Little Bird

di xyz123
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Broken


Gambe lunghe da modella, pancia piatta, un seno nella media, lunghi capelli che scendono scomposti lungo le spalle in informi e delicate curve, occhi verdi, come i campi in primavera, labbra sottili ma non troppo. Era tutto molto invidiabile, eppure c'era qualcosa che stonava, qualcosa di estremamente scomposto che si agitava nascosto ma semplice da notare, come un bambino che gioca a nascondino cercando di mimetizzarsi dietro un palo. Solo che io non ero un bambino, ero consapevole che il disagio era palese, e sapevo fin troppo bene a cosa fosse dovuto. L'atteggiamento del corpo, lo sguardo, era tutto sbagliato. Ero una bambola, una di quelle che sono rimaste in uno scatolone in soffitta per troppo tempo, rotta, sporca. Ero da buttare.

L'avevo suggerito spesso in quell'ultimo periodo, avevo quasi implorato che qualcuno avesse il coraggio di farlo. Il coraggio di chiudermi in una stanza impedendomi di mostrare al mondo quando fossi imperfetta, quanto fossi impura. Nessuno aveva però esaudito le mie preghiere. Mi spingevano ad uscire, ad aprirmi agli altri. A tornare alla mia vecchia vita dicevano.

Io non l'avevo più una vita. Non da quel giorno.

Speravo con tutta me stessa che qualcuno potesse strapparmi da questa convinzione, eppure ogni sguardo che mi veniva rivolto, ogni sorriso falso e tirato non faceva che ricordarmi che non c'era più un posto per me. Non lì, non in quel momento, mai più.


 

Distolsi lo sguardo dallo specchio. Avevo una gran voglia di piangere, di riprendermi il mio passato con violenza. Tornare a respirare, perché quell'eterna apnea mi toglieva energie. Mi sentivo morta. E lo ero, ma continuavo a esistere meccanicamente, distrutta, incapace di reagire, continuavo ad andare avanti spinta dalle correnti.

Avrei voluto urlare ma avevo la gola secca. Le parole non mi appartenevano più. Mi limitai a vestirmi. Dei Jeans scoloriti e una felpa sformata. Nessuno mi avrebbe notata, nessuno mi avrebbe avvicinata. Non avrei più rischiato. Mai più, lo avevo promesso a me stessa quella sera.


 

I cancelli della scuola, anche quel giorno, avevano un aspetto desolato. Stavano immobili, aperti a nuova gente, ma a nessuno importava di loro. Erano incrostati di ruggine e cigolavano spinti dal freddo vento autunnale. Rimasi a guardarli incurante di essere già in ritardo. Mi ricordavano me stessa.

Entrai con passo lento tenendo lo sguardo basso. Passai davanti alla gente. Avrei dovuto andarmene.

“Ancora in ritardo” borbottò l'insegnante vedendomi sulla porta. Silenzio.

“Siediti Lea, prendi i libri e segui la lezione” disse con tono piatto riservandomi uno sguardo di pietà. Lei sapeva. Sapevano tutti in quella classe. Abbiate pietà di lei, gli avevano detto, è molto scossa, le ci vorrà tempo. Non avevano capito niente. Non mi serviva tempo. Mi serviva una vita nuova, forse non mi serviva nemmeno vivere.

Portai una mano al ventre con un gesto istintivo. Non avrei dovuto, lo notarono, tutti. Un altro sguardo di pietà. Me ne venivano rivolti fin troppi, i miei genitori, gli insegnanti, i compagni di scuola, i medici e ogni abitante di quel orribile paese. Ero stanca.

Presi lo zaino e uscì a passo svelto da quell'edificio. Cominciai, senza accorgermene a correre. Volevo mettere più spazio possibile tra me e ogni essere umano.

Ricordo ancora quando essere a scuola mi piaceva. Quando ogni passo che facevo tutti mi guardavano con ammirazione. Ero al centro di ogni attenzione. Questo mi ha fregato.

In un secondo tutto il mondo cominciò a vorticare. Non capì più nulla. Sentì solo un forte schianto. Ero caduta a terra. Chiusi gli occhi.





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