L'amore che fu mio
“Nel
fosco sentiero d’un sogno
andai a trovare
l’amore che fu mio
in una vita
precedente” (Tagore)
Nel limpido chiarore del cielo si stagliavano solo poche nubi, calde e
leggere, mentre un dolce vento d'estate le sospingeva lontano, verso
orizzonti d’opale e fuoco.
Un rigoglioso mare d'erba, costellato di narcisi selvatici, si agitava
sinuoso alla brezza che piegava i flessuosi cespi della lavanda e
faceva tremare le foglie dell'edera, avvinghiata ai muri di un vecchio
fienile sferzato dal sole.
Fra le ombrose fronde di una possente quercia filtravano sottili lance
di sole, che puntellavano il terreno sottostante d'iridescenti giochi
di luce.
Harlock era disteso in quell'ombra fresca e tranquilla, un braccio
dietro la testa e gli occhi chiusi. Pareva dormire. Ma il fruscio
insistente e ritmico delle lucide foglie scure aveva catturato la sua
attenzione: era un suono dolce simile al rumore lontano del mare.
Tra i rami più alti dell’albero, il fresco canto
di un merlo si elevava al cielo.
Harlock non pensava a nulla: era come se quel mattino di luce fosse
entrato in lui, pienamente, e riempisse la sua anima fin nei recessi
più occulti. Un chiaro oceano d’oblio lo
trasportava lontano, dentro di sé, nel più
immenso silenzio.
D’improvviso, un’ombra lunga e leggera si distese
sul suo corpo, oscurando il sole. Harlock riaprì gli occhi,
richiamato con violenza alla superficie della coscienza: una giovane
donna era in piedi davanti a lui, silenziosa, bella. Un puro fiume
d’oro le scorreva tra i lunghi capelli mossi dal vento, e la
pelle era luminosa, come pervasa da un sole interiore.
Il giovane non disse nulla: con il busto appena eretto, un braccio
poggiato sull’erba per sostenersi, fissava gli occhi di
quell’apparizione: possedevano lo stesso azzurro infinito di
quel cielo d’estate.
E lei pareva disposta a restare lì, immobile, per tutto il
tempo in cui lui avesse desiderato guardarla, indagandone il viso e il
corpo.
- Chi sei? – le domandò d’un tratto,
riemergendo da un sogno antico. Ma non ci fu risposta. Lo
fissò soltanto, dolcemente interrogativa: “Non mi
riconosci più?”, pareva chiedergli.
Harlock rimase turbato da quello sguardo: per un istante, gli
sembrò che una lunga vita polverosa si dispiegasse davanti
ai suoi occhi, fulminea. Una vita lontana e cara in cui
l’aveva conosciuta. Ma non riusciva a ricordare il suo nome.
Rimase di nuovo in silenzio, per brevi istanti che passarono lenti:
pareva che l’eternità si fosse distesa fra loro.
- Chi sei!? – ripeté, imperioso; ma un soffio
d’accoramento gli tremava nella voce.
Lei lo guardò senza replicare e si voltò,
scendendo lungo il ripido pendio erboso. Harlock se ne rese conto solo
quando si era ormai allontanata e il suo vestito leggero si confondeva
fra i tarassachi in fiore della campagna.
- Aspetta… - gridò, balzando in piedi e correndo
verso di lei, mentre il vento era diventato fresco e gli sferzava il
volto e il petto semiscoperto.
Per quanto Harlock si sforzasse di raggiungerla, la giovane
era sempre lontana, come se una distanza più forte
di quella fisica li separasse.
Attraversarono a perdifiato i prati luminosi. Nei campi lì
accanto cresceva il grano in grosse spighe, mentre lo scuro profilo dei
fossi, verdeggianti d’erba nuova, divideva il terreno in
appezzamenti di varie dimensioni. Tutto era immobile sotto il sole,
permeato di muta attesa.
Soltanto quando l’aveva ormai perduta di vista il giovane si
fermò, ansimante. Si piegò, appoggiando le mani
sulle ginocchia e respirò profondamente per alcuni secondi.
Accarezzate dal vento, alcune pianticelle d’iperico si
strofinavano contro le sue gambe.
- Dove… dove sei andata… - mormorò,
senza rialzare il volto.
Sentiva che doveva trovarla: a qualunque costo avrebbe dovuto
raggiungerla, rivederla; specchiarsi nei suoi occhi per ritrovare una
parte di se stesso. Era in lei che una vita lontana scorreva, come un
lento fiume: una vita che gli apparteneva!
Quando alzò il viso, un paesaggio che non aveva notato stava
davanti a lui, in tutta la sua evidenza: una bianca strada
serpeggiante, sassosa, si snodava fra l’erba e conduceva ad
un piccolo borgo di case, circondate d’orti rigogliosi.
Laggiù, tutto era immerso nel caldo silenzio del
primo pomeriggio. Quell’atmosfera sospesa aveva in
sé un fascino magico e seducente, quasi che il tempo avesse
smesso di scorrere fra le vie del paese.
Harlock ne fu attratto irresistibilmente e si mosse:
attraversò il prato obliquamente, fin dove l’erba
raggiungeva i margini della strada, proseguendo poi verso quel gruppo
di case addormentate sotto il sole.
- Probabilmente – diceva tra sé – quella
giovane sarà qui, in una di queste abitazioni.
Si fermò solamente quando giunse nell’ampia piazza
circolare, al cui centro una fontana di pietra gettava freschi spruzzi
verso il cielo. Tutto era silenzio; solo, di tanto in tanto, si levava
il lontano frinire di una cicala solitaria.
Si guardò attorno, socchiudendo gli occhi per la troppa
luce: non c’era nessuno. Eppure sentiva che dietro le mura di
quelle case c’era vita, una vita assonnata che si concedeva
il giusto riposo.
D’improvviso, provò il peso di tutto quel sole e
di quel calore e si sedette lungo i bordi della fontana, ombreggiati
dall’acqua che scaturiva a fiotti. Si allungò
verso uno di quei getti e raccolse nelle mani un po’
d’acqua, portandola alle labbra. La gustò
lentamente: gli pareva che avesse un sapore nuovo, sconosciuto e la sua
pura freschezza placò presto la sete.
Ma quando stava bevendo l’ultimo sorso, nella poca acqua
rimasta nel cavo della mano, vide riflettersi il viso di quella donna
dai lunghi capelli di sole. Harlock trasalì e
rialzò la testa: era lì, di fronte a lui, e lo
fissava come se aspettasse qualcosa.
Questa volta, il giovane reagì d’istinto:
s’alzò di scatto e le strinse le braccia con le
mani, fredde e bagnate, cercando invano nella sua mente le parole che
tanto aveva desiderato dirle. Pareva che il cuore gli scoppiasse nel
petto, per il dolore che all’improvviso lo aveva assalito:
quelle parole che gli si agitavano nel cuore avevano più
importanza della sua stessa vita. Le era andate cercando
attraverso il tempo e il fango delle vite passate non avevano potuto
cancellarle; ma troppo profondamente stavano sepolte, erano troppo
lontane!
Harlock ansimava piano, le labbra vicine a quelle di lei, i loro
respiri confusi in un unico soffio. La giovane aspettava ancora, muta,
come se solo lui potesse ridarle la voce. Quella voce che doveva
essergli tanto cara.
Quanto tempo trascorsero in quell’abbraccio, Harlock non
seppe mai dirlo: un minuto un giorno o una vita intera. Ma quando
lasciò scivolare le mani lungo le braccia di lei, nulla era
cambiato attorno a loro.
In tutta quella luce radiosa, egli si sentiva prigioniero del buio
più sordo e desolato.
Teneva la testa china e si fissava le mani senza attenzione alcuna,
cercando dentro di sé una soluzione, una spiegazione per
tutto questo. Ma all’improvviso, notò che il corpo
di lei stava sbiadendo: le braccia leggermente abbronzate perdevano di
vigore, il vestito arancio sfumava sempre più i suoi toni,
le lunghe gambe sinuose si scoloravano, divenendo quasi trasparenti.
Rialzò la testa di scatto, fissandola in viso: un pallore
cinereo lo ricopriva mentre attraverso di lei si distinguevano con
nitidezza le scure sagome degli edifici.
- No! – gridò Harlock, allungando le braccia per
afferrarla. Ma le mani strinsero il vuoto.
- Che succede? Che cos’hai? – la giovane
non rispose. Lo guardò con occhi colmi di dolore, stendendo
a sua volta le braccia verso di lui: la distanza che li separava era
diventata disperatamente profonda.
- Aspetta… non voglio lasciarti andare così!
Aspetta!
Sotto il sole divenuto accecante, il corpo di lei si dissolse
completamente, come un improvviso riflesso scompare
dall’acqua.
- No… Io so il tuo nome! Aspetta. Aspetta! – le
sue grida sgomente riecheggiarono in lontananza, contro la facciata
liscia della chiesa sulla collina. Ma nel piccolo borgo assonnato
nessuno aveva udito: nessuno s’affacciò, nessuno
uscì.
Harlock rimase solo nella piazza. La fontana gorgogliava fresca,
gettando in alto le sue liquide braccia. Le imposte di una locanda
cigolavano debolmente, spinte da un sottile alito di vento. La cicala
lontana taceva, trattenendo il respiro e i gigli della campagna
scuotevano i loro petali, piegandosi flessuosi verso terra.
- Ah… - Harlock si guardò attorno,
girando lo sguardo su tutta la piazza – Dove sei
andata… Dove?
Attese, ascoltando il vento frusciare alto sopra gli alberi. Era un
vento caldo di scirocco e portava nascosto tra le sue pieghe
ariose l’odore salmastro del mare. Levò in alto
gli occhi, verso il cielo, sempre limpido e azzurro, senza nubi.
Mentre stava così, un’ombra simile ad ossidiana si
distese sul lastricato della piazza, alle sue spalle, lambendogli con
l’estremità superiore i piedi e le gambe.
Improvvisamente, il giovane percepì quella presenza e si
voltò: non c’era nessuno. Solo quella lunga ombra
sottile che usciva sinistra da un vicolo buio e si distendeva su
metà del piazzale. Era l’ombra di un uomo.
- Chi sei? – lo interrogò subito Harlock,
imperiosamente.
Ma non venne risposta.
Intanto, nell’opaco silenzio che aleggiava tra loro, piccole
voci si alzarono vibrando, come le corde di pallide arpe perdute.
Inizialmente Harlock non percepì nulla, ma dopo alcuni
istanti quel suono inusuale giunse alle sue orecchie. Allora si pose in
ascolto e udì distintamente:
“Lei ha perduto la sua voce
d’oceano…”
“La sua voce d’abissi di
stelle…”
“Troppa terra è passata sul suo corpo.”
“Troppa terra è scesa in quel
petto…”
- Ah… che significa? – mormorò Harlock,
con gli occhi rivolti agli alberi di robinia, che spandevano rotondi
profumi nell’aria. - Parlano di lei… ma da dove
giungono e chi sono?
“Lui non riconosce quel volto…”
“Lui non ricorda quel nome.”
Ripresero cantilenanti le voci segrete.
“Eppur è sceso con lei tra
l’erba…”
“Eppur si è disteso con lei sotto i
fiori…”
“Lui non ricorda quel nome… quel nome lui non
ricorda …”
Le voci, fattesi acute e veementi, presero a ripetere con forza
quell’unica frase. In alto, sopra gli alberi e le case, tutto
sembrava divenuto un girotondo vertiginoso di parole nettamente
scandite.
Sempre muta, l’ombra distesa sulle pallide pietre
staccò un braccio dal suolo, alzandolo alto, alto, verso il
cielo.
Stordito e confuso da tutti quei segni, Harlock si portò le
mani sulle orecchie, chinando la testa. Ma ogni parola raggiungeva
ugualmente i suoi sensi.
“Lui non ricorda quel nome… lui non ricorda quel
nome… Era il nome di Lei, e lo ha scordato… Non
ricorda quel nome!”
- Non è vero! – gridò Harlock
d’un tratto, rialzando la testa – So come si chiama!
- Dimmi il suo nome! – ordinò l’Ombra.
“Menti ora, mentivi un tempo: tu non sai, non sai, non
sai…” Ripresero le voci con insistenza.
- No! Io conosco il suo nome, l’ho sempre saputo! Il suo nome
è Amata! – il grido di Harlock arrivò
in alto, oltre gli alberi, il cielo e le voci. Vibrante e chiaro,
attraversò il cosmo.
In quell’istante cessarono tutte le parole, la lunga ombra
buia scomparve, dissolvendosi in polvere che il vento disperse, le
rondini volarono per il cielo, sfiorando i tetti delle case e lontano,
chissà dove, un merlo prese a cantare una serena melodia.
In quella calma ritrovata, Harlock prese la parola con forza e disse:
- Ah, città fantasma di silenzio e nulla, rendimela! Rendimi
il profondo sole dei suoi capelli, le sue labbra di frumento che per
secoli hanno dato vita alla terra, le stelle fredde dei suoi occhi che
ho attraversato nella notte, le braccia d’aria e di burrasca,
i gigli della sua veste sottile, l’anima chiara della mia
anima. Restituiscila! L’Amore ha ricordato il suo nome, lei
non è più una fra le altre: ha un’eco
chiara nella voce e le sue pupille brillano come due pietre
d’opale nella notte. Riconosco la musica dei suoi passi. Ogni
fiore sbocciava per lei nell’aurora e l’erba era
verde e fresca sui prati come il nostro amore…
Tutt’intorno ad Harlock la città prese a girare
vorticosamente, come in una giostra fantastica, e le case, le vie, gli
alberi e i vigneti scivolarono e si confusero gli uni negli altri, allo
stesso modo in cui la spuma del mare è inghiottita
nuovamente dall’onda. Intanto la luce del sole era sempre
più abbagliante e dissolveva le forme e i contorni di tutte
le cose, come se un primigenio caos prendesse nuovamente il sopravvento
sul mondo e le sue sostanze.
Tutto si sottometteva all’uomo che combatteva disarmato,
impugnando solo la potenza della parola.
- Rendimi la mia Donna! Città d’ombra e di vuoto,
apri le tue fauci di belva insaziata. Restituiscimi colei che dava luce
al mondo: luce della luce, spiaggia delle stelle, nave trasparente
attraverso i sentieri del crepuscolo, vento d’estate,
l’Eletta. Attraverso il tempo e la buia terra il suo corpo
è sopravvissuto: la Morte che è scesa in lei non
l’ha vinta, non ha deturpato il suo cuore d’uva
selvatica. Rendimi la Donna che con il suo Spirito ha dato vita
all’universo: nelle sue braccia stanno la sera e il mattino,
tra i suoi seni di rose trovano senso lo scorrere impietoso dei giorni
e ogni fiore che muore senz’essere sbocciato! Ridammela! O il
mio corpo distenderà qui lunghe radici di pietra e,
finché non rivedrà il suo volto,
scorrerà sotterraneo sotto le tue fondamenta fradice e
divellerà questa città e i fantasmi timorosi che
la popolano!
D’improvviso, l’acqua della fontana
scaturì con forza, levandosi in enormi getti verso il cielo,
mentre la fontana stessa si sgretolava, divenuta d’un tratto
vecchia pietra corrosa dal tempo. Come da un enorme geyser,
l’acqua sgorgava, ma fresca, limpida e pura. E in
mezzo a quell’acqua, lentamente, si delineava sempre
più il luminoso corpo di Lei. Ogni parte della sua persona,
che il tempo e la dimenticanza avevano cancellato, veniva ora
restituita da quella liquida freschezza. Il giovane contemplava quella
rinascita in silenzio, con negli occhi una profonda luce di gioia. Pian
piano, le membra di Lei ripresero sostanza, furono vive, radiose, come
Harlock le ricordava. E quando ogni cosa fu compiuta, la Donna
aprì i suoi occhi di sole e li posò su colui che
amava. Non parlò, ma egli udì ugualmente la sua
voce:
- Come stai, amico mio? – gli chiese.
Ah, era la stessa di sempre: voce di vento, di ruscello e cascata, voce
traboccante di luce, vestita dall’aurora, profumata come il
mare e i bianchi gigli della terra.
- Bentornata… - rispose Harlock, tendendole la mano.
Ma Lei non si mosse. Allungò le braccia verso di lui e
gli sorrise. Harlock comprese: abbassò la mano e,
rispondendo a quel sorriso, si mosse verso il getto d’acqua
che la custodiva. Vi entrò. Un immenso, puro fiume lo
attraversò completamente, penetrando nel più
profondo del suo essere.
- Bentornato… - gli disse lei a sua volta, andandogli
incontro.
Harlock l’abbracciò: da quanto tempo le mancava la
sua pelle! Com’era possibile che le fosse sopravvissuto,
attraverso i secoli? Come aveva potuto non accorgersi che mancava la
Vita alla sua vita?
Nell’acqua, nella luce, i loro corpi si fusero in un luminoso
abbraccio colmo d’estasi e d’abbandono. Le lunghe
dita di Lei stringevano quelle di Harlock, le loro labbra si cercavano
per parlarsi sempre più intimamente, ed ogni oggetto o
indumento che ricopriva i loro corpi si dissolse in vapori vaghi e
iridescenti. Rimasero solo i loro corpi, nudi e splendenti,
così profondamente confusi che non esistevano più
due esseri, ma un’unica entità non più
divisibile, due anime unite per sempre.
Intanto la dimensione del getto d’acqua cresceva sempre
più in ampiezza e nascondeva i due amanti da ogni sguardo,
sottraendoli a tutto ciò che era terreno e
mortale. Finché d’un tratto, gettando
verso i più alti strati del firmamento un enorme flutto
trasparente, anche il geyser s’acquietò del tutto,
rimanendo soltanto una larga bocca di terra, immobile tra
l’erba e il grano dei campi.
Non c’era più nessuno. Il vento
s’alzò, caldo e lento, soffiando sui narcisi e sui
papaveri sonnolenti. Lontano, le cicale frinivano numerose, senza posa
e tra i rami del noce nero l’allodola cantò,
vibrando la sua musica con malinconica dolcezza.
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