Questa breve storia è un piccolissimo tentativo di introspezione di un personaggio che mi ha sempre affascinato:
Salomè; spero possa piacervi.
Mi scuso se ci saranno imprecisioni storiche e/o di ambientazione, purtroppo non sono il mio forte ed è
scritto di getto.
Su un piatto d’argento.
Si sistemò i capelli sulle spalle,
lasciandoli ricadere sulla schiena come una cascata d’ebano spumeggiante.
Respirò profondamente guardandosi
nei grandi specchi lucidi d’argento; era bella: la più bella di tutto il Medio Oriente.
No, si corresse
mentalmente, non era così bella; ma stasera,
stasera era la più bella, la più fulgida stella del firmamento; stasera avrebbe
brillato come una scintilla di fuoco sacro.
“Stasera ballerai; ballerai per il re e farai in modo che esaudisca ogni tuo
desiderio. E allora tu gli chiederai…” la voce di sua
madre continuava a rimbombarle nella testa.
“Sì, madre, farò tutto quello che
desiderate.”
Tutto quello che desiderate…qualunque
cosa per compiacere sua madre, qualunque cosa per compiacere il suo modello e
la sua ossessione: sua madre, donna perfetta. Bellissima, altera,
regale, fredda, pronta a tutto per il potere. Anche a
sacrificare l’amore dell’unica figlia.
Avrebbe
ricordato per sempre il volto impassibile di sua madre, quattro anni prima, che
la consegnava a quell’uomo, l’uomo per il quale avrebbe dovuto ballare stasera;
quell’uomo che era suo zio, il cognato di sua madre e il suo patrigno; quell’uomo
che l’aveva presa a forza, vincendo le sue deboli resistenze appena iù che bambine solo con una mano. E avrebbe
ricordato per sempre gli occhi freddi e distaccati di sua madre che si
abbassavano mentre le sue urla disperate riempivano l’aria invocando il suo
nome, il nome più dolce, il nome che dovrebbe far sciogliere il cuore di ogni donna…
“Madre, madre…aiuto!Madre!Madre!Perchè?!”
Ma la
porta si era richiusa contro le sue parole, lasciandola da sola ad affrontare l’inferno.
Quella sera, quando era tornata
piangente e dolorante nei loro appartamenti, era stata sua mandre a violentarla
definitivamente, guardandola con disprezzo e superiorità, come se da quel
momento non fosse più una figlia, ma solo qualcuno a lei inferiore in rango e
dignità.
“Impara a comportarti da donna e
a fare meno piagnistei. E’ il tuo dovere.”
Quella, e tutte
le sere successive.
Da allora, avrebbe fatto
qualunque cosa pur di compiacere la madre, pur di ottenere almeno un briciolo di approvazione da quegli occhi di giada.
Le lanterne ad olio ondeggiavano,
agganciate al soffitto per fili d’oro, e mandavano una luce calda su tutto,
donando vita a tutto ciò che sfioravano; ogni fibra del suo corpo avrebbe
vissuto quella notte, forse per bruciare e svanire nel buio subito dopo, ma
sarebbe avvampata, e il ricordo della sua luce sarebbe durato per secoli.
Mentre scendeva i gradini della grande sala in penombra, scintillante dei riflessi delle
gemme e dell’oro che l’adornavano e pervasa dal forte odore delle spezie e
della cera di numerose torce, il fumo degli incensi la avvolse, inebriandola e
donandole una strana euforia; non era più una ragazzina di sedici anni, non era
più lo strumento di una madre per i suoi intrighi, non era più l’oggetto del re
e dei suoi uomini.
Era fuoco vivo e bruciava.
Sentì i tamburi attaccar il ritmo
e i suoi piedi rispondere da soli; il mondo intorno cominciò a svanire.
I battiti si fecero più frenetici
e cominciò a ruotare, mentre i mille pendagli d’oro della sua gonna creavano
altre melodie che si intrecciavano fra loro; le sue
mani seguivano strani disegni nell’aria, e come fiamme vive danzavano
frenetiche nel buio, illuminando tutto l’ambiente dei loro movimenti.
Come un rituale: lei era vittima,
sacerdotessa e divinità. Lei era il fuoco che avrebbe bruciato le offerte, lei
era fiamma, anima, fuoco.
Continuava a volteggiare,
muovendo i fianchi, facendo ondeggiare sinuosamente i lombi, mentre scuoteva i
capelli trasformati in una criniera animalesca.
Sentiva il suo spirito
retrocedere nel tempo, tornare indietro al ritmo dei tamburi tribali. I un tempo remoto in cui gli uomini erano
attaccati alla terra e le donne erano dee.
Scuoteva al
testa, e la sua criniera d’ebano spazzava l’aria appesantita della sala.
Ora era un animale: una leonessa bella e fiera e forte, e li avrebbe sbranati
tutti, li avrebbe ridotti alla sua mercè continuando
a ballare.
La danza continuava sempre più
frenetica, le luci calde dei fuochi ballavano sul suo corpo rivestito di metalli
e gemme, e al ritmo dei tamburi si trasformava ancora, incessantemente, come
materia plastica, cambiava forma; non era più un essere animato, ma era
materia: una colata di oro fuso, di fiammeggiante
metallo, un mare di lava incandescente che sfavillava nella notte nera di
quegli uomini, mortali gretti ed ebeti; idiote caverne attraverso cui le sue
scintille apparivano stelle.
Occhi vuoti come morti, e lei la
fiamma dell’Inferno.
Brucia, brucia,
brucia! Il mondo ruotava, il mondo scompariva e si fondeva avvolto nelle fiamme
del giudizio.
“A voi, voi che mi avete usato, guardatemi!
Guardatemi avvampare e bruciate.
A te, te madre che mi hai venduto al miglior offerente: mi vedi
stanotte mentre mando a fuoco il tuo mondo?
Esaudirò il tuo desiderio e mi sacrificherò per sempre nelle fiamme
eterne.
Guardami avvampare e brucia!
Brucia, brucia brucia!”
E come una cometa che piomba sulla terra, come l’ultimo rosso sussulto di vita di
un vulcano, bruciò.
La musica si interruppe
di colpo, lasciandola a recuperare il fiato corto, gli occhi fissi su quelli di
Erode, che farfugliò qualcosa che lei non udì, ma di cui conosceva la risposta
da dare:
“La testa di Giovanni
Battista, su un piatto d’argento.”