandone appena la
gota.
Si
fermò poco prima dell’aula del Glee Club,
indicandole l’ingresso con un cenno
del capo.
“Ci
vediamo più tardi?” gli chiese lei speranzosa ed
egli annuì prima di baciarne
la guancia.
La
lasciò andare.
“Brittany?”.
Si
fermò sulla soglia della porta e si voltò, i
capelli che danzavano sulle
spalle, illuminata da un raggio di sole che ne rendeva lo sguardo
limpido.
Sorrise,
stava davvero ricominciando.
“Adoro
il tuo profumo”.
Sorrise,
Brittany, si sporse per un ultimo bacio ed entrò
nell’aula di canto.
Continuava
a sorridere, Hunter, certo che quello era soltanto l’inizio
di una nuova vita.
Fine
Se siete arrivati fino alla
conclusione vi devo già un ringraziamento coronato da un
gregge di splendenti
unicorni – tanto per stare in tema – che vi portino
una bella dose di fragole
con panna :D
Se poi vorrete condividere le
vostre impressioni o anche semplicemente consigliarmi un tuffo nella
realtà
(cercherò di coinvolgere Murphy e i RIB, promesso!),
sarò lieta di confrontarmi
con voi.
Un abbraccione a tutti e grazie
dell’attenzione,
Kiki87
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