I personaggi non mi appartengono.
Alla mia Himari: averti adottata in “famiglia” è e
sarà sempre una cosa bellissima <3
La casa davanti alla quale stanno passando in quel momento
è un’abitazione come tante altre; o meglio, dovrebbe essere l’ultima di tutto
il quartiere a cui prestare particolare attenzione: è piccola, più che modesta,
e sembra niente più dell’accozzaglia di materiali di seconda o terza mano,
messi insieme per necessità.
Lui e Kanba passano spesso da lì, è una scorciatoia – lasciano il parco dove
giocano, girano un angolo e anziché prendere la strada principale hanno trovato
un vicolo un po’ stretto ma comodo abbastanza per due bambini; lo percorrono
interamente e via, sbucano nella strada di quella casa piccola e vecchia.
A Kanba non piace tanto passarci e all’inizio faceva storie: non gli piace l’odore,
dice, quello che viene dalla casa. Gli ricorda qualcosa che non sa cos’è, ma
che non pensa di voler ricordare del tutto.
Shoma un po’ lo capisce, perché ha la stessa sensazione che non sa nemmeno se
abbia un nome preciso; ma la casa gli piace, per questo quando passano da
quella strada come ora, si prende qualche istante in cui spesso Kanba sta
parlando di cosa ci sarà per cena per guardarla con la coda dell’occhio.
È vecchia, quello è fuor di dubbio, e se ci abita più di una persona di sicuro
sarà una famiglia piccola e modesta.
Shoma ha visto un signore uscire, un paio di volte, e ha sentito la risata di
una ragazza che non pensa sia la moglie del signore perché sembra giovane.
Forse è sua figlia.
Il lato della casa che gli piace di più è quello che si vede quando, dalla
direzione in cui vengono lui e Kanba, oltrepassano di poco l’abitazione: se si
volta leggermente sulla sinistra e osserva un poco sopra la propria spalla, c’è
un muro fatto di tanti colori. Gli ricorda una coperta che hanno, fatta di
stoffe colorate e diverse messe assieme – quella coperta e quel muro sono come
le persone, si mettono vicine e alcune ci rimangono per tutta la vita,
attaccate da un filo invisibile che può allentarsi ma che non si spezza mai
davvero, mai sul serio.
Quando per osservare quel muro dovrebbe voltarsi troppo e in maniera evidente,
Shoma porta di nuovo lo sguardo davanti a sé oppure su Kanba, sorride e dice la
sua, che magari per quella sera vorrebbe un’omelette di riso.
Oppure lo prende per mano, anche se non è ancora tempo di attraversare e non
sarebbe necessario fare tanta attenzione, e sorride, e parlano di cose semplici
da bambini.
Non glielo ha mai detto Shoma, ma a volte passano davanti alla casa dal muro
colorato e lui sente come se quella fosse un po’ casa sua – è una sensazione
che non sa spiegare, e sa che se glielo dicesse Kanba riderebbe di lui, gli
direbbe che è un piagnucolone, che a casa ci stanno tornando, ovunque essa si
trovi.
Shoma è piccolo, non sa spiegare con le parole quel calore, quella sensazione
di sicurezza e protezione, di amore incondizionato; quella sensazione di
famiglia, che ti basterebbe varcare la soglia di casa per trovare la felicità.
Shoma cammina al fianco di Kanba, voltano un angolo, e si allontanano.
Alcuni bambini sono nati e non desiderati, vengono abbandonati e mai più
cercati.
Loro sono stati insieme a quei bambini che da soli si erano rialzati, avevano
amato, protetto e vissuto, quelli di cui più nessuno si prendeva cura, loro gli
hanno detto il “ti voglio bene” che tutti gli altri avevano sempre voluto
sentire; e, anche se non lo ricordano, hanno portato agli altri l’unica cosa di
cui avevano davvero bisogno per vivere – l’amore che ti convince che vale la
pena di esistere in un mondo che sa essere anche crudele, a volte.
«Ho
sognato i bambini che portavano la felicità.»