L’arrivo
dell’inverno le lascia sempre una strana sensazione
addosso, che si trascina in quei lunghi e stanchi tre mesi fino a che
la luce
primaverile non comincia a diventare abbastanza pesante da attraversare
le
tende e svegliarla nelle metà mattinate domenicali.
Capisce dunque, quando un forte tuono
la fa sobbalzare tra
le lenzuola, che alla primavera purtroppo manca ancora tanto
– troppo – tempo.
Chiara sposta una mano, le dita le si
intrecciano subito tra
i capelli biondi chilometrici e fastidiosi, scuriti dalla penombra
della
stanza. Si mette seduta con uno scatto, si allunga, raggiunge le
coperte
arrotolate al fondo del letto e le tira su, raddrizzando quella buffa
diagonale
che hanno formato lungo il materasso.
Si volta alla sua destra e gli occhi
nocciola incrociano una
schiena scoperta. L’uomo accanto a lei grugnisce, infastidito
dai suoi
movimenti, rilassandosi poi quando una mano della ragazza raggiunge la
sua
spalla in quella che vuole essere una carezza, ma che finisce col
limitarsi ad
un contatto fermo. Rassicurante, quasi.
L’altro occupante del
letto, Francesco, si volta verso
Chiara, tenendo ostinatamente gli occhi chiusi, pur consapevole di
avere i suoi
addosso, in un debole tentativo di riprendere il sonno.
E una carezza arriva davvero, alla
fine, s’insinua tra i
suoi capelli, sulle tempie, si sofferma sulle guance piene, riprende la
sua
corsa seguendo la linea del collo, poi dalla spalla alla clavicola e si
arresta
definitivamente sul torace, all’altezza del cuore, contandone
fedelmente e con
accuratezza i battiti. A Francesco sembra che Chiara stia accarezzando
un
cucciolo da compagnia, e che in realtà abbia la mente
altrove. Si chiede cosa
le passi per la testa, mentre inconsciamente le sue dita si fanno
spazio tra i
capelli di lei, un po’ ispidi dai continui trattamenti.
Le loro braccia, tese l’una
verso l’altra, le espressioni
ferme, i battiti che man mano vanno accelerando contribuiscono a creare
una
scena surreale e davvero poco verosimile, considerato il metro
abbondante che
li separa. Quasi
come se il toccarsi sia
fondamentale quanto il tenersi a distanza. Una precauzione, forse
semplice
autodifesa.
Chiara chiude gli occhi e Francesco
sembra sul punto di dire
qualcosa, ma rimane lì, con la bocca aperta e un carosello
nella testa. Poi gli
arriva uno spunto.
<< Che ore sono?
>> Le chiede. Lei riapre gli
occhi, scrutandolo per un attimo. La vede alzare gli occhi verso un
punto
imprecisato della stanza e poi tornare su di lui.
<< Le sette meno un
quarto >>
Francesco ne prende atto, comincia un
calcolo mentale del
tempo che impiega per rivestirsi, mangiare, passare a casa e cominciare
il
solito lavoro di ufficio.
<< Sto altri dieci
minuti e poi vado. Per te va bene?
>>
<< Come ti pare
>> Chiara scivola rapida fuori
dalle coperte, accompagna con un sospiro l’ultima frase.
<< Faccio il
caffè. >> Continua, giustificandosi
in risposta allo sguardo accusatorio dell’altro.
<< Te lo porto qui?
>> Chiara si gira, una volta arrivata allo stipite della
porta.
<< No, arrivo.
>>
Il tempo di rivestirsi e Francesco
l’ha raggiunta in cucina,
dove la trova impegnata al telefono, che parla con una voce talmente
sommessa
da non sentirla neanche.
<< Sì, apro
io oggi, stai pure a letto. >>
Gli passa una tazza fumante che
Francesco si adopera per non
rovesciare prima di poggiarla sul tavolo.
<< Ma no, tranquilla,
sono già in piedi. >>
Le sfugge una risata, e la cosa
sorprende non poco entrambi,
specialmente Francesco, che rimane con la tazza a pochi centimetri
dalle
labbra.
<< D’accordo,
ciao. >> Un suono elettronico
simboleggia la fine della chiamata e la conseguente significativa pausa
di
silenzio.
La voce di Chiara scende di un tono,
intanto che l’altro
butta giù l’ultimo sorso di caffè.
<<
Senti…>>
<< Vado. Non
preoccuparti. Ho già dato abbastanza
fastidio. >>
<< No, non è
per quello. >> Un altro tono in
meno e Francesco si volta verso di lei.
<< Cosa?
>>
Con un gesto fin troppo intimo le
prende una mano, intanto
che lei scosta una ciocca dietro l’orecchio. La tira via di
colpo, come se si
fosse scottata col pentolino del latte – come fa sempre.
– e se la poggia su un
fianco, nervosa.
<< Niente. Vai, che fai
tardi. >> Gli
suggerisce.
<< Giusto.
>> Ma nessuno dei due si muove.
<< Allora, ciao.
>> C’è un breve scambio di
sguardi, qualche parola non detta e Francesco si avvia giù
per le scale, saltando
due gradini alla volta, fino alla Renault parcheggiata davanti
l’edificio. La
raggiunge e si volta verso le finestre del suo
appartamento, aspettandosi di trovare lo sguardo nocciola di Chiara a
controllarlo. Ma così non è.
Sono passati dieci minuti quando il
campanello suona e
Francesco è di nuovo di fronte a lei.
È di spalle, poi si gira e
Chiara nota due scure occhiaie
che poco prima, distratta dalla telefonata, non ha notato. È
un po’ ingobbito
su se stesso, la testa inclinata e gli occhi lucidi per il sonno perso.
<< Ho dimenticato le
chiavi di casa. >>
Dopo una breve pausa in cui Chiara si
sforza si assimilare
quello che ha sentito, lentamente, comincia ad annuire. La luce
dell’appartamento
illumina la penombra del pianerottolo e Francesco prova una sensazione
strana
mentre la ragazza gli fa strada contro luce. Un’ aureola
giallognola le fa i
capelli bianchi.
Francesco si ferma al centro del
soggiorno intanto
che l’altra sparisce e riappare dalla
camera da letto, sventolando le chiavi.
<< Ecco.
>>
<< Grazie.
>>
<< Figurati.
>>
Silenzio.
<< Vado.
>>
<< D’accordo.
>>
-
Quella sera, Francesco rincasa
più tardi del solito, spinto
dal noioso traffico del rientro dal lavoro, ha allungato il percorso
con aria
annoiata. Ritarda
di proposito, ma
Cecilia lo accoglie come sempre, come una brava moglie sa fare, con un
caldo
sorriso di quelli che se ne trovano in pochi.
Ha un grembiule schizzato di sugo e i
capelli raccolti con
una pinza, l’acqua bolle nella pentola. Gli vengono in mente
i pentolini
rovinati sui fornelli di Chiara, che ha incrociato con lo sguardo nella
stessa
mattina, ma è un momento che gli scivola subito addosso.
Passa dal bagno prima di sedersi a
tavola, non deve solo
lavarsi le mani, ha un impellente bisogno di quattro mura e una porta
da
chiudersi alle spalle.
È sera, la tapparella
è abbassata e non ha acceso la luce. È
immerso nel buio, adesso. Allunga una mano e gira il rubinetto, giusto
per
coprire il silenzio e i suoi respiri rumorosi.
Probabilmente l’idea è quella di
riflettere in santa pace, ma
guardandosi bene intorno, effettivamente non c’è
proprio nulla su cui riflettere.
C’è il lavoro,
ci sono gli amici e poi Cecilia. Non si
ricorda bene che tonalità di verde hanno i suoi occhi di
preciso, se più
tendenti al grigio o al castano.
Quelli di Chiara sono marroni,
invece, un po’ più scuri
verso la pupilla e sul contorno, con qualche venatura più
chiara, come il
legno. Chiara.
C’è il lavoro,
ci sono gli amici, Cecilia e poi c’è Chiara,
separata da tutto dietro una cornice a righe.
Lui sta al centro, un piede da una
parte, uno dall’altra, e
ogni tanto pende verso destra o sinistra. Ultimamente oscilla,
veramente, perché
non può stare contemporaneamente da tutte e due le parti. Deve scegliere.
Se toglie quelli a destra, gli rimane
Chiara, ma non è
sicuro.
Ma se toglie Chiara, non rimane
nulla.
<< Fra, che stai
facendo? >>
Cecilia non aspetta nemmeno la
risposta, entra.
<< Che fai al buio?
>>
Già, è buio.
Non riesce a vederle bene gli occhi.
Gli occhi, gli occhi. Di che colore
sono gli occhi di
Cecilia?
<< Stavo uscendo.
>>
<< È pronto.
>>
<< Mi tolgo le scarpe e
arrivo. >>
Entrato in cucina, la moglie
è di spalle, non riesce a
vederla in faccia.
<< Ci vuoi il
parmigiano? >> Gli chiede lei, La
voce si alza adorabilmente di un tono mentre si allunga per prendere la
busta
dal freezer.
<< No. >>
Francesco prende posto a tavola,
smanettando per tirarsi su
le maniche della camicia e Cecilia va e viene, prende le ultime cose
dai
cassetti.
Quando finalmente la vede sedersi, i
capelli forzati dalla
piastra si sono arricciati, forse per l’umidità
quando è uscita sul balcone.
Per un po’ si sentono
soltanto le posate tintinnare e la
forchetta che stride sul fondo del piatto, racimolando gli spaghetti.
<< Domani hai il giorno
libero? >> Gli chiede
lei.
<< Domani è
sabato, sì. >>
Francesco reputa che la conversazione
possa anche finire lì,
e tace. Cecilia non è dello stesso avviso.
<< Potremmo andare al
Valentino, sul fiume. Oppure su,
con la Superga*. >>
Il marito si ferma per un attimo e la
guarda, dritta negli
occhi. Sono più tendenti al verde bosco, una gradazione che
vagamente ricorda.
Storce la bocca.
Il Valentino è sempre
affollato e sicuramente vorrà andare
sul fiume con i battelli. Morirà di stress in mezzo a tutto
quel caos che c’è
sempre.
E gli vengono in mente tutte le notti
in cui Cecilia dorme
accanto a lui, i suoi occhi che vagano per la schiena nuda e
lì, lì dove la
spina dorsale è più evidente, addolcisce la
curva, inasprendola dove immagina
che dei fili lunghi e lisci, di un biondo scuro, incoccino i fianchi.
Prende
sua moglie e ci disegna sopra un profilo leggero, magro eppure rigido,
scomposto e decisamente rumoroso. Chiara vive anche nei suoi sogni,
persino
quando non chiude gli occhi.
Ma quelli di Cecilia sono verdi, e
lui finalmente è
tranquillo.
<< Andiamo su con la
Superga. >> le risponde, e
lei gli sorride.
Cecilia si rituffa sulla pasta con
aria soddisfatta.
Francesco posa la forchetta e si
perde a rimirarla.
Nessuno dice più una
parola.
*Riferimenti al Parco del Valentino e
il treno della
Superga, entrambi a Torino. Probabilmente c’è
qualche errore, perché ho vaghi
ricordi di Torino, ma mi ostino ad ambientare tutto lì,
perché è una città meravigliosa
che mi è rimasta nel cuore.
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