EXARION - Parte I: Una Storia che si ripete

di KaienPhantomhive
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3.

 

Il gigante del lago

 

 

Lato Chiaro della Luna.

 

Un fumo denso si levò dagli ingranaggi in movimento all’interno cratere Archimedes, sventrato come potrebbe fare un piccone nel ghiaccio. Una lunga rampa di lancio si estese verso l’esterno, direzionandosi in cerca di una traiettoria. Risalendo la gola, una catapulta di trasporto accompagnò due grandi velivoli circolari. Neri, di dieci metri di diametro e sormontati da un’abside più stretta e squadrata; le carlinghe ricoperte da diciture del Reich. Una fila di ologrammi direzionali gialli illuminarono i lati della corsia. All’interno dell’ampio abitacolo rischiarato solo dalla fioca luminosità di innumerevoli schermi, risuonò una voce femminile e atona: “Weltraumkampf Maschinen ‘Haunebu Mk-7’ auf der Startrampe. Kurstkorrekturen gemachen; entfernung von der Geschätzte Reisezeit zur Erde: siebe Stunden.”[1]

L’ologramma dell’aquila del Reich in fondo alla rampa di lancio indicava tra le ali il comando: STARTE. Un motore simile a una spirale iniziò a roteare sotto la pancia del velivolo e i reattori all’idrogeno si infiammarono di turchese. Lo scafo graffiò un paio di volte la pista prima di decollare, lasciandosi indietro a grande velocità la base lunare di Golgotha. I due dischi volanti si allontanarono verso una Terra immersa nel nero trapunto di stelle.

 

*   *   *

 

Russia; Terra.

 

L’antiquato trenino ricoperto di graffiti lungo la rotaia mezza arrugginita in direzione Baksheevo. Era un minuscolo paese della provincia moscovita immerso nel verde, con un bel laghetto, di discrete dimensioni e dalle acque pulite e calme. Nataša lo ricordava da una gita fuori porta, ai tempi delle elementari. Ormai non attraeva quasi più nessuno, tranne un gruppo di militari che si ostinavano a voler portare avanti un avamposto secondario dalla dubbia utilità. O almeno questo era il pensiero comune.

All’interno del vagone, con il mento piantato nella mano destra e il gomito puntato sul bordo del sedile, Nat fissava gli alberi sfilare davanti a lei.

“Certo che a ripensarci è strano che papà ci abbia permesso di andare a trovare il dottor Asimov sul posto di lavoro.” – proruppe lei, articolando con difficoltà la bocca per via della postura – “Io non mi sarei detta di sì.”

“Non remare contro!” – Miša sembrava tutto preso dall’impervio compito di pulire il suo cappotto dai fiocchi di lana grigia della sua sciarpetta e aggrottò lo fronte davanti a quella frase contorta – “Possiamo entrare in campo di ricerca militare, è fichissimo.”

Lei voltò appena lo sguardo, sarcastica: “Oh, certo, tu sei fissato con quella roba. Bel mestiere, la guerra, non c’è che dire.”

“A me non piace la guerra.” – ribatté serio – “Ma se è necessario servire il Paese, allora lo farò. E poi…alle ragazze piacciono i soldati, no?”

E le rivolse una strizzata d’occhio sorniona.

Lei scosse la testa, sogghignando: “Se lo dici tu.”

Fissò ancora il paesaggio fuori dal finestrino e mormorò: “Proprio perché una base miliare, non è tipo…vietata ai civili? Ok che ho chiesto io di parlare con il dottore per la mia tesi, però…in un momento come questo, poi…”

“Nat, tuo padre è il cazzo di Presidente!” – la interruppe lui, con un sorriso a metà tra l’ottimismo e lo sconcerto per il poco entusiasmo dell’amica – “Saprà quello che fa!”

Il ragazzo aveva sempre provato una grande ammirazione verso il padre di Nataša, che a volte sfiorava la venerazione: il carisma semplice e rigoroso del Presidente Edvard Novikov lo catturava.

“Non è da lui.” – mormorò lei, scettica, ma preferì non continuare. Lui notò il silenzio che si era venuto a creare e si ricordò appena in tempo di un modo per risolverlo.

“Ah! Quasi dimenticavo.” – tirò fuori uno smartsquare dal giaccone, lo aprì e tracciò un gesto verso l’alto con l’indice. Di riflesso, il palmare di Nat squillò.

Lei controllò e notò l’icona di un pacco regalo, del tutto simile a quello già arrivatole poche ore prima.

“Ma…” – lo guardò sorpresa, ma felice – “…Misha! Non avevi già partecipato alla colletta?”

“Volevo farne anche uno mio.” – lui si sporse in avanti, con un mezzo sorriso che pregustava il momento in cui lei avrebbe aperto il messaggio – “Un regalino ballerino.”

Lei toccò lo schermo in corrispondenza del pacco, che si slegò del fiocco e si aprì con una pioggia di scintillii, mentre una tessera 3D decorata a foglie sottili ne emerse, roteando su sé stessa. Nat si tirò indietro e batté gli occhi un paio di volte, non proprio certa delle sue emozioni: “Wow. Un…buono sconto per dei prodotti dietetici. Che forza.”

Lui perse tutto l’entusiasmo: “Non va bene? Dici sempre che devi stare attenta al mangiare!”

Le venne da ridere, sventolando il palmare: “No no, infatti! È molto utile, davvero.”

E prima che il discorso potesse proseguire, si sentirono fischiare le ruote metalliche del treno.

“Siamo arrivati.”

 

*   *   *

 

Il bus-navetta – vecchio e malconcio almeno quanto il treno – scaricò come pacchi postali i due ragazzi. Nonostante l’apparente degrado dell’intera area circostante la cittadina di Baksheevo, Miša notò come le indicazioni in cirillico sull’asfalto fossero state riverniciate di bianco di recente, indice che qualcuno continuava a servirsene.

Uno spesso cancello di ferro interrompeva la strada d’accesso. Due gabbiotti equidistanti e quattro guardie armate completavano il quadro decisamente poco accogliente.

Nat lesse il cartello a caratteri rossi che avvertiva con eloquente sobrietà quanto poco gradita fosse la visita del personale non autorizzato: “Proprio un bel comitato d’accoglienza.”

Un uomo in divisa e berretto verde si accorse dei due, avvicinandosi a lunghi passi e ordinò senza troppe cortesie: “Qui non sono ammessi visitatori. Identificatevi.”

Miša mandò giù un groppone alla vista e sollevò una mano in un saluto stentato: “Ehi, come va? Siamo colleghi, eh, io e te!”

Nataša gli assestò un colpetto ricordandogli silenziosamente di evitare comportamenti inappropriati, quindi provò la via della trasparenza: “Mi chiamo Nataša Novikov e lui è Miša Vasyljev. È Abbiamo un appuntamento con il dottor Asimov.”

Il soldato aggrottò la fronte, squadrandola da capo a piedi: “Novikov, hai detto? Quel Novikov? Ragazza, stai scherzando?”

“Sono con me, tranquillo!” – la voce giunse alle spalle del soldato; un distinto signore dai capelli bianchi e curati e dal lungo camice immacolato stava risalendo a grandi falcate piene d’eccitazione la collinetta. Al che la guardia si fece da parte, mentre il cancello automatico iniziava già ad aprirsi. Lo scienziato accolse i due ragazzi a braccia aperte, con un sorriso soddisfatto e pieno di bontà: “Nataša cara, che piacere vederti! Auguri di cuore!”

“Grazie, signor Asimov, anche per me è un piacere.” – gli sorrise lei, ricambiando l’abbraccio appena accennato.

“Fatti vedere.” – la rimirò incantato – “Come sei cresciuta, una vera signorina! Mi ricordo quand’eri piccola…tuo padre ha fatto un ottimo lavoro, con te!” – poi si voltò verso il ragazzo, stringendogli la mano – “E tu devi essere il giovane Miša, vero? Mi ricordo anche di te. Proprio un bel giovanottone.”

“La ringrazio…” – lui restò un po’ inebetito dalla stretta vigorosa di mano – “…sa, io sono un suo estimatore!”

Il signor Klaus Asimov annuì allegramente e li invitò a seguirlo: “Oh, certo, certo. Sono molto contento che siate venuti, ma adesso, forza, seguitemi. Purtroppo, non posso concedervi troppo tempo.”

 

In mezzo a un viavai silenzioso di miliari, attraversarono il campo-base verso un piccolo padiglione. L’avamposto, con tutti suoi capannoni di cemento armato, si sviluppava a raggiera sulla vallata antistante il laghetto dalle limpide acque turchesi, che rifletteva i colli circostanti. Sulla cima di un pendio boscoso s’intravedeva la massiccia sagoma di un hangar d’aviazione. Nataša si sentì fuori luogo come mai prima d’ora in vita sua.

Il professor Asimov li scortò all’interno di un ascensore piccolo e sigillato, componendo rapido un codice sulla plancia digitale.

 

*   *   *

 

Quando le porte dell’ascensore si riaprirono, una sgradevole sensazione di capogiro investì i ragazzi. Lo sbalzo di pressione si sentiva con vigore, evidentemente dovevano essere ad almeno venti metri sotto il livello del lago. Dalla relativa calma dell’esterno ora uno sciame confuso di voci e rumori meccanici pervadeva il tutto: ovunque erano pareti rinforzate, strutture portanti in ferro e sale insonorizzate; uomini in divisa militare si avvicendavano a ingegneri dai camici bianchi o tecnici dalle sgargianti tute gialle.

 

Gli occhi di Miša divoravano quanti più particolari possibili, come un bambino in un negozio di giocattoli: “Questo posto è assurdo, sembra un film di fantascienza!”

“Così sono questi i laboratori di ricerca militare della Russia…” – la mente di Nat era talmente incuriosita da tutte le strane apparecchiature che ora non riusciva nemmeno più a trovarsi a disagio. La loro guida d’eccezione accelerò il passo verso un gruppetto di quattro individui, presi a discutere di qualcosa riportato in un rapporto: “Vi presento la mia gioia più grande ed una delle più brillanti scienziate che il nostro Paese possa vantare: Ekaterina Asimov, mia figlia.”

Un’affascinante donna in camice si voltò verso di loro; aveva capelli biondo grano lunghi sino alle spalle, occhi sottili dietro occhiali dalla montatura allungata e un piccolo neo all’angolo sinistro delle labbra truccate. Li salutò cordialmente, nonostante un velo di durezza le irrigidisse la bocca e lo sguardo: “Ah, voi siete i ragazzi che mi avevano anticipato. Molto piacere.”

Nataša ricambiò il gesto e le sorrise: era una donna di grande bellezza e vantava un’intelligenza finissima. Era un vanto per tutte le donne russe e per la Nazione in generale. Nataša l’ammirava poco meno dei suoi genitori: “Sono così contenta di poterla incontrare dal vivo! Il dottor Asimov le avrà detto che sto scrivendo una Tesi di Laurea sul ruolo della Russia nel combattere il riscaldamento globale. So che anche lei sta prendendo parte alle ultime ricerche e penso che sia fantastico che una donna...”

“Mi lusinghi più del dovuto.” – la dottoressa fece un piccolo gesto d’umiltà con il capo, di fatto interrompendo il fiume di parole.

“Sono certo che qui troverai molti spunti interessanti per la tua ricerca.” – incalzò l’uomo – “Ma credo anche che tu sappia di non poter descrivere troppo dettagliatamente il contenuto di questo laboratorio.”

Ed ecco che tutta l’apparente ingenuità di quell’incontro iniziava a mostrare la classica nota di fondo che Nataša avrebbe dovuto aspettarsi: il silenzio. La consapevolezza di essere testimone di segreti di cui probabilmente non capiva l’importanza ma sui quali in ogni caso sarebbe stato meglio tenere la bocca chiusa.

“Certo. Capisco.” – la ragazza si scambiò un’occhiata d’intesa con il suo amico e poi tacque.

“Molto bene.” – concluse Ekaterina – “Seguiteci.”

 

Nello scortarli attraverso l’unica grande sala di ricerca in cui si trovavano, il dottor Asimov pareva provare un particolare gusto di autoreferenza nel parlare del proprio lavoro. “Questo in cui vi trovate è uno dei più antichi laboratori di ricerca bellica della Russia ancora in funzione, se consideriamo che la maggior parte sono stati dismessi durante il ‘33. Il Complesso di Baksheevo è stato inaugurato dagli inizi del 2000, ciò significa che è in funzione da quasi cinquant’anni.”

Doppiarono un’enorme turbina lunga più di sette metri e puntellata di quadri di controllo.

“Come potete immaginare, qui ci occupiamo di sviluppare nuove tecnologie, con particolare applicazione nel settore della guerra.”

“A nessuno di noi fa piacere creare armi, ma i risultati ottenuti possono essere utili anche in ambiti civili.” – ci tenne a precisare sua figlia.

“Ci sono un totale di venti dipartimenti, ognuno deputato a una diversa fase del processo sperimentale.”

“Ma cosa sperimentate, esattamente?” – Nataša si fermò improvvisamente, cercando di attirare un’attenzione maggiore.

La dottoressa Asimov guardò prima il padre e poi lei, quindi disse con soddisfazione: “Questo.”

Una porta blindata spessa almeno mezzo metro si divise in due proprio alle sue spalle, introducendoli alla sala successiva. La prima cosa che investì le orecchie di Nat e Miša fu un nugolo di sibili acuti e prolungati, mescolati a voci indistinte. Una grande sala si offriva ai loro occhi, sovrastata da una volta in vetro che inondava tutto dei riflessi oscuri del lago soprastante.

Il via-vai di addetti sembrava affaccendato sull’enorme struttura centrale; una sorta di lettiga in acciaio circondata da tre anelli in acciaio spessi tre metri, sospesi a mezz’aria da robusti tiranti. E in mezzo a quell’ambiente di un bianco sterile, una gigantesca figura nera stava distesa su quello strano sistema di blocco.

Nataša mosse pochi passi incerti, osservando meravigliata quello che davvero il lago di Baksheevo celava sul fondale. E intanto, in un angolo remoto del suo inconscio, iniziava a farsi largo un oscuro timore…

“Questa” – proferì il dottor Asimov, beandosi di quanto la scienza avesse prodotto – “è l’Arma Bionica ad Interfaccia Diretta, Unità da Combattimento per le Operazioni Militari Speciali.

“Noi la chiamiamo…‘sWARd Machine’.” – aggiunse la donna.

Una decina di uomini camminava sul corpo grande come un palazzo di quindici piani, sommerso da scintille di saldature, marchi dell’esercito russo e grossi cavi di trasmissione che si innestavano direttamente all’interno della gabbia toracica sollevata: una corazza pettorale aderente a quello che somigliava a un seno femminile era divisa in due, rivelando una sfera di titanio collegata a spessi tubi simili ad arterie ventricolari. Le braccia esili dalle piccole dita acuminate erano rivestite da un’armatura e due piccoli scudi rettangolari sugli avambracci; lunghe gambe terminavano in piedi appuntiti e dai tacchi metallici incredibilmente alti. La testa del gigante, o gigantessa, era chiusa in un elmetto dal visore trapezoidale del colore all’ametista; due presumibili antenne si estendevano ai lati della testa, come eleganti piume di cigno nero. Piume nere come le lamine di metallo che ricoprivano i fianchi dell’unità.

“È gigantesca…” – fu l’unica cosa che Nat riuscì a mormorare.

“È il nostro asso nella manica.” – continuò Asimov, solenne – “La più potente arma di cui disponga il nostro Paese.”

“Quelle sono un paio di tette?” – domandò a caldo Miša cercando di mettere a fuoco il torace della Machine. Quel giorno sembrava proprio che provasse gusto a dar motivo all’amica per colpirlo.

Ignorando il patetico commento, la dottoressa Asimov continuò:

“È un’arma senza precedenti. Il sistema di interfaccia simbiotica collega l’apparato neuro-motorio del pilota con quello della Machine, rendendo la riflessività di entrambi praticamente una cosa unica.”

“Sono più di trent’anni che tentiamo di attivarla, ma sussistono troppi problemi sistematici.”

“Trenta, ha detto? Possedete questo robot da così tanto tempo?” – Miša non aveva mai sentito parlare di qualcosa del genere e il fatto che non si fosse mai attivato suonava ancor più assurdo.

“Quando lo avete costruito?” – incalzò la ragazza.

La dottoressa rivolse per un attimo un’occhiata incerta al padre senza dare una risposta: “Beh…ecco…”

 

Un allarme si levò dall’alto della sala, prima lieve e poi assordante, zittendo ogni altra voce.

 

“Cosa succede?!”

Il Capo-Dipartimento aggrottò la fronte: “Un’intrusione nell’area.”

 

*   *   *

 

All’esterno del laboratorio di ricerca, nel cielo oltre le nuvole, due piccoli punti neri volteggiavano in formazione. Chiunque li avesse avvistate avrebbe potuto gridare ai ‘dischi volanti’.

Planarono fino a pochi metri da terra, quando i motori primari si spensero e i repulsori inferiori ne rallentarono la discesa, spianando l’erba sottostante ed estendendo i carrelli d’atterraggio. Si posarono con uno sbuffo di vapore.

 

Allarmato, un drappello di guardie armate accorse fuori da un casolare dell’accampamento, puntando le armi contro le navicelle. Con un sibilo, un portellone si aprì nella carlinga, estendendo una scala.

Tre uomini e un automa emersero lentamente da ciascuno dei velivoli: indossavano impermeabile lungo fino ai polpacci, elmetti neri ed inquietanti maschere respiratorie. I robot che li seguivano somigliavano a grossi animali notturni, alti oltre due metri e ricurvi sulle gambe innaturalmente articolate al contrario all’altezza del ginocchio; piccole teste meccaniche sormontavano gli ampi toraci, scrutando l’ambiente tramite sei minacciosi sensori rossi. Avanzavano compatti, senza mai lasciare scoperto un settimo uomo, più giovane degli altri, in divisa nera e dagli occhi nascosti da una mascherina. Un soldato al posto di vedetta notò anche che il giovane ufficiale portava alla sinistra della sua cintura un oggetto molto lungo, come un fodero di spada argentato. Un’arma insolita, per quell’epoca.

Due guardie del laboratorio mossero un passo avanti, puntando con più insistenza i fulminatori contro e inveendo una qualche offesa nella loro lingua. I Nazisti si fermarono, bisbigliarono tra loro in una strana variante di Tedesco e poi si fecero da parte per lasciar parlare il giovane al centro.

“Sono Zeitland Dietrich, Oberstleutenant del Quarto Reich.” – si presentò in perfetto Russo – “Confermate che è questo il Campo di Ricerca Militare N-71, della prefettura di Baksheevo?”

“Questa è un’area riservata sotto la protezione delle Nazioni Unite. – il capo della sicurezza si fece avanti, con le mani sui fianchi – “Siete invitati ad abbandonare la zona.”

“Ho ordini di accertamento per quest’area.” – continuò Zeitland, senza batter ciglio.

“Accertamento? E di cosa?” – rispose il capo della sicurezza.

 “Questo dovrete dircelo voi. Io devo solo fare rapporto.”

“Noi però non ne sappiamo nulla, qui.” – ribatté il soldato – “Per quanto mi riguarda non potete muovere un solo passo di più, senza un mandato internazionale.”

“Ho l’autorizzazione del Mond-Kaiser e l’attuale Convenzione di Ginevra delle Nazioni Unite non vieta questa mia visita.” – la voce del Cavaliere Nero iniziava a venarsi di una certa suscettibilità. Ma la sua apparente calma e ostinazione irritavano più del dovuto il suo interlocutore, che inveì perdendo le staffe: “Questa è un’rea speciale non soggetta a quella Convenzione. E per quanto ci riguarda il vostro Kaiser per noi vale meno della m-!”

“L’avverto di sopportare davvero poco le mancanze di rispetto.” – la voce di Dietrich congelò quella del soldato – “Aggiungete anche un comportamento ostile e dovremmo rispondere.”

L’intero gruppo Nazista mosse ancora pochi passi.

Il resto delle guardie fremette d’agitazione, imbracciando le armi.

Ancora un passo.

Con la pazienza che saltava in aria come una bomba, il capo delle guardie gridò esasperato: “Al diavolo! Sparategli addosso, non fateli avvicinare!”

Una raffica di proiettili e scariche stordenti si riversò rapidamente dai mitragliatori e dai taser, colpendo di striscio il piccolo plotone nemico prima che i due Nacht Jägers si frapponessero tra loro, difendendoli. I sei soldati Nazisti si strinsero attorno al leader, che sussurrò tra sé con un lieve ghigno: “Wie Schade.[2]

Senza preavviso, uno dei due droidi da battaglia schizzò sulle ruote delle gambe sottili, raggiungendo il capo della sicurezza e, afferrandolo saldamente per la testa potente con un artiglio meccanico, lo sollevò da terra. Il riflesso dei sei sensori ottici rossi s’impresse nell’iride dell’uomo, ora pieno di terrore, e un sibilo nei meccanismi interni del braccio precedette la doccia di sangue e carne sminuzzata in cui esplosero la testa e il torso dell’uomo, sotto gli occhi attoniti dei presenti. Tentando di riprendere lucidità, le guardie caricarono nuovamente i mitragliatori, facendo fuoco quasi alla cieca, mentre l’altro robot saettava oltre il cancello della base, fendendo sferzate. Quattro soldati vennero squarciati all’addome, alla schiena, al torace. Spruzzi di sangue vermiglio macchiarono le corazze dei robot come violenti tatuaggi di guerra e bagnarono il terreno.

Un cielo di piombo, gonfio e malato, si era andato a formare.

“I carri, i carri!” – gridò qualcuno dall’accampamento e tre robusti tank dalla pittura mimetica emersero da uno dei capannoni più interni, facendo fuoco con i lunghi mortai. Un Nacht Jäger fece appena in tempo a voltarsi prima di esplodere come una bomba. Una decina di militari si affacciò dai bassi tetti delle casupole in cemento, sparando contro gli uomini del Reich. Ne abbatterono un paio, ma nonostante sembrassero incassare in pieno i proiettili non sembravano risentirne. Quelle corazze dovevano essere molto più resistenti del previsto.

Il robot nero derapò agilmente, espellendo due piccoli missili dalle braccia. Sibilarono e strisciarono come serpi tra le truppe: uno si schiantò su un edificio secondario, che franò sopra tre uomini; il secondo puntò diritto un carro armato, facendolo saltare in aria. Un terzo carro fece nuovamente fuoco per due volte, annientando anche il secondo Jäger.

 

L’Oberstleutenant Dietrich serrò i denti mentre i suoi uomini iniziavano a venire circondati dalla rimantenente quindicina di guardie del campo-base.

Mentre l’allarme generale continuava ad assordare, sulla cima della collina l’hangar iniziava ad aprire i battenti.

Affiancato dagli ultimi tre della sua scorta, Zeitland mormorò: “Und so sie wollen nicht aufgeben, nicht whar?[3]

Sentiva il cuore iniziare a pulsare più forte del solito, alla sola idea di ciò che avrebbe fatto di lì a pochi secondi.

Sarebbe stata la prima volta, la prima vera Sincronizzazione con la sua sWARd Machine. Non l’aveva mai effettuata se non tramite le simulazioni ideate dal Dottor Stein. Era la sua occasione, il suo momento. Era ora di mostrare a chiunque quanto davvero valesse l’Oberstleutenant Zeitland Dietrich, lo Schwarz Ritter.

Così proferì ad alta voce, stendendo il braccio destro verso il cielo di ferro: “Resonanz der Seele: türme über den Himmel vom Feuer…Fafner!”[4]

E un complicato diagramma alchemico – un sole stilizzato attorniato da sei circoli esoterici – si estese ai suoi piedi per una grande area.

La spaventosa lucentezza cremisi che si levò da esso accecò i presenti.

 

*   *   *

 

Contemporaneamente. Base Golgotha. Luna.

 

Come un presagio di vita passata, una sensazione tagliente e soffocante trapassò il cuore della Siren prigioniera, mozzandole il fiato. Sgranò gli occhi d’ametista verso la vetrata della sua stanza e portò una mano allo sterno.

“È iniziato.” – sospirò senza voce – “È il primo Risveglio.”

Poi lentamente, con voce soave e malinconica, intonò un canto nella Linguaggio dell’Acqua.

E quel suono si fuse allo Spazio e al Tempo.

 

*   *   *

 

Lago Baksheevo. Terra.

 

Una voce melodiosa, vibrata di una melanconica dolcezza, risuonò senza fonte nell’etere.

Il vento aveva cessato di soffiare.

Attonito e confuso, un soldato russo abbassò la sua arma, volgendo gli occhi stralunati alle nuvole: “Questa voce…da dove proviene?!”

 

*   *   *

 

Grande Sala Macchine; Gorgo della Rinascita. Settore-2. Golgotha.

 

Nella sconfinata sala di ferro popolata da megaschermi e ologrammi di analisi, un grafico ondulatorio mostrò due intrecciarsi una spirale di sincronia. Un addetto tecnico ai livelli inferiori gridò all’altoparlante: “Quantenoszillationen beobachtet in der Nähe des Baksheevo See: bestätigten ‘Siren Effekt’![5]

Il canto riecheggiava ovunque, sembrava quasi che venisse da dentro la materia.

Una scienziata del Reich, molti metri più in là, si voltò verso un uomo sull’alto di una predella metallica: “Gegründet Kontakt mit der sWARd Machine 'Fafner': Unit reagiert auf den Anruf![6]

Sulla passerella sospesa sul grande cratere centrale, un ometto . dai folti baffi e dagli arruffati capelli bianchi strinse le dita guantate sul corrimano di sicurezza: “Ach so?! Dunque, ha intenzione di usarla sul serio!”

Il Capo del Dipartimento Tecnico del Quarto Reich e Maestro Ingegnere di Golgotha non era umano, non del tutto. Herr Doktor, che qualcuno aveva voluto il sarcasmo di battezzare “Zwei Stein” – era la Seconda Replica Biomeccanoide del dottor Albert Einstein, Modello a Funzioni Cognitive Complete. Si affacciò dalla balaustra, ordinando ad alta voce: “Beginne Exhumierung Prozess: ӧffnen des Wiedergeburt Wierbel![7]

Nel pozzo centrale ricoperto da un groviglio di enormi tubi e carrucole, una scia di fari giallastri si accese lungo le pareti del condotto, illuminando un’oscurità senza fondo. Con clangore di ferraglia, un sistema traente si mise in movimento: una bara di titanio nero lunga più di cinquanta metri venne riportata in superficie, scorrendo sul sistema di ancoraggio giroscopico. Si fermò in superficie con un violento scossone.

Starte Electroleitung für neuronalen Aufregung!”[8]

Grandi carrelli cingolati si avvicinarono rapidi. Elettrodi spessi tre metri si avvitarono nelle prese esterne del sarcofago con una pioggia di scintille, irradiandolo di una carica elettrica di migliaia di volt.

Eröffnung des Anbar Atanor! [9]

Un sigillo a forma di croce posto sulla sommità del sarcofago esplose con uno sbuffo di vapore e le pareti si dispiegarono in decine di piastre metalliche, rivelando un corpo gigantesco coperto da una corazza rossa e dorata. Tenaglie idrauliche lo sollevarono per le spalle, mettendolo in posizione eretta.

Una distaccata voce di donna confermò: “Infiltrazione sulla reta HAARP effettuata. Machine bereit für den Satellit Transport.[10]

Scorrendo su binari interni, la grande Machine rossa venne trascinata al centro di una piattaforma di trasporto nella sala successiva e due anelli di ferro vennero calati come una gabbia. Un pulviscolo luminoso iniziava a formarsi intorno al gigante, intensificandosi. Infine, il dottor Stein gridò con quanta più voce concessagli dalle sue vecchie corde vocali sintetiche: “Steins Gatter: übertragung![11]

Il canto della Siren si fuse al sibilo acuto lanciato dai due, percorsi da immense quantità di energia, e l’Unità si scompose in particelle sub-atomiche.

 

Il flusso di fotoni venne trasportato lungo le tortuose condutture della base, attraversando diametralmente la Luna fino alla Grande Parabola di Trasmissione in superficie. L’energia risalì la torretta, la parabola si orientò rapidamente verso la Terra e un fascio di energia scarlatta venne sparato come un laser a velocità-luce. Attraversò la distanza Luna-Terra come una freccia, colpendo in pieno i pannelli solari di un grande satellite in orbita. Le celle fotovoltaiche solari si incendiarono di energia fin quasi alla liquefazione, mentre il fascio di luce veniva deflesso altrove, colpendo e rimbalzando su altri satelliti lontani centinaia di chilometri l’uno dall’altro, disegnando una lunga scia spezzata di luce rossa nell’orbita terrestre. Infine, piegò in direzione del pianeta, trapassando un ciclone in alta Atmosfera.

 

*   *   *

 

Baksheevo.

 

 

Oltre le nuvole, dove l’occhio fatica ad arrivare, un punto di luce rossa si tramutò in una colonna di luce, squarciando le nubi e schiantandosi al suolo, proprio sopra il giovane Ufficiale delle SS, con un frastuono assordante che fece incrinare la terra come in un terremoto. L’onda d’urto si spandé per tutto il lago.

Il canto soprannaturale che veniva dal nulla crebbe di intensità.

Nella nube di fiamme e fumo nero dell’impatto baluginarono scintille accecanti e per un momento qualcuno fu certo di scorgere, nelle forme assunte dalle vampe voluttuose, un’ala e una testa di drago. Poi, lo Spazio-Tempo stesso si incrinò come uno specchio, esplodendo attraverso le dimensioni: un varco di ampi e complessi ingranaggi a orologeria si aprì davanti ai presenti atterriti.

 

In un caos di luci cromatiche e flussi di tessuto dimensionale iridescente, il corpo di Zeitland Dietrich sembrava cadere verso l’alto di quell’abisso meraviglioso; gli abiti stessi parvero ardere di un fuoco freddo e bluastro, mentre il ragazzo avvertì una sensazione di pienezza e vigore per ogni cellula del suo Io.

“Questa…” – ansimò, con la voce strozzata dalle emozioni impetuose – “…è questa la Risonanza?! È una sensazione incredibile!”

Dolore, passione, esaltazione, rabbia, potere. Era indescrivibile.

 

Qualcosa emerse dalla cornice di meccanismi temporali. Un braccio ricoperto da una spigolosa armatura rossa si solidificò dal fuoco. Due cascate di gas incendiato si riversarono al suolo, evaporando e rivelando lunghe e sottili gambe rivestite da un’armatura scarlatta e bianca, incisa con frasi dorate in una lingua sconosciuta. Nonostante i piedi del gigante fossero sottili e appuntiti e i tacchi che li sorreggevano fossero solo lunghe lamine di acciaio affilato, il peso che scaricano al suolo distrusse grandi zolle di brughiera. Un nugolo di fiamme rigonfie lasciò il posto a una piastra pettorale bianca e ora che copriva un piccolo torso e grandi vampe sulle spalle del gigante scivolarono su spallacci dagli enormi speroni. La schiena, irta di spine, si inarcò tra i lapilli e il gigante sollevò il cranio, chiuso in un alto elmo rosso da lunghe corna dorate. Dalle fessure della maschera bianca e zannuta che copriva il volto della Machine, due sottili occhi organici splendettero di un azzurro terrificante.

 

Pareti e specchi circolari si serrarono intorno al Meister del grande robot-drago, creando un abitacolo di guida sferico. In assenza di Gravità, il corpo nudo di Zeitland venne accerchiato da ologrammi di rune misteriose e incomprensibili, disposte ad anello. Grafici e finestre semi-trasparenti si aprirono nell’abitacolo, le cui pareti piene di iscrizioni confuse rivelarono presto una visione completa del panorama circostante.

Il giovane prese un lungo respiro e tentando di trattenere il flusso di vitalità che ora gli scorreva in corpo, recitò la formula d’attivazione:

Startvorgang der erstmaligen Aktivierung. Ionisieren Mercury-D und träge Unterdrückung der Flamels Zimmer. Neuronale Verbindungen, Atmung, Stoffwechsel, Reflexivität: alle gesetz. Doppelgӓnger Rate-Synchronisation: 45%. Mental Kontamination von default: das Oreikhalkos Siegel ordnungsgemäß funktionieren. Energie VRIL: stetig.”[12]

Poi spalancò i taglienti occhi azzurri: “Sternschnuppe Drachen-sWARd Machine: Faner; gezӓhmt![13]

La grandiosa macchina da guerra lanciò un ruggito agghiacciante, che si andò a fondere con le ultime note del canto della Siren.

Questa era la vera forma dell’energia delle stelle.

Era l’essenza della potenza, lo spirito della forza.

Era la bellezza e la ferocia, la nobiltà e il terrore.

Era la passione e la Vita, l’ira e la Morte.

Questa era la vera natura di una sWARd Machine.

 

 

 

[1] Dal Tedesco; lett.: “Macchina da guerra spaziale ‘Haunebu Mk-7’ in rampa di lancio. Apportare correzioni di rotta; distanza dalla Terra: 384.403 km.”

[2] Dal Tedesco; lett.: “Che peccato.”

[3] Dal Tedesco; lett.: “E così non vogliono arrendersi, vero?”

[4] “Risonanza dell’Anima: troneggia sui cieli di fuoco…Fafner!

[5] “Rilevate oscillazioni quantiche nelle vicinanze del Lago Baksheevo: confermato ‘Effetto Siren’!”

[6] “Stabilito contatto con la sWARd Machine ‘Fafner’: l’Unità reagisce al Richiamo!”

[7] “Iniziare processo di riesumazione: apertura del Gorgo della Rinascita!”

[8] “Avviare l’Elettroconduzione per l’eccitamento neurale!”

[9] “Apertura del CyberCasket!”

[10] “Posizionamento armatura secondaria completato! Machine pronta al Trasporto Satellitare!”

[11] “Steins Gatter: trasmissione!”

[12] “Iniziare procedura di attivazione iniziale. Ionizzare il Mercury-D e soppressione inerziale della Camera di Flamel. Connessioni neural, respirazione, metabolismo, riflessività: tutto regolare. Tasso di Sincronizzazione Doppelgӓnger: 45%. Contaminazione mentale nel default: il Sigillo di Oreikhalkos opera correttamente. Energia VRIL : aumento costante.”

[13] “sWARd Machine–Drago Stella Cadente: Fafner; domato!”





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