Anita
Qualcuno, scendendo
dal pullman, urtò inavvertitamente la sua tracolla verde. Lei strizzò gli occhi
e non disse niente; nemmeno la sua espressione, in realtà, cambiò di molto: non
si fece infastidita, stizzita, innervosita, turbata. Lei strizzò gli occhi e
basta. Dietro i suoi occhiali dalla montatura trasparente, un guizzo veloce,
come un pesciolino che salti all'improvviso fuori dalla boccia e si rituffi poi
dentro con altrettanta agilità. Un movimento naturale.
Non
aveva mai parlato molto, Anita. Diciamo che preferisse ascoltare, anche se non
sarebbe corretto dire nemmeno questo. Poteva sembrare che ascoltasse
attentamente, che si concentrasse, ma in realtà la sua mente era completamente
assente.
Io
suppongo fosse perennemente intimidita dal mondo di fuori, ma non lo affermerei
con certezza. Forse era solo un'impressione data da quel tic, che poteva
sembrare nervoso e che, magari, era solo naturale. Ma supponiamo che davvero
fosse intimidita, che la vita le rombasse intorno con troppa foga perché lei
trovasse il coraggio per viverci dentro e non di lato. Quando la vita la
sfiorava più da vicino, lei, semplicemente, strizzava gli occhi. L'aveva sempre
fatto, fin da bambina.
Forse l'infanzia, effettivamente, era stata l'età più
critica. Mentre gli altri bambini correvano in cortile, Anita si sedeva sul
muretto e guardava. Quando suonava la campanella dell'intervallo e tutti si
raggruppavano intorno al bambino con più figurine, lei rimaneva in disparte,
seduta al suo banco, sempre l'ultimo, in fondo, nell'angolo: lì nessuno poteva
vederla, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di andare a cercarla, ma,
soprattutto, da lì lei poteva vedere tutto e nulla sarebbe mai arrivato
inaspettato. Lei si sentiva bene così: lontana dagli altri, lontana dai contatti
indesiderati, lontana dal rumore, dall'affanno, dalla fretta, che è sempre
cattiva consigliera.
Così iniziarono le visite dai dottori, ogni settimana in
un ospedale diverso, ogni settimana un responso identico al precedente: la bambina sta bene, è solo un po' timida,
forse bisognerebbe darle una spinta, aiutarla a socializzare un po'. Che
parola tremenda, socializzare! Entrare in società, in mezzo agli altri, in mezzo
al rumore, all'affanno, eccetera. Sembra come la programmazione di un computer:
programmare alla socialità. Orribile.
Fu
così, tuttavia, che iniziarono le attività pomeridiane: non gli sport, perché
qualunque palla implicava un contatto indesiderato, qualunque fune, spalliera,
trave era troppo lontana da terra perché cadere non facesse male; non la danza,
perché la bambina - piccola - è proprio un po' goffa; non il coro, per
carità, la bambina nemmeno parla!;
non un corso di musica, flauti, chitarre, pianoforti richiedevano orecchio,
talento, passione, attenzione (dicevo, io, che non era una persona
attenta).
Così la stagione dei corsi terminò com'era iniziata. Grazie a Dio.
La
madre si struggeva a vederla sempre chiusa in casa, sempre con la testa bassa, a
disegnare, a ritagliare i giornali, a studiare, a leggere. A scrivere.
Sinceramente, non potevano definirsi capolavori, le storielle che Anita
scribacchiava: non era una bambina talentuosa. Che si mettessero tutti l'anima
in pace. D'altronde, mica tutti possono diventare Premi Strega. E questo, forse,
era un dolore in più nel cuore della madre, che, se non poteva sognarla
campionessa, ballerina, cantante, musicista, aveva sperato almeno di poterla
vedere pittrice, scrittrice, artista insomma. Nulla. E l'avrebbe amata comunque,
la madre, ma la bambina nemmeno parlava, figurarsi se dimostrasse un po'
d'affetto, se accettasse quello altrui!
La
solitudine era, forse, il suo talento nascosto.
A
quattordici anni iniziò il liceo: la vita, finalmente, si fece più semplice.
Ognuno si faceva i fatti propri, pensava alle proprie
interrogazioni, alle verifiche, alle ricerche, alle relazioni, ai corsi per i
crediti, alle attività extracurricolari, alle amiche, agli amici, alle serate,
agli after, alle vacanze insieme,
alla tesina, alla maturità. Nessuno si curava di chi rimaneva indietro, di chi
sedeva al fondo della classe, con gli occhiali spessi, con i capelli poco
curati, con i vestiti fuori moda. E Anita, finalmente, conobbe la pace:
studiava, leggeva, faceva ricerche; i professori la stimavano, non consigliavano
alla madre di portarla dal dottore e questa, dopo tanto penare, poté sognarla ricercatrice universitaria. Frutto di un
riciclaggio infinito di sogni buttati nel cestino, talmente rimestati e
manipolati da non sembrare nemmeno più un sogno, ma tant'è: ad ognuno il suo.
Così la madre cominciò ad informarsi, anche lei faceva ricerche, tra le amiche,
gli amici, i conoscenti: quali le università migliori, le facoltà più
prestigiose, i mentori più saggi; quale la strada perché la sua bambina potesse entrare a far
parte dell'Albo d'Onore?
Anita, nel frattempo, non si preoccupava, non si
affrettava, continuava a fare tutto quello che aveva sempre fatto, senza
l'angoscia di dover essere la migliore (tanto lo sarebbe sempre stata, volente o
nolente), senza il desiderio di uscire con il massimo dei voti (chi glielo
avrebbe tolto, il suo 100?), senza l'ansia di iscriversi all'università. Lei
leggeva, ogni tanto scriveva ancora, studiava e viveva così, come aveva sempre
vissuto, nel suo universo parallelo fatto di parole e di nozioni, uniche
consolatrici di quella vita così piatta e appassita. Ma Anita non soffriva, ne
avrebbe avuto motivo? Ogni contatto con la vita vera, o presunta tale, la innervosiva,
stare tra i libri la rilassava: perché preoccuparsi?
La
madre la iscrisse a paleontologia. Una vita votata alla ricerca, una vita
proiettata al passato e non al futuro, una vita immobile in mezzo ad esseri
immobili. Non avrebbe avuto bisogno di sedersi all'ultimo banco per stare al
sicuro.
Per
andare all'università, tuttavia, tutte le mattine doveva prendere il pullman.
Restava in piedi, furtiva, dietro alla porta, per poter scendere il prima
possibile, con la sua tracolla verde stretta al fianco. Ogni tanto quelli che
salivano o che scendevano la sfioravano; qualcuno si voltava e le chiedeva
scusa. Lei, come se fosse tutto quello che riuscisse a fare, strizzava gli
occhi, rapidamente, quasi impercettibilmente, dietro agli occhiali che la miopia
le aveva regalato.
Anita, forse, era felice così. Protetta da quella sua
paura, lontana dal caos della vita degli altri, dalle corse, dai ritardi, dagli
appuntamenti. Forse questa era la sua marcia in più, ciò che la rendeva così
serena di fronte alla vita.
Anche se io non giurerei che si possa parlare di
felicità.
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