Mia dolce Jane
Altra storia balenga.
È una what if
ma anche, e soprattutto, una future
fic.
Non so perché, quando metto questi tre insieme non mi esce
mai
fuori una storia normale. Sarò incapace io...
Ad ogni modo, spero possa piacere.
L’avvertimento incest
è molto soggettivo. In realtà
è ignorabile perché è una questione di
percezione,
non c’è nulla di palesato.
Detto questo, buona lettura e, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate.
kiss kiss Chiara
Mia piccola Jane
Cosa ci trovasse la gente in
Houston, Jane non lo aveva mai veramente capito. Forse aveva passato
troppa vita con il naso all’insù per comprendere
cosa ci fosse di veramente bello a terra, ma di certo, Houston non
rientrava in questa categoria. Di quella caotica cittadina texana, a
Jane piaceva davvero poco e neanche la UH[1] ne faceva parte.
Alla fine,
Peter era divenuto l’unico motivo per farsela piacere. Poi
era arrivato Duncan, e a quel punto che la città che
attraversava ogni mattina fosse Houston o Parigi, aveva davvero poca
importanza.
«Professoressa,
posso rubarle un minuto?» Tony Callaghan era il classico
debosciato.
Jane non
aveva perso troppo tempo a chiedersi se ci fossero ragioni dietro al
suo non studiare e soprattutto al non capire mai nulla delle sue
lezioni. Non aveva più vent’anni, Jane, e neanche
trenta. La quarantina poi, l’aveva passata da un bel
po’ e non le andava neanche di ricordarselo. Stare
lì, ad analizzare un ragazzino viziato, non era certo
qualcosa che l’allettava.
«Signor
Callaghan, l’anticipo subito: non le farò ripetere
il test.» Chiuse la borsa e la trascinò via dalla
scrivania. Tony come previsto aveva serrato la mascella fingendo
un’espressione delusa ma non aveva insistito oltre.
«Va
bene, professoressa. A lunedì.» Per fortuna essere
una stronza di insegnate, aveva i suoi vantaggi. Anche se
c’era voluto un po’ per capirlo.
«A
lunedì, signor Callaghan.»
Aprì
l’ombrello e attraversò il vasto campus con passo
svelto.
Doveva
diluviare proprio il giorno in cui aveva deciso di indossare le sue
nuove Chanel. Benedetto cielo! Se solo non fosse stata sicura di
ciò che sarebbe successo quel giorno, avrebbe speso del
tempo a tirare per aria qualche bestemmia ben poco carina.
In macchina
si guardò allo specchio. Si sistemò i capelli
corti dietro l’orecchio, una goccia di rimmel fuori posto.
Peter le
diceva che era bella come il primo giorno in cui l’aveva
vista, a quel congresso a New York, e Jane fingeva di credergli,
perché gli occhi di Peter avevano le sue stesse rughe. I
suoi meravigliosi capelli neri erano un po’ più
sale e pepe, mentre le sue ciocche castane erano tali solo per merito
della tinta di Michelle.
Il tempo
passa e non dovresti curartene, ma quando chiudi le palpebre e rivedi
un viso sorridente con due occhi azzurri più del cielo
stesso, non puoi non sentirne il peso. E per misurarlo Jane non si
basava sulle sue rughe, quanto su quel viso che ne era privo e
così sarebbe sempre stato.
Mentre
tornava a casa, si chiese se Peter fosse già arrivato,
avrebbe dovuto preparargli il trolley.
«Duncan
non si è fatto sentire.»
«Tesoro,
è normale. Non ti ricordi il tuo primo giorno al
college?»
«È
passata una vita... » Peter le aveva preso una mano e le
aveva sorriso dolce. Come ogni volta.
«Scommetto
che prima di sera si farà sentire.» Prima di
sera... Ma lei aveva bisogno di sentirlo subito. Aveva bisogno della
sua voce, del sentirsi chiamare mamma,
prima che-
Un lampo
squarciò il cielo.
«Che
tempaccio del diavolo!»
Quando il
tuono le era rimbombato nel petto, il viso di Jane si era fatto
più scuro.
«Devi
proprio andare?»
Peter aveva
indossato il soprabito ed il cappello. «Fosse per
me...» Un bacio sulla guancia ed aveva preso
l’ombrello. «Ti chiamo quando atterro.»
«Sempre
se vi fanno decollare.» Un altro lampo, un altro tuono, un
altro bacio stavolta sulle labbra.
«Salutami
Duncan quando chiama.»
Peter era
entrato nel taxi e la signora O’Conner l’aveva
salutato dall’altra parte della strada. Portava a spasso
Franky, incurante della scarica imponente di acqua. Franky, il piccolo
chihuahua antipatico, che una volta aveva perfino morso il suo
Duncan.
«Che
tempo, eh?» Jane aveva annuito stringendosi fra le braccia.
Non sopportava quel chihuahua, non sopportava neanche la sua padrona,
quel giorno ancora meno. «Speriamo smetta presto.»
«Sì,
speriamo.» Era poi rientrata decidendo che era il momento di
preparare un caffè.
Il
Professor Robbins le aveva chiesto di seguire il suo corso per una
quindicina di giorni. “Non
hai i tuoi assistenti?”, “Loro non sono
all’altezza, Jane.” Gli avrebbe
chiesto per quale motivo li aveva scelti, ma poi aveva preferito dirgli
semplicemente di sì. Con Peter fuori città e
Duncan a Providence, le serviva solo qualcosa che le occupasse la
testa. Tenere a bada un’altra banda di sognatori che tanto
assomigliavano alla lei di un’era troppo lontana anche solo
per provare malinconia, era di certo una buona opportunità.
Quando
sentì bussare alla porta, aveva appena zuccherato il
caffè.
Due cucchiaini. Non aveva mai potuto dimenticarselo.
Sistemò
le tazze sul tavolo e si diresse ad aprire.
«Oggi
non è giornata, vero?» Aveva sospirato
trovandoselo davanti zuppo fin dentro le ossa.
Il sorriso
di Thor era sempre stato meraviglioso.
«Prendi.
Non credo ti ammalerai, ma almeno la smetterai di allagarmi
casa.» Gli aveva lanciato un asciugamano sulla testa.
«Perdona
il mio umore. Non riesco a controllarlo alle volte.»
«Non
preoccuparti. Gli agricoltori del Texas te ne saranno grati,
comunque.» Lo aveva sentito ridere mentre si arruffava i
capelli come un gatto troppo grosso per fare tenerezza, ma non
abbastanza da impedirti di volerlo accarezzare. «Che
è successo?»
Il
caffè non si era freddato e lei lo beveva piano tenendo gli
occhi incollati a quel viso così giovane e così
familiare da far male.
«Loki.»
Non si sarebbe aspettata nulla di diverso.
«Loki...»
Aveva semplicemente sospirato disegnando il contorno della ceramica
con l’indice. «Che ha combinato
stavolta?»
«È
scappato.» Non era riuscita a non sorridere, amaramente, con
una nota di tristezza. «Tu non lo hai visto?»
«Non
ultimamente.» Thor aveva annuito bevendo il suo
caffè. Aveva smesso di frantumare le tazze da molto, ma non
aveva smesso di apprezzare quella bevanda per lui così
insolita, nonostante fossero decenni che la bevesse.
«Quando
gli hai parlato?» La sua voce si era fatta più
bassa e Jane si era alzata per riporre la sua tazza nel lavandino.
«Tempo
fa.»
«Ti
ha fatto... O alla tua famiglia?»
«No,
si è limitato ad essere irritante come al suo solito. Ma
nulla di più.» Non si era voltata però,
non aveva voluto vedere il viso rassicurato di Thor e l’ombra
di colpa che non abbandonava mai i suoi occhi.
«Come
sta tuo marito?»
«Bene.
È sempre in giro a fare conferenze.» Era tornata a
sedersi incrociando le braccia sul tavolo. Thor aveva annuito
sorridente.
«Duncan?»
E Jane
aveva stretto con forza le dita attorno ai suoi gomiti.
«È
a Providence, adesso.» Il
mio bambino... «E il tuo piccolo leoncino come
sta?»
Thor si era
illuminato e Jane di riflesso, ma era una maschera. Perfetta come
sempre, come quelle che aveva visto spesso sul viso di Loki,
così belle che non potevi fare altro che rubarle.
«È
una vera peste! Non sta fermo un momento... È semplicemente
meraviglioso.»
Una mattina
di aprile il cielo si era fatto scuro, nero come la pece ed aveva
piovuto per giorni e giorni. Una tempesta di fulmini mai vista prima
aveva fatto allarmare ogni istituto di ricerca del globo. Poi Thor era
piombando nel suo laboratorio, le lacrime sul viso e l’aveva
stretta forte. “Sono
padre, Jane. Sono padre!”. E lei aveva pianto
con lui.
A quel
tempo ancora non sapeva di aspettare un bambino. Ora Duncan aveva
diciotto anni e stava iniziando la sua vita al college, mentre il
leoncino di Thor ancora andava in giro a creare grattacapi alle balie.
Leoncino,
lo chiamava lei, perché quando Thor lo aveva
portato con sé in un giorno d’estate, Jane non
aveva trovato altro per descrivere quel bambino che le sorrideva da
sotto una cascata di meravigliosi riccioli biondi. Un bambino dagli
occhi di ghiaccio e dalle manine calde. Fino a quel momento, Jane, non
credeva di aver mai visto nulla di più stupendo.
Poi era
nato Duncan. Thor le aveva fatto visita allora, ed era stata
l’unica volta in cui lui e Peter si erano incontrati.
Donald, vecchio amico di università, l’aveva
presentato.
“È una
sensazione indescrivibile!”
“Posso capire la tua
gioia, amico mio.”
Jane aveva
stretto forte Duncan fra le sue braccia ed aveva pianto per tutta la
notte.
«Cosa pensi di fare
con tuo fratello? Non dirmi che continuerai a cercarlo, Thor? Dovresti
aver capito ormai che non è una strategia che funziona con
lui.» Non gli aveva chiesto di lei. Jane non gli
chiedeva mai nulla di lei.
«Non
posso fare diversamente, Jane. Devo riportarlo a casa.»
«Come
prigioniero?»
Thor aveva
sorriso scuotendo la testa. «Come fratello.» La
tazza vuota ancora stretta nella mano.
Dopo
secoli, Thor ancora non era riuscito a vedere davvero cosa batteva nel
petto di Loki. Per lei era stato più semplice comprenderlo,
in fondo non era poi diverso dal guardarsi in uno specchio.
«Perdona
la mia intrusione.»
«Sei
sempre il benvenuto, lo sai.»
Le dita di
Thor le avevano sfiorato una guancia. «Non sei cambiata per
nulla, mia piccola Jane.»
«Bugiardo!»
Aveva riso lei prendendogli la mano.
«Io
non so mentire.» Il suo sorriso avrebbe potuto sciogliere la
neve. E lei lo aveva creduto finché non aveva incontrato la neve vera.
Jane aveva
stretto quella mano al petto e poi l’aveva baciata con
dolcezza. «Lo so, Thor. Lo so.» Ed era sempre stata
la sua sincerità a ferirla di più.
Poi il
lampo, il tuono e Thor era sparito.
La pioggia
aveva iniziato a cadere più lenta.
La
O’Conner stava risalendo il vialetto e Jane
rientrò prima che potesse incrociarla di nuovo.
«Avresti
dovuto chiamare prima.»
«Hai
ragione, mamma, ma qui è tutto così fantastico
che me ne sono dimenticato!» La risata di Duncan.
Jane prese
a giocherellare con il filo del telefono come faceva quando aveva 15
anni. «Com’è la Brown?»
«Oh,
è bellissima! I ragazzi sono simpatici e ci sono un sacco di
corsi interessanti! Il mio compagno di camera è francese.
Capisci, mamma? Un francese!»
«E
con questo?»
«Beh,
si rimorchierà un sacco, non credi?»
Jane aveva
sospirato materna. «Duncan...» E lui aveva riso di
nuovo.
«Salutami
papà. È già partito?»
«Qualche
ora fa.»
«Ok.
Allora mi faccio sentire presto.»
«Lo
spero, figlio ingrato!» E con quell’ultima risata
nelle orecchie, aveva riagganciato.
Era rimasta
a fissare la cornetta color panna attaccata sulla parete per qualche
minuto.
Sembrava
felice, il suo bambino. Jane pregò che quella spensieratezza
non lo abbandonasse mai. Pregò con la consapevolezza che
sarebbe rimasta una preghiera mai ascoltata.
«E
così io sarei irritante?!»
Si era
voltata all’istante con il cuore in gola senza poter
trattenere un grido di paura.
Seduto
sulle scale, un viso sorridente che la costrinse a sospirare avvilita.
«Quando
la smetterai di apparire dal nulla?» Lo aveva richiamato
tornando in cucina.
«Quando
smetterà di essere divertente.» I suoi passi
l’avevano seguita e poi si era seduto lì, su
quella sedia. Lei sapeva, l’aveva fatto di proposito.
«Da
quanto tempo te ne stavi nascosto qui, sentiamo?»
«Abbastanza
per sentirmi dare dell’irritante.» Fra le mani di
Loki, la tazza vuota di Thor.
La prima
volta che l’aveva incontrato, Jane aveva avuto paura di
morire. La seconda volta aveva sperato di morire, la terza volta era
quasi morta. Poi era intervenuto Thor e gli altri, e Natasha le aveva
sospirato che sarebbe andato tutto bene.
Quando lo
aveva incontrato la volta successiva, era solo riuscita a urlargli
contro in lacrime e non aveva più avuto paura, solo odio.
Per un solo istante poi, a Jane era parso di scorgere qualcosa di
diverso oltre al sadismo in quelle iridi verdi, e per un solo istante
lo aveva odiato un po’ di meno.
Con il
passare del tempo, le visite di Loki avevano cambiato gradualmente
natura. Più aumentavano le sue rughe, più Thor le
si allontanava, più Loki le era vicino.
Poi Jane
aveva compreso che non lo faceva per gioirne, ma semplicemente per
condividere il suo stesso dolore.
«Tuo
fratello ti sta cercando.» Loki aveva sospirato annoiato.
«Lo sai che alla fine ti troverà.»
«Quando
mi stancherò di giocare, mi farò trovare.
Sì, lo so.»
Perché
se Thor riusciva sempre a riacciuffarlo, era solo perché era
Loki a volersi lasciar prendere. Loki sapeva essere sincero come nessun
altro, bastava solo smettere di sentire, ed iniziare ad ascoltare.
«Un
giorno potrebbe essere Thor a stancarsi. Non ci hai mai
pensato?» Sul suo viso sempre il solito ghigno, sempre la
solita splendida maschera d’argento.
«Chissà, un giorno potresti essere tu a rincorrere
lui.»
«Oh,
molto improbabile, mia piccola Jane. Fidati.»
Una notte,
quando Duncan aveva otto anni, Jane sentì dei rumori al
piano di sotto. Peter aveva preso i suoi sonniferi e lei non aveva
altro che una mazza da baseball con cui difendersi. Quando scese nel
soggiorno, Loki era seduto sul divano e si teneva la testa con le mani.
Gli occhi gonfi e le labbra che tremavano, un velo di lacrime sul
pallido viso.
Non disse
una parola per tutta la notte e lei gli preparò una tazza di
tè caldo.
La mattina
seguente non c’era più, ma sul davanzale della
finestra, Jane trovò una Dalia[2]
di ghiaccio.
“Chi ce l’ha messa,
mamma?” chiese Duncan.
“Un amico, tesoro”
rispose lei.
«Per
fortuna ha smesso.» Loki aveva scostato la tendina della
cucina ed aveva guardato in alto. Il suo volto le era sempre sembrato
di porcellana. Semplicemente perfetto. Come quello di una statua,
fredda e insensibile a tutto. Jane aveva poi capito quanto fosse
diversa la realtà. Anche le statue si sgretolano, anche le
statue si rompono e non si possono più ricostruire. E quando
tenti di farlo, le crepe rimangono anche sotto metri di stucco.
«Devi
andare da qualche parte?» gli aveva chiesto e Loki le aveva
sorriso ancora.
«Vado
a trovare il Presidente.» Ed ora era stata lei a sorridere,
ma con fare materno. Alla fine, ancora non sapeva spiegarsi come, si
era ritrovata con due figli da crescere. «Stark
sarà felice di vedermi.»
«Non
ne dubito» ribatté sarcastica.
Quando Loki
era uscito da casa sua, Jane lo aveva seguito con lo sguardo
finché non si era dissolto nell’aria.
Poi aveva
spostato gli occhi in alto, al cielo sempre più azzurro.
«Ha
smesso di piovere, ha visto?»
«Sì,
signora O’Conner.»
La tempesta
era passata, ma per quanto sarebbe durato quel sereno? Forse il tempo
che Loki avrebbe impiegato per arrivare alla Casa Bianca.
«Come
sta il suo Duncan?»
«È
partito ieri per il college.»
Stavolta si
era stancato di giocare prima del previsto.
«Come
crescono in fretta...»
Jane
guardò il cielo un’ultima volta.
«Già.»
Forse troppo.
E poi
rientrò.
Note
[1] UH
è l’acronimo di University of Houston,
l’università in cui lavora Jane.
[2] La Dalia
è il fiore che simboleggia la gratitudine.
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