I
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Nel giardino ogni cosa è immobile. Stanotte non c’è
un alito di vento che faccia stormire le foglie della siepe o che
sparga la nota intesa delle lavande nelle aiuole. Gli steli
dell’erba stanno allineati in una muta parata. Un lampione
occhieggia impaurito dietro le fronde d’inchiostro di un albero.
Un'auto passa svelta, lontanissima, invisibile. Tutto è come
cristallizzato in un fotogramma fatto di pezze di velluto scure
drappeggiate sul mondo.
Mi siedo, levando il muso al cielo dove Lei brilla ancora. Inspiro profondamente, tentando di trovare il Suo odore nell’aria della periferia addormentata. La osservo
per lunghi istanti, arrabbiandomi perché l’alba già
rosicchia il cielo e ci divide un’altra volta. Guaisco piano un
saluto, inchinandomi, allungando l’ingombrante mole del mio
essere fino a terra.
Odio l’estate con le sue notti troppo brevi e piene di luce.
Preferisco l’inverno, con il suo gelo penetrante che mi obbliga a
cercare la Sua luce per potermi scaldare.
Camminando semieretto, abbandono l’alone argenteo per entrare in
casa attraverso la portafinestra aperta. Avanzo lentamente verso il
divano, illuminato da un piccolo disco di luce dorata. Là,
raggomitolata nel suo angolo preferito, c’è una donna. La
mia compagna umana. Selene. Legge un libro con indosso solo una
canottiera e le mutandine coordinate per colpa dell’afa notturna.
O almeno è così che diceva ieri, prima che uscissi. Ha
l’aria di chi si è svegliato da un sonno agitato, i
capelli biondi arruffati e le labbra imbronciate. Finge di non vedermi.
Mi accovaccio accanto a lei, la testa incassata fra le spalle
gigantesche, le ginocchia alte, gli artigli anteriori che ticchettano
impazienti.
Selene volta una pagina, assorta.
Emetto un lungo grugnito che termina con una specie di sbuffo.
Continua a leggere, imperterrita.
Comincio ad innervosirmi.
Stringo gli occhi in una smorfia impaziente e mi risistemo in quella
scomoda posa, battendo con forza i polpastrelli sul pavimento.
Questi sono i momenti in cui l’assenza di una coda si fa sentire.
Se l’avessi, potrei sbatterla furiosamente sulle piastrelle fino
a farci un buco.
Alla fine, stufo di aspettare, allungo la testa verso la sua. In questo
momento sono abbastanza grosso da obbligarla a reclinare indietro il
capo e contemporaneamente ad allontanare le mani nella direzione
opposta.
«Oh, andiamo! Almeno fammi finire il capitolo!» sbotta,
fingendosi arrabbiata e tentando di recuperare quel dannatissimo
affare.
Ringhio scoprendo le zanne a pochi centimetri dalla sua faccia e, per
ribadire chi abbia il comando, comincio a salire sul divano, una zampa
alla volta. Le imbottiture soffiano di disappunto e le cinghie
all’interno si tendono con rabbia sotto il mio peso.
«E va bene, hai vinto, brutto lupo cattivo. Leggerò domani» sospira allungando le gambe.
Mi sistemo su di lei, tentando di trovare spazio tra i cuscini per
infilare le zampe. Dannazione, sono enormi, me lo ricordo sempre nei
momenti sbagliati. Avrei dovuto afferrarla e trascinarla giù di
lì, ma ormai ci siamo, ho quasi trovato un incastro perfetto.
Scrollo i posteriori, scoprendo di non potermi acquattare come avrei
voluto: la zampa destra deve necessariamente rimanere a terra.
«Vacci piano o lo sfondi» suggerisce.
In risposta, agito i fianchi contro i suoi, gli occhi fissi nelle
piccole iridi umane mentre mi lecco il muso con aria famelica. Un basso
latrato fa vibrare il mio torace.
La luce della Luna si riflette sul tavolino di vetro lì vicino e
rimbalza nei miei occhi. Sento nelle orecchie la voce della Sua benedizione:
È tua, ti appartiene. È il dono con cui contraccambio la tua devozione filiale.
L’allusione va a segno, lo capisco dalla sua faccia.
«Non ci pensare neanche» minaccia accarezzandomi, risalendo
piano dalla punta del naso, passando fra i miei occhi, su, fino alle
orecchie.
Mi strappa un guaito pizzicandone una con forza.
«Per ricordarti che certe cose te le puoi permettere solo da umano» mi ammonisce.
Un’altra voce le fa eco con una risata argentina, la Sua voce. Mi volto a guardare la portafinestra. Aloni iridescenti brillano sui vetri. Dall’interno non riesco a vederLa direttamente, c’è solo la Sua immagine imprigionata e deformata nel tavolino, la Sua voce nelle mie orecchie a punta che si agitano senza posa per captarla.
Selene comincia a grattarmi tra la gola e la parte molle sotto la
mandibola. C’è un punto preciso da quelle parti, che ha
scoperto e conosce solo lei; un punto che scatena un torrente di
piacevolissimi brividi, tanto intensi da paralizzarmi. Gli artigli
della posteriore destra ticchettano ad un ritmo convulso sulle
piastrelle, sembrano nacchere.
Prendo fra i denti un lembo della canotta, la strattono un poco, solo
per giocare, poi comincio a tirare delicatamente verso l’alto per
sfilargliela. Delicatamente quanto può consentire questo corpo
immenso e smisuratamente forte, contratto in una posizione scomoda e
precaria.
«Ehi… piano…» si lamenta lei, faticando a nascondere un sorriso.
Riesco ad infilare il naso sotto la stoffa e spingerla un po’
più in su, fino a raggiungere il suo seno. Il tepore della sua
pelle nuda ed il profumo che emana sono un invito prepotente, elementi
troppo concentrati nella sottile lama d’aria sotto al tessuto.
«Oh, ma che bella museruola ti sei messo. Ti dona il cotone blu
col pizzo bianco» ridacchia, sfiorandomi la punta del naso con un
bacio.
Sbuffo e grugnisco, agitandomi. La stoffa arricciata sul naso mi
dà fastidio, sento il pelo incastrato fra le pieghe che
m’impedisce di sgusciare via senza strappare tutto. Tuttavia,
quest’inconveniente ha i suoi lati positivi: in questa posizione,
ad esempio, lei non può riprendersi quel dannato libro,
né trovare altre scuse per ignorarmi. E non voglio essere
ignorato. Voglio che mi guardi, che mi tocchi, che mi parli. Io voglio
lei.
Inspiro profondamente, la mia cassa toracica immensa e massiccia che
preme contro Selene, la schiaccia fra i cuscini, la pelliccia le fa il
solletico. Sporgo la lingua tra le zanne, implorante.
«Spiacente. Ora te ne resti lì buono buono finché
non finisco il capitolo» dice, cercando di allungare la mano per
recuperare il libro.
Il gioco mi ha stancato e il contatto con il suo corpo mi fa impazzire
almeno quanto l’impossibilità di tastare la tonda
superficie della Grande Madre Celeste.
Ringhio irritato, piazzando una zampa aperta sulla spalliera del
divano. Gli artigli affondano pericolosamente nel rivestimento,
minacciando di lacerarlo. Selene s’immobilizza un istante e
ritrae il braccio con molta cautela.
Scalcio ed il volume finisce sul pavimento con un fruscio di pagine
sparse, ma ancora integro. Do un’altra spinta con la testa e nel
frattempo ricomincio a muovere le zampe, strusciandole contro i suoi
fianchi per sfilarle il resto. La Luna non ha bisogno di vesti per
mostrare la sua bellezza, persino le nubi che la oscurano di tanto in
tanto scivolano via, lasciandola sola, libera, lucente. Nuda. Voglio
che anche lei si mostri come la Luna, la mia altra luna.
«Calmati. Faccio io» obbietta sottovoce, sfilando lentamente la canottiera.
Nell’aria si libera la fragranza per il corpo che usa dopo la
doccia. Tè verde. Sa fare bene i compiti la mia ragazza: quella
che ha addosso non è una di quelle orrende porcherie chimiche,
fasulle e zeppe di componenti che mi feriscono il naso. L’olio
che la riveste è una rugiada deliziosa e invitante, fresco e
pungente, stuzzicante. Perfetto nella sua assoluta naturalezza.
Strofino muso e gola sul suo petto, faccio scorrere con attenzione le
mie dita ibride su di lei, beandomi della sensazione di tenera
intimità che riesce a filtrare attraverso la pelliccia stregata.
Ascolto il suo respiro aumentare leggermente il ritmo, presagio di
ciò che succederà a breve. Godo del contrapporsi dei
pieni e dei vuoti delle sue forme, che sembrano disegnare uno di quei
paesaggi collinari dove un licantropo può passare le notti
intere a correre e cacciare senza sosta, ebbro di gioia e di Luna.
Lascio che affondi le mani nella pelliccia, seguendo linee che la mente
lupina non comprende ma il cui senso è intuito da quella umana.
Il suo sguardo fruga il mantello stregato, in cerca dell’altro
me, il Figlio della Luna nella sua forma incompleta.
Un artiglio aggancia lo slip, tirandolo. Gesto involontario: proprio
non riesco a stare sul nostro divano quando sono trasformato. Acquisto
un numero di taglie imprecisato ed ingestibile, mi sento legato,
bloccato da pastoie invisibili.
«No, ti prego… l’ultimo me l’hai
distrutto!» geme, cercando di calmare la frenesia che il fastidio
di quel debole laccio mi procura. «Per favore! Questo completo mi
piace così tanto!»
Guardo l’artiglio tendere la stoffa, le orecchie appiattite
indietro. Muovo piano le dita, ascoltando la sua reazione di tesa
impazienza. Basterebbe un nulla, uno scatto appena accennato, e la
stoffa si strapperebbe, lasciandola finalmente nuda. Una dolce luna di
carne nella luce della sua celeste omologa, bisognosa delle cure del
suo devoto lupo mannaro, calda e consapevole vittima sacrificale del
mondo antropico.
L’eccitazione mi confonde, mi agita, scaricando nel mio sangue desideri e fantasie.
Inizio a leccarle il collo, affettuoso, ma l’istinto predatorio
avanza già verso i passi successivi: annusarla, addentarla piano
sulla spalla, stringerla, leccarla di nuovo, voltarla, bloccarla sotto
di me. Prenderla.
La Luna imprigionata nel piano di vetro ha un guizzo, il riverbero
latteo mi ferisce con violenza gli occhi, richiamandomi
all’ordine. I lupi mannari non si uniscono agli esseri umani
mentre vivono la forma completa. Sarebbe improprio, indecente, contro
natura, oltre che smisuratamente doloroso e rischioso. Li uccideremmo
senza neppure accorgercene.
Sfilo la zampa, cercando di fare più attenzione possibile.
Selene mi aiuta e tira un sospiro di sollievo quando l’elastico
torna incolume ad abbracciare il suo fianco. Mi passa le mani sul
petto, sulle spalle, torna a sfiorare il punto segreto in segno di
ringraziamento.
Uggiolo come un cucciolo festante.
«Dove ti sei rotolato? Sai di erba appena tagliata» chiede,
nascondendo la faccia contro il mio collo prima di sgusciare via dal
divano.
Sa che non le risponderò. Ora perché mi è
impossibile e più tardi perché mi è proibito. I
luoghi dei raduni sono segreti, anche per i nostri partner umani. Solo
noi e la Grande Madre li conosciamo.
La seguo, dandole colpetti col naso sul sedere; schiocco le mascelle
fingendo di volerlo addentare. Ride accondiscendente imboccando le
scale che portano alla nostra stanza.
Odio i gradini, i loro spigoli innaturali, la pendenza costante
altrettanto artificiosa, la ridicola balaustra che potrei sfondare con
una spallata ben assestata, la parete fredda sull’altro lato.
Odio questa forzatura, ma è necessario spostarsi di sopra. Non
possiamo correre il rischio che qualcuno veda la metamorfosi.
Già i minuti passati di sotto sono stati un rischio.
Mi impongo di concentrare l’attenzione su Selene che mi precede
di due passi, lasciandosi dietro una traccia di calda, confusa
emozione. Spalanco la bocca per raccogliere ogni voluta, ogni goccia
che dalla sua pelle si disperde nell’aria. È un richiamo
silenzioso e potente, che obbliga l’animale
all’inseguimento, ad azzerare le distanze per potersi abbeverare
a quella chiamata.
Fulmineo, infilo il naso in quel piccolo ritaglio tra il suo corpo e le
gambe, un minuscolo vuoto all’interno della sua figura, che
sembra fatto apposta per questo. Lei sobbalza, cacciando uno
strilletto. Non la sento, né mi accorgo subito del tremito che
la percorre: l’odore del suo corpo, della porta che conduce al
suo interno umido e accogliente, la caverna pulsante di vita che mi
attende… è un profumo che mi stordisce. Una scarica
furiosa di adrenalina mi attraversa e devo dare fondo alla mia
devozione per non cedere e ricominciare a giocare con lei.
«Ma sei matto? Vuoi farmi cadere?» protesta poco convinta.
Siamo lì, fermi sulla scala, un lupo gigantesco con la testa
appiccicata, letteralmente infilata fra le sue gambe di donna che minacciano di
cedere da un momento all’altro. Non so se sia l’eccitazione
o il timore atavico verso il selvatico che ogni essere umano si porta
dentro. Il problema è che, di riflesso, la mia indole di
cacciatore davanti alla preda inerme dilaga. Sarebbe così facile
spalancare la bocca ed affondare le zanne nella morbidezza invitante
della sua carne.
Respiro con calma. Lei anche. Immobili. Un unico animale mostruoso e vibrante, donna-licantropo-coppia-amanti.
I secondi scorrono indolenti nella semioscurità che si affievolisce con l’avanzare dell’alba.
«Vogliamo star qui per molto?» riesce a dire finalmente.
Accenna a fare un passo, ma la blocco afferrandole la caviglia. Riporto
il piede sul gradino, più in là di dov’era prima.
Annuso la sua pelle, scaldandola, salendo e scendendo lungo la linea
nascosta delle ossa.
Spingo avanti la testa, scivolando sotto di lei, superando l’arco
delle sue ginocchia fino a farla sedere sulle mie spalle.
La guardo da sotto in su, aspettando la sua approvazione.
«Romanticone» sorride, grattandomi fra le orecchie.
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