Nota: è nel giro di qualche
giorno che ho deciso di cancellare e ripubblicare questa fanfiction,
dopo averla riveduta e corretta adeguatamente. L’ho ripresa
qualche tempo fa e mi sono accorta di quanti piccoli dettagli ne
volessi perfezionare, di quanto desiderassi riadattarla al mio stile
attuale. Per cui, ripubblico questo lavoro dopo averlo revisionato ed
esserne un po’ più soddisfatta. Le recensioni che
avevo ricevuto per la vecchia versione mi avevano fatto molto piacere,
tant’è che le ho conservate per ricordo,
perciò ringrazio di cuore chi aveva commentato. Intanto,
preciso che per questa song-fic la canzone citata nel testo è Nine
Crimes di
Damien Rice.
Finito lo sproloquio, vi auguro buona
lettura.
Is
That Alright?
James Potter marciò a passo
spedito verso il dormitorio di Grifondoro attraversando i corridoi con
ampie e nervose falcate, senza voltarsi una sola volta, senza fermarsi
a controllare se gli altri riuscivano a tenere il passo.
Non gliene importava un accidenti di
niente.
In quel momento avrebbe soltanto
voluto prendere a calci ogni cosa, in modo forsennato, bloccando ogni
pensiero razionale per non dover avvertire qualche stupido rimorso. Era
tutto sbagliato, tutto storto, tutto inutile. Il grido martellante
della sua coscienza continuava a rinfacciargli quanto si fosse
dimostrato irrimediabilmente idiota ed infantile. Ed era assurdo. Si
trattava di Snivellus. Si era accanito ferocemente contro di lui, per
consolarsi nel conforto di una valvola di sfogo. E si sentiva in
colpa per averlo fatto.
Incredibile.
Leave me out with
the waste
This is not what I do
It's the wrong kind of place
To be thinking of you
It's the wrong time
For somebody new
It's a small crime
And I've got no excuse
“Avanti, James, adesso
smettila di comportarti come un bambino”.
Uno scatto d’ira gli
percorse il corpo fino alla punta delle dita.
“Smettila tu di dirmi cosa
devo fare, Sirius” sibilò, voltandosi appena.
Scaricò l’impeto della sua occhiata fulminante su
uno dei gradini. Non voleva prendersela anche con il suo migliore
amico, rischiando di coinvolgere tutti quanti all’interno di
un circolo vizioso a cui era stato lui a dare inizio, e che non sapeva
fino a quando avrebbe continuato a divorargli le viscere.
“Stai prendendo tutta questa
storia troppo sul serio, dovresti semplicemente cercare di
rilassarti” gli disse Sirius, sfoggiando quel suo tono
rassicurante con cui di solito riusciva a tranquillizzarlo in un
attimo, inducendolo ad affrontare la vita con meno irruenza. Ma in
quella situazione, per James era davvero troppo difficile sforzarsi di
seguire il suo consiglio.
Lasciò che la vista gli si
appannasse, perdendosi nel vuoto. Non gli interessava vedere dove
andava. Per quello che gli importava, poteva anche finire a
sfracellarsi contro una parete. Forse il dolore e
l’umiliazione per aver compiuto l’ennesima idiozia
gli avrebbero dato modo di allontanare la rabbia che aveva in corpo in
quel momento, e che riusciva a scaricare soltanto impiegando tutte le
sue energie per allungare la gamba e muovere un passo dopo
l’altro.
“James, accidenti, mi vuoi
ascoltare?!”
Sirius aveva già perso la
pazienza. Si sentì afferrare con violenza per una spalla, un
gesto secco lo costrinse a voltarsi. Incrociò lo sguardo del
suo migliore amico solo per un breve secondo, dopodiché
fissò gli occhi a terra, tentando di incenerire una crepa
nel pavimento. Era sicuramente più utile e costruttivo che
dare retta a lui, in circostanze simili.
“Si può sapere
che diavolo ti succede?”
Dal suo tono di voce, ora, traspariva
una chiara irritazione. James contrasse il volto in una smorfia,
assumendo la sua tipica espressione da strafottente che tutti
detestavano. Le labbra tirate, strette, la fronte corrugata, lo sguardo
ritorto. Sentiva di potersi far odiare tranquillamente da tutti, e ne
andava fiero. Era quello che voleva, che lo lasciassero in pace almeno
per una volta.
La pressante attesa di una sua
risposta da parte di Sirius cominciava ad infastidirlo. Avrebbe voluto
reagire con violenza e andarsi a rinchiudere in qualche posto dove
nessuno avrebbe potuto trovarlo. Ma capì che il modo
più semplice per risolvere la questione era dargli quello
che voleva e poi sparire indisturbato, senza che nessuno dovesse
più sentirsi in dovere di esigere qualcosa da lui.
“Che cosa credi che mi
succeda? Mi sono solamente stufato”.
“Non me la bevo, non hai mai
raggiunto questi livelli”.
“Stai cercando di difendere
Snivellus, per caso?” replicò James.
Sollevò lo sguardo, e fissò Sirius diritto negli
occhi con aria di sfida.
“Non dire
assurdità. Mi sto preoccupando per te,
non per Snivellus, razza di imbecille” si sentì
rispondere. La durezza del tono di Sirius e la pesantezza dell'insulto
che aveva osato rivolgergli furono per James come uno schiaffo in pieno
volto. Eccone un altro che si divertiva ad umiliarlo. Era stanco di
tutto questo.
“Scusami,”
rimarcò, in tono decisamente ironico, “ma non
riesco proprio a capire perché ti preoccupi così
tanto”.
Con uno strattone tentò di
divincolarsi dalla presa di Sirius. Sentì il rumore secco di
uno strappo alla camicia, ma la mano che lo tratteneva si avvolse
intorno al mantello e strinse con forza.
“Su, Padfoot, lascialo
stare--” tentò di intervenire Remus, con il chiaro
tono di voce di chi sta cercando di ripristinare la calma, ma Sirius
non gli diede retta e intensificò la stretta.
“Sembravi fuori di testa,
accidenti! È mai possibile che una sola frase pronunciata da
quella stupida ragazzina riesca a ridurti così?”
I muscoli di James si irrigidirono,
mentre un groppo gli serrava improvvisamente la gola. Guardava ancora
Sirius negli occhi. Le sue parole si erano trasformate in un altro
schiaffo; poteva quasi sentire la guancia bruciargli. Non un briciolo
del suo orgoglio riusciva ad emergere da quel mare di rabbia. Era
più forte di lui, non riusciva davvero a dare la colpa a
lei. Lei non c’entrava niente. Non era in torto. Non si era
messa a sputare sentenze solo per il semplice gusto di vederlo reagire
negativamente, non sentiva l’impellente bisogno di provocare
qualcuno per trarne un piacere personale e nemmeno nutriva la
necessità di trasformare la sua vita in una farsa per
mantenere la faccia davanti a tutti. Quelle cose sul suo conto le aveva
dette perché le pensava davvero, e prendere atto di una
simile verità gli stava costando la lucidità
mentale.
Is that alright?
Give my gun away when it's loaded
Is that alright?
If you don't shoot it how am I supposed to hold it
Is that alright?
Give my gun away when it's loaded
Is that alright, yeah, with you?
James distolse gli occhi dal volto di
Sirius, reclinando il capo in direzione di un punto imprecisato alle
spalle dell’amico. Rinunciò ad attingere la forza
necessaria a risalire da quel baratro sforzandosi di notare
l’apprensione aleggiante sul volto di Remus e Peter,
perché per quanto sapesse che si stavano soltanto
preoccupando per lui si rendeva conto che l’appoggio dei suoi
amici non gli era sufficiente a riprendersi, in quel momento. Non
voleva discuterne; aborriva anche solo l’idea di provare ad
ammettere quanto gli bruciava. Finché si trattava di
dissimulare il suo malessere svagandosi con Snivellus non
c’erano problemi. Ma non poteva tollerare di spogliarsi di
ogni dignità davanti a loro, per quanto fossero le persone
che lo conoscevano meglio al mondo. E loro, dannazione, non potevano
essere così perversi da volergli fare ammettere a tutti i
costi che l’aver scoperto quale tipo di considerazione
nutrisse Lily Evans nei suoi confronti l’aveva gettato in un
abisso senza fondo.
Capì che l’unico
modo per essere lasciato in pace era tentare di tranquillizzarli.
“Non ti scaldare, mi
passerà. È stato solo un momento. Evita di
prendertela a male più di me”.
Sentì lo sprezzante sguardo
di rimprovero di Sirius inchiodarlo a terra. Ma lui voleva andarsene.
Non voleva più sopportare tutta quella pressione che gravava
continuamente sulle sue spalle, o avrebbe sicuramente finito per
esplodere. E Sirius, Remus e Peter non si meritavano di essere
trasformati nelle prossime vittime dei suoi sfoghi rabbiosi.
“Proprio non ti
capisco” gli disse Padfoot, con un distacco che lo
ferì. Il groppo alla gola di James si fece più
stretto.
“Bene, ti consiglio di fare
un altro tentativo mentre non sarò nei paraggi”
rispose.
La discussione era da considerarsi
chiusa. Si divincolò di nuovo, e stavolta riuscì
a liberarsi. Sirius aveva ceduto, allentando la stretta. La vittoria
era sua, e per celebrarla aveva bisogno della più completa
solitudine.
James salì gli ultimi
gradini della scala a chiocciola di corsa, senza voltarsi indietro.
Raggiunse la sua stanza, afferrò il Mantello
dell’Invisibilità con un gesto rapido e secco, se
lo calò sul volto e si diresse di nuovo verso il buco del
ritratto, oltrepassando i suoi compagni con un fruscio appena
percettibile.
***
Dopo circa un’ora trascorsa
lì dentro, James si accorse di aver completamente perso il
senso del tempo.
Il freddo gli percuoteva le ossa,
eppure la sua ostinazione gli impediva di alzarsi e abbandonare
quell’angolo per trovare rifugio in un posto più
riscaldato. Quello era l'unico e solo luogo in cui davvero poteva
sperare di avere pace; a quell’ora non ci si avvicinava anima
viva. Erano tutti intenti a festeggiare la fine di un altro esame, e
nessuno pensava a scrivere stupide lettere, né tantomeno a
girovagare fino lassù per il puro piacere di farlo. Era
solo, e solo sarebbe rimasto.
Continuava a sbattere con violenza il
pugno chiuso contro la parete scabra. Ormai la sua mano era piena di
graffi e di sangue, ma il dolore non lo sentiva più.
Prendere a pugni un muro era l'unica cosa che riusciva a fargli
sbollire efficacemente la rabbia: gli impediva di distruggere con
troppa facilità oggetti che non gli avrebbero procurato
nessuna sofferenza fisica al momento dell’urto, mentre lui
aveva bisogno di distogliere l’attenzione dalla sua collera
concentrandosi su qualche dettaglio esterno, come ad esempio una mano
scorticata. Faceva abbastanza male da fargli sbollire tutto quanto,
dopo un po’. Buttare giù le pareti di Hogwarts
invece era evidentemente impossibile, anche se quel suo periodico
rituale lo conduceva lì piuttosto di frequente, e la forza
che ci metteva non era poi così trascurabile.
Sospirò e chiuse gli occhi,
lentamente. Sentì svanire l'ultimo impeto di violenza, e la
sua mano smise di colpire il muro. Era finita, ora, era notte fonda e
la rabbia era passata. O almeno, ne aveva abbastanza di riversarsi
all'esterno.
Provò a ripensarci, per
verificare se l’effetto era del tutto svanito. Lily Evans,
l’unica ragazza al mondo che fosse mai riuscita a renderlo
talmente succube da farlo vergognare di se stesso, pensava che lui
fosse soltanto un ridicolo sbruffone.
Sentì un peso sul petto,
una specie di enorme macigno che gli affaticava il respiro.
Forse quello era il dolore.
Tentò di rallentare il
respiro, dosando la quantità d’aria che gli usciva
dai polmoni con una concentrazione esasperante. Il tremito gli scese
alle mani, e per calmarlo le strinse spasmodicamente intorno ai lembi
del mantello. Era diventato una creatura insignificante, di cui nessuno
si curava, reso invisibile per sua stessa volontà. Spesso
non capiva se davvero desiderava essere lasciato solo perché
in quei momenti non avrebbe potuto tollerare nemmeno la muta presenza
di un amico, o se agiva così per necessità.
Perché dopo la rabbia subentrava il tormento, e con il
tormento la debolezza. E nessuno avrebbe mai dovuto vederlo ridotto in
quello stato. Aveva un onore, una dignità da mantenere. Era
il più rinomato Cacciatore della squadra di Quidditch di
Grifondoro, e la sua faccia la conoscevano tutti. Era un ruolo
difficile da sostenere, che spesso finiva per disgustarlo,
perché non gli concedeva mai nemmeno un attimo di respiro.
Era costretto a sforzarsi di piacere alla gente ogni istante della sua
misera esistenza, sostanzialmente per una sua scelta; avrebbe potuto
infischiarsene di ciò che pensavano gli altri, ma lui voleva
essere il migliore, qualcuno che anche Lily potesse adorare.
Forse era per quello che Sirius era
così preoccupato: perché il giorno dopo tutti
avrebbero cominciato a mormorare con malcelata discrezione riguardo al
suo terribile scatto d’ira, smontando pezzo per pezzo la sua
perfetta immagine davanti all’intera scuola. Magari i
Serpeverde avrebbero tentato di farlo buttare fuori dalla squadra,
accusandolo di essere un soggetto violento e pericoloso.
L’aspetto ironico della questione era che in quel momento non
gliene importava assolutamente nulla. Avrebbero anche potuto espellerlo
dalla squadra di Quidditch, da Hogwarts stessa, non sarebbe cambiato
niente, Lily Evans non avrebbe mai mutato opinione riguardo a lui. E
lui, per anni e anni, nella sua cieca stupidità non si era
mai reso conto del fatto che i suoi disperati tentativi di farsi notare
da lei le erano risultati solamente ridicoli e deplorevoli.
Era un misero ragazzino fallito, ecco
la verità. Detestava compatirsi, atteggiarsi da vittima,
suscitare la pietà altrui anche solo involontariamente, ma
in quel momento non riusciva davvero a farne a meno. Gli serviva per
dare un senso a tutto quello che era successo, al fatto che continuasse
ad andargli male ogni cosa, al fatto che ogni mattina si svegliava
sperando che la giornata si sarebbe rivelata più serena
della precedente, e invece c'era sempre un qualche fattore esterno che
interveniva a turbare il suo equilibrio già di per
sé precario. Un equilibrio che si reggeva
sull’illusione che Lily Evans un giorno gli avrebbe parlato
gentilmente e sarebbe rimasta colpita da lui. Quell’illusione
ormai non poteva più permettersi di coltivarla.
E faceva male constatarlo.
Faceva davvero male.
***
Fu il secco cigolio dei cardini a
svegliare James di soprassalto. Aveva chiuso gli occhi dopo aver
riflettuto sulla possibilità di concedersi una pausa dai
suoi pensieri assillanti, ma anche quella, evidentemente, non era stata
una mossa molto ben studiata. Qualcuno era entrato nella Guferia.
I battiti gli si bloccarono di colpo
mentre guardava giù e si rendeva conto di chi avesse appena
compiuto il suo ingresso lì dentro. L’avrebbe
riconosciuta ovunque, purtroppo possedeva un’attenzione e una
capacità di osservazione fin troppo acute. Riconosceva le
movenze quasi nervose nella loro sistematica misura, la
tonalità rosso cupo dei capelli, le fattezze delle mani che
si protendevano a richiamare il gufo, il modo in cui reclinava la testa
da un lato. Si maledisse silenziosamente. Non aveva previsto che
avrebbe potuto succedere, e se non l’aveva previsto
l’unica strada che gli si profilava davanti era piombare nel
panico.
Per fortuna finì presto.
Lily stava per andarsene. L’ennesimo brivido di freddo gli
percorse la schiena, e un’idea folle gli balzò
alla mente. Decise di assecondarla, considerato che ormai non aveva
più nulla da perdere. Scivolò giù
dalla nicchia in cui si era rifugiato, muovendosi il più
silenziosamente possibile, attraversò la Guferia e
bloccò la porta con una mano poco prima che si richiudesse
alle spalle della Evans, scivolò fuori e la seguì
giù per le scale, in punta di piedi. Trattenne il respiro,
chiedendosi perché sentisse sempre il bisogno di essere
così autolesionista. Lei era lì, a pochi passi di
distanza, e lui le stava alle spalle, percorrendo i suoi stessi passi,
impiegando tutte le sue energie per non farsi nemmeno sentire, senza
sapere esattamente perché lo stesse facendo. Non aveva
nemmeno la possibilità di soffermarsi ad analizzare quello
che gli stava passando per la testa in quel momento, era un carico
eccessivo e troppo vario, e forse faticava a realizzare che in ogni
caso, dopo quello che era successo quel pomeriggio, niente sarebbe
stato più come prima tra loro due.
Gli accadde in un solo istante di
inciampare inavvertitamente in un gradino storto e di perdere
l’equilibrio un momento prima che i suoi riflessi potessero
scattare, scivolò e tentò di arrestare la caduta
annaspando con un braccio e aggrappandosi al muro, pestò un
orlo del mantello e per poco non cadde in avanti, sentendoselo
strappare violentemente via dal capo.
“Potter!”
Leave me out with
the waste
This is not what I do
It's the wrong kind of place
To be cheating on you
It's the wrong time
she's pulling me through
It's a small crime
And I've got no excuse
Il tuffo al cuore gli fece quasi
uscire gli occhi dalle orbite. James fissò Lily,
terrorizzato, sentendosi sprofondare. E ora, che accidenti le
raccontava per giustificare la situazione?
A che cosa valeva la sua tanto
decantata intelligenza quando finiva per cacciarsi in pasticci del
genere?
“Scusa, Evans”
disse, impacciato, raccogliendo rapidamente il mantello e avvolgendolo
fino a poterlo confinare in una tasca dei pantaloni.
“Scusa in che senso? Da dove
diavolo salti fuori?” gli domandò, con veemenza.
La sua rabbia lo investiva senza
pietà, e lui cominciava a sentirsi male. Era la prima volta
che si rivolgevano di nuovo la parola dopo l’incidente di
quel pomeriggio, e sembrava così assurdo che proprio in
un’occasione del genere la sorte gli avesse riserbato di
dover fare una figura così pessima.
“Ero... nei paraggi, ecco.
Non scandalizzarti”.
“Guarda dove ti trovi,
Potter. L'unico posto da cui puoi provenire è la Guferia, e
io ci ho appena messo piede”.
Non aveva il coraggio di guardarla se
non di sfuggita. Il cuore gli batteva troppo veloce per poter essere
sicuro di riuscire a mantenere il controllo su se stesso.
“Hai bisogno di analizzare
la dinamica dei fatti fin nei minimi dettagli prima di essere
soddisfatta?” replicò, sfoggiando un leggero
sarcasmo.
“Oh, certo, perdonami,
è evidente che tu non ti preoccupi mai quando qualcuno ti
compare di colpo alle spalle. Vivi in un mondo troppo avventuroso per
trovarla una cosa un po’ fuori dal normale” gli
rispose lei, sullo stesso tono. James sospirò e
inarcò le sopracciglia, imponendosi di rinunciare a litigare.
“Potevo benissimo esserci
anch'io nella Guferia” le disse, come se fosse ovvio.
“In tal caso sai nasconderti
fin troppo bene” commentò lei, scettica.
“Ha importanza, per
caso?”
Stava reagendo con
scontrosità, se n’era reso conto. Ma era meglio
così. Era meglio che lei non sapesse né capisse
mai per nessuna ragione quanto quello che era successo l'avesse
emotivamente distrutto.
“E va bene, tieniti i tuoi
misteri, non mi interessa” cedette lei, facendo un gesto
spazientito con la mano e avviandosi giù per le scale. James
rimase fermo a fissarle la schiena per qualche secondo, poi
pensò che forse sarebbe stato meglio se fosse tornato al
dormitorio, nonostante tutto.
“E adesso che cosa
vuoi?” lo attaccò Lily, voltandosi con freddezza
verso di lui e squadrandolo da capo a piedi. Lui trattenne di
nuovo il respiro, anche se in quel momento non ce n’era
bisogno. Si diede mentalmente dello stupido. Era davvero impossibile
non riuscire a notare il traboccante disprezzo che traspariva dai suoi
occhi.
“C'è solo un modo
per scendere dalla torre” rispose, a voce fioca, stringendosi
nelle spalle.
“Potresti usare la scopa e
volare giù dalla finestra, dato che sei tanto
bravo” replicò lei, tagliente. Voleva ancora
fargliela pagare, era evidente. Ma ormai la sua reputazione era
rovinata, e a lui non importava più nulla. Farsi insultare
ancora per un po’ non avrebbe cambiato le cose.
Storse la bocca, corrugò la
fronte e, non trovando le parole adatte per risponderle né
una qualsiasi argomentazione sensata per controbattere, prese a
scendere velocemente i pochi gradini che li separavano, fino a
giungerle di fianco e a superarla. Forse nel farlo aveva sfiorato
l’orlo del suo mantello.
“Che cos’hai
fatto?” lo bloccò improvvisamente lei, qualche
gradino più avanti.
“Come?”
domandò, voltandosi di riflesso per guardarla.
“Alla mano,
Potter”.
Come diavolo aveva fatto ad
accorgersene?
Decise che non aveva alcuna intenzione
di provare a farsi compatire.
“Che te ne
importa” disse, in tono piatto, poi atterrò sul
pianerottolo saltando l’ultimo gradino e continuò
a camminare. Lei teneva il passo. Non gli si avvicinava troppo, quasi
sicuramente preferiva mantenere le distanze, e ormai James aveva smesso
di credere che giocasse soltanto a fare la reticente perché
le piaceva essere corteggiata. Però non riuscì a
lasciarla indietro di troppo. Gli stava comunque alle costole,
intravedeva il balenio dei riflessi delle torce sui suoi capelli.
Is that alright?
Give my gun away when it's loaded
Is that alright?
If you don't shoot it how am I supposed to hold it
Is that alright?
Give my gun away when it's loaded
Is that alright
Is that alright with you?
Nessuno diceva una parola. Era come
doveva essere. Lui ferito e deluso, lei disgustata. Lei,
l’unica da cui avesse mai voluto qualcosa. L’unica
che non avrebbe mai desiderato rivolgergli la parola per più
dello stretto necessario.
La vita era davvero contorta nella sua
perfidia, alle volte.
“Come sta Piton?”
la sentì chiedere, dopo un po’. Una sorda risata
gli crebbe nelle orecchie.
“Come non approveresti che
stia, probabilmente” replicò, fissando lo sguardo
sul fondo del corridoio. Ancora poco, e quella tortura avrebbe avuto
fine. Non ne poteva più. Il cuore gli faceva male, e
l’umiliazione lo schiacciava sotto i suoi piedi
fracassandogli le costole una per una, senza pietà.
“Il modo in cui vi siete
comportati, sono cose da bambini” disse lei, in tono
cupamente amaro.
“Già,
probabile” rispose, scrollando le spalle con finta
indifferenza.
Non capiva perché sentisse
il dovere di rimproverarlo. Come se non ne fosse già
abbastanza cosciente. Come se fosse davvero solo un bambino che non era
in grado di comprendere che cosa fosse giusto fare e che cosa no. Come
se ancora non fosse riuscito a capire il significato del suo disprezzo
verso di lui.
Faceva male. Tutto questo, faceva
male. Avere a fianco Lily Evans, e continuare a ripetersi che mai e poi
mai avrebbe potuto ottenere qualcosa da lei in virtù dei
suoi patetici sentimenti. Che era tutto vano e inutile. Che erano
incompatibili, e che a quel dato di fatto non c’era rimedio.
Avrebbe dovuto imparare a rassegnarsi.
Fare come faceva Sirius, trovare subito un nuovo passatempo per
distrarsi. O come faceva Remus, accettare la realtà dei
fatti con filosofico pragmatismo. O come faceva Peter, avere
l’umiltà di ammettere che stava da cani e
appoggiarsi ai suoi amici per ricevere un po’ di conforto. La
verità era anche quella: che i suoi compagni erano molto
più svegli e intelligenti di lui, che invece si era fissato
su un unico obiettivo che non avrebbe mai potuto raggiungere. E ora, si
ritrovava solo in mezzo alle macerie.
Sentì che Lily gli si
fermava a fianco, una volta giunti in sala comune. Da una parte il suo
dormitorio, dall'altra quello delle ragazze. Il momento che forse non
avrebbe mai voluto veder arrivare. L’emblema di quello che
significava il loro rapporto: l’inevitabile
necessità di intraprendere due strade diametralmente
opposte. Qualcosa che non aveva significato, e che evidentemente mai ne
avrebbe avuto.
Doveva imparare a convivere con quella
consapevolezza.
“Buonanotte,
Evans” mormorò, stentoreamente. Le parole gli
uscirono a fatica, con voce roca. Ma era inevitabile. Doveva perderla,
di nuovo, per l'ennesima volta. E non poteva fermarsi ad attendere una
sua risposta. La lasciò lì, immobile,
probabilmente in preda a provare un ardente disprezzo nei suoi
confronti, sentendo che non poteva esserci altro da aggiungere. Si
voltò a guardarla soltanto di sfuggita, mentre saliva la
scala a chiocciola sulla destra. I loro sguardi si incrociarono per un
solo istante. Dopo, anche lei smise di soffermarsi su stupidi dettagli,
e corse su, verso il dormitorio, mentre l'imbarazzo si ergeva a
dividerli come ennesima barriera. Il battito di James si
placò lievemente, e una strana sensazione di malessere e
spossatezza lo invase. Capì che aveva bisogno di dormire, e
di provare a dimenticare. Forse avrebbe sognato qualcosa di
confortante, e al risveglio, per quei pochi istanti di ingenua
inconsapevolezza, avrebbe creduto fermamente che fosse tutto vero, e
che la giornata non gli avrebbe posto problemi da affrontare.
Nota
di fine fanfiction: giusto
per precisare, questa shot si conclude davvero qui. Ricordo che
qualcuno me l’aveva chiesto, all’epoca, ma per me
questo rappresenta un preludio a sé stante. Tutte le mie
fanfiction che hanno come protagonisti i Malandrini e Lily si legano
tra di loro, ma quanto precede Between
You And The Giant Squid ha
sostanzialmente carattere malinconico, e in questo, personalmente, ci
sguazzo con piacere. Per me la maturazione di James parte da qui, e
quindi mi è sembrato opportuno mostrare la
profondità del suo sconforto.