Corpo
CORPO
L’ultima ora dell’ultima notte e il soffitto
scrostato.
Eri in mezzo alla pista, tu con tutti gli altri, polsi che raccontavano
storie per aria, suole che pestavano sogni in terra e le briciole dei
ricordi che rotolavano via, ballavi Gaga come fosse Chopin e
probabilmente pensavi ai Baustelle, ballavi con te, col corpo davanti,
col buttafuori che dice si chiude, ballavi per chi non ha sonno e per
chi è già a letto, per la tuta da sci che hai
comprato a giugno, per i fiori sulle terrazze di legno, per il cane
all’incrocio, ballavi per chi ti guardava, ballavi per i
morti, mi hai detto una volta.
Avevo le tue righe stampate sulle retine, mi toccavo con le dita le
costole, mi voltavo e vedevo te, sparivi e ricomparivi, sparivi e
ricomparivi, sparivi e ricomparivi, una madonna psichedelica fedele a
nessuno, di quelle delle pubblicità sui giornali, in
metrò, i manifesti al neon che accompagnano il tram verso
casa mia.
Mi hai riso in faccia mentre mi avvicinavo, hai urlato che sembravo il
mare, ti sei presa un mio braccio che non so ancora se mi hai
restituito.
Mi alzavi la gonna e a malapena vedevo, tu mi alzavi la gonna e io non
vedevo, ma sentivo te dietro di me, una mano su di me, addosso a me,
una mano che prendeva e non dava niente, ingoiavo carboni violacei e tu
“respira, respira” e mi gonfiavi come le sfere
all’elio, mentre io diventavo di piombo.
L’abbiamo fatto con le mani, in una via sporca,
l’abbiamo fatto volendolo fare bene, volevo parlare ma non
riuscivo, tu ridevi e citavi, “La parola è
impotente!”, e io dovevo dirti che, cazzo, Ungaretti lo
leggevo anch’io e invece chiedevo di più, di
più, volevo te, volevo me, volevo il mondo in quelle nostre
mani e baciavo, baciavo, e ti guardavo davvero e non volevo
più nulla.
Tu crollavi, tiravi la stoffa e piangevi che era colpa della troia che
te l’aveva portato via, eri una palla sopra dei tacchi sopra
un marciapiede, eri pronta a cadere, e io decidevo che sarei stata la
cosa che ti avrebbe fatto smettere.
Prima siamo state un numero telefonico sul retro di un biglietto del
treno, poi delle chat banali quanto sincere, poi otto dita intrecciate
in un caffè di Milano. Tu che su un divano scuoti la testa
perché no, non lo vuoi un altro stronzo così e io
che penso oh, ma non vedi che sono diversa? I nomi scritti nei cessi
pubblici. I teatri in settimana, quando non c’è
nessuno. Le promesse d’amore delle due di notte. Le birre
spaccate contro il muro. Gli impegni che non si incastrano, la voglia
di non rivedersi più. Le vacanze decise la sera prima
perché guarda che io così non ce la faccio. Le
volte in cui non resistevi e mi dicevi che mi amavi come
l’aria.
Ed è finita così. Ti sei fidanzata, ti sei
sposata, ti è nata una bambina che hai chiamato come me e io
ti ho odiato, hai detto a tuo marito che era il nome di
un’amica morta ed è stata la spiegazione
più sincera da quando vi conoscete.
Anch’io ho una figlia. Non porta il tuo nome. Non
l’hai mai incontrata.
Ho detto al mio compagno di noi, gridava come un pazzo, se ne
è andato di casa, le porte sbattono davvero quando te ne vai
di casa. È tornato di mattina con le occhiaie scavate, si
è ripassato il viso con le mani, mi ha detto che un valore a
mia figlia dovevo insegnarlo, ed era l’onestà, mi
ha dato cinque giorni per trovarmi un appartamento nuovo.
Sto ricominciando da capo, io. Ho cambiato città, lavoro,
abitudini, mia figlia dorme nel letto con me e nel weekend sta con il
padre, mi manca in quei giorni. Tu mi manchi sempre. Ti vedo mentre
chiudi l’ombrello e scivoli sulle piastrelle bagnate, ti vedo
mentre sorridi ai clienti poi ti giri e sbuffi, ti vedo al cinema con i
piedi sul sedile di fronte. Quando siamo al limite ci chiamiamo, ci
vediamo, stiamo a letto per ore, a volte piangiamo, a volte non
facciamo nulla, ci tocchiamo le mani, guardiamo in due direzioni
diverse cercando la strada per quel dannato paese in cui sappiamo che
potremo stare insieme. Non la troviamo mai, e riprendiamo a guardarci
tra noi.
Sabato scorso abbiamo litigato, ci siamo picchiate, hai detto che non
mi avresti rivista mai più, ti ho risposto va bene,
sparisci, codarda. Non lo penso sul serio, lo sai. Siamo persone
coraggiose finite nella vita sbagliata, non possiamo lasciarci
perché non sappiamo concretamente come si fa. Mi specchio.
Tiro una linea di matita sulla palpebra e sono sicura che strattonerai
nervosa la borsetta per trovare il cellulare, ci scriverai
“Posso venire questo weekend?” e fumerai come una
disperata uccidendo un mozzicone via l’altro sotto quelle
zeppe volgari che porti solo per farti dire da me di non fare la
puttana, girerai su te stessa pregando che io risponda, qualunque cosa
ma risponda, e davvero non sai, in quella piroetta, che come sempre ti
dirò… sì, perché
c’è un dio nel cielo che meriterebbe una maiuscola
e invece ha solo me e te e quello che non siamo capaci di fare,
vorrebbe farci amare e noi costruiamo famiglie, vorrebbe zucchero
filato e riceve Prozac, ma io ripenso alla tua maglia con le strisce e
ti dico va bene così, dio, va bene così, e se il
paradiso è qui, adesso, e noi non ce ne accorgiamo?
____________________________
E quindi, dopo due mesi
senza toccare penna, questo? Sì. E se non si
capisce è colpa delle dita che digitano, perché
nella mia testa, una volta tanto, è tutto chiarissimo.
C’è dentro così tanta roba che ho
letto/ascoltato/intercettato in questi giorni che più che
un’originale è un furto di massa, ma è
un collage che sentivo davvero il bisogno di fare. Il nonsense, ecco,
quella cosa lì.
Grazie a chiunque abbia letto, di cuore.
|