capitolo 14
“Leave it behind
Hearing your silence
It screams our goodbye
Cannot believe it's an eye for
an eye
Love is gone to waste
“
[…]
“From the ashes of
hate
It's a cruel demon's fate
On the wings of darkness
He's returned to stay
There will be no escape
Cause he's fallen far from
grace”
( A demon’s Fate
– Within Temptation )
- Non si è
ancora mosso da lì – li informò lady
Sif nel rientrare nella tenda, abbandonando il lembo di tessuto blu che
apriva uno squarcio sulla figura immobile e silente accasciata sotto la
pioggia scrosciante .
Thor si
lasciò sfuggire un sospiro pesante a quella vista,
capendo che avrebbe dovuto usare la forza per riportarlo su
Asgard e farlo presenziare alla riunione indetta da Odino per
decidere il suo futuro, non prima però di essersi
assicurato che Misgard fosse al sicuro, finalmente .
Eppure, quando
scostò lo sguardo dal fratello per informarli della loro
partenza si sentì assalire dalla confusione
nell’incrociare gli occhi di una bambina minuscola,
accovacciata ai piedi del dottore che una vecchia anziana curava in
silenzio.
Le sorrise, gentile,
ma Estela non lo ricambiò , stringendo gli occhi arrossati
con rabbia .
- È colpa
vostra .
- Cosa hai detto ?
La bambina non si
lasciò intimidire quando l’ombra
dell’uomo biondo la sovrastò , non ebbe paura,
perché anche se era piccola e non capiva alcune cose, sapeva
con certezza che era colpa loro se la sua amica era morta .
Era colpa
dei soldati che non l’avevano difesa abbastanza .
Colpa di quegli strani
signori con gli abiti scintillanti che non ci avevano neanche provato,
a combattere per lei.
Era colpa loro, di tutti loro se la
sua scoperta non le avrebbe più sorriso .
E non li avrebbe
perdonati.
Mai .
- Lei
è morta per colpa vostra – gracchiò,
con la gola che le bruciava, alzando il visino per ferirlo con i suoi
occhi neri lucidi di pianto, per fargli capire che quella colpa li
avrebbe tormentati in eterno, che il suo odio , li avrebbe perseguitati
per sempre.
Thor la
guardò con comprensione, con gentilezza, accovacciandosi per
essere alla sua altezza e spiegare che lei era ancora troppo
piccola per capire cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato,
ma lei lo sapeva, cosa era giusto .
Glielo aveva insegnato
nonna Baba, ed era stata lei a spiegarlo ad Astrid, e non era giusto
che tutti loro fossero ancora vivi, se lei non c’era
più.
Era sbagliato,
tremendamente sbagliato .
- Sei troppo piccola
per … - Estela lo spintonò con rabbia per zittire
le sue parole senza senso, per sfogare la propria disperazione e il
proprio dolore nel ricordare quanto lei fosse spaventata, nella
foresta, mentre l’abbracciava .
E che
l’aveva sentita tremare tra le braccia di suo padre ad ogni
urlo, l’aveva vista stringere gli occhi e rimpicciolirsi per
non sentire più nulla, per diventare invisibile, e lei non
l’avrebbe perdonati per averla spaventata e uccisa .
- È tutta
colpa vostra ! – urlò, stridula, scappando via
dalla tenda mentre Thor ordinava a Fandral di andarle dietro e
assicurarsi che non si facesse male .
Il guerriero
lanciò un ringhio prima di scostare la tenda e seguirla,
mostrando nuovamente quella figura accovacciata che continuava a
rimanere immobile, pietrificata, sotto la pioggia battente .
Estela si
aggrappò ad un ramo per non cadere quando
scivolò su una pozzanghera, sporcandosi la guancia con le
mani nere di fango quando le lacrime tornarono a bruciarle gli occhi .
Ma sapeva che non
aveva tempo per quello, perché aveva promesso alla sua amica
che avrebbe portato il bastone al suo amico dal mantello verde, quello
che non rispondeva ai richiami e teneva gli occhi incollati a
terra, spalancati sulle proprie mani con le labbra schiuse in un urlo
muto .
Strillò
nell’inciampare ancora e battere la fronte sul terreno
viscido, ma quando allungò una mano alla cieca sorrise nello
stringere ciò che cercava.
Si sbucciò
le ginocchia quando, per tirarlo dal terreno, dovette impuntarsi
persino con i gomiti per trovare la forza di sollevarlo, e anche se
pesava, anche se tornare in piedi le costò un singhiozzo di
dolore non si lamentò neanche una volta . Perché
anche la sua amica aveva singhiozzato, e non si era
mai lamentata, neanche una volta .
Cominciò a
correre tra gli alberi spogli, sussultando con uno strillo quando vide
una figura seguirla velocemente, e quando Estela si accorse degli occhi
sgranati del signore dall’armatura scintillate puntati sul
bastone, si mise a correre.
- Dammelo !
Lanciò un
urletto quando sentì le dita dell’uomo provare ad
agguantala per la vita, ma fu lesta a colpirlo con le pietre che aveva
raccolto nella tasca quando aveva deciso di combattere i
mostri.
Gliene
lanciò un pugno, colpendolo all’occhio e riuscendo
a rallentarlo mentre i suoi occhi si ingigantivano nel riconoscere il
mantello verde sporco di terra poco lontano da lei .
Sorpassò la
tenda di tutta fretta, consapevole che qualcun altro avrebbe potuto
volere quel bastone,e lei aveva promesso di darlo all’amico
di Astrid, a nessun’altro .
Qualcosa
rotolò al suo fianco, qualcosa di troppo piccolo per essere
di nuovo lady Sif che pretendeva di essere ascoltata, ma Loki
non distolse lo sguardo dai palmi aperti e umidi di lacrime e sangue,
non ne aveva la forza, non ne vedeva l’utilità.
Che lo lasciassero
lì a marcire nel fango, che permettessero alla pioggia di
forargli il cranio con ogni, singola, goccia, purchè non gli
parlassero, purché non ripetessero che era finita,
che non c’era più motivo di soffrire.
Perchè Loki
non aveva mai sentito la necessità di piangere come in quel
momento, di urlare e pregarli di mentire, se necessario,
perché quella volta la verità lo avrebbe ucciso,
più della confessione di Odino sulla sua nascita,
più della consapevolezza di non averlo avuto mai,
un padre.
- Ho fatto una
promessa – rantolò qualcuno accanto a lui prima
che la piccola figura strisciasse a fronteggiarlo con un respiro
affannoso causato dalla corsa e dalla fatica – ed anche se
è anche colpa tua , se lei è morta , le
ho promesso che te lo avrei dato, quando tutto fosse finito.
Il tonfo non lo
attirò, il pianto singhiozzante davanti a lui neanche, ma
quando un lieve bagliore gli illuminò il volto qualcosa si
mosse nella sua gola, nel
petto.
E quando una sua mano
tremò, nel tendersi inconsciamente verso il suo scettro,
qualcosa di caldo e dolce strisciò sotto pelle, soffiando un
po’ di calore sugli ingranaggi congelati del suo cuore.
L’energia
tremolò un poco quando la accarezzò con
una mano, delicato, sussurrando scintille che non
bruciarono a contatto con le sue guance tese per il freddo e
umide di lacrime, dolci come una carezza .
- Loki !
La voce di Thor,
storpiata dall’orrore, dalla comprensione, lo
raggiunse come un monito a non muoversi, a non compiere altri errori,
altre empietà, a non mietere altre
vittime con la sua follia.
Eppure,
quando vide brillare negli occhi della bambina
l’immagine tremolante di Fandral il suo braccio fu veloce, la
sua mano sicura, e il sorriso gelido era tornato a sformargli il viso
come la maschera crudele di un tiranno dalle mani sporche di sangue
innocente.
Quando la testa del
guerriero rotolò ai suoi piedi Loki la
guardò con un sorriso, calciando il corpo dal capo mozzato
per avere una visuale migliore dell’immagine di suo
fratello che crollava in ginocchio, urlando dal dolore.
L’immagine
che preferiva fin da bambino.
- Perché
fratello ?
La terra
tremò quando il dio degli inganni la colpì con il
proprio bastone, sentendo le braccia tremare per l’energia di
quel globo di luce che vorticava sulla punta della lancia e che ora
aveva aperto uno squarcio nel cielo, l’ennesimo portale, la
via che lo avrebbe condotto a ciò che più
desiderava al mondo, a ciò che aveva sempre desiderato.
- Perché
continui a negare l’ineluttabilità del fato.
Schiuse le labbra in
un ringhio, soffiando rabbia e rancore mentre i capelli gli oscuravano
il viso sfregiato, rendendo il suo profilo simile al riflesso
scheggiato di una bestia antropomorfa.
-Morirete tutti, uno
ad uno. E userò le vostre carni disossate per farne il mio
trono, fratello .
Il fragore del tuono
risucchiò il suo corpo e l’ultimo sibilo prima che
il cielo lo vomitasse in una terra arida, coperta di bianco, morta
sotto coltri e coltri di ghiaccio.
- Svegliatevi inutili
creature!
Si udì un
sibilo, un basso e roco frusciare tra le montagne innevate, sotto
l’acqua congelata, nel cielo plumbeo che ora pareva esserci
accesso di migliaia d’occhi rossi.
E la terra
tremò, spaventata, quando i Giganti di Ghiaccio uscirono dai
loro rifugi, ergendosi con le fauci schiuse e le schiene ricurve sul
piccolo uomo che li osservava con un sorriso spezzato.
- E chi sei tu, per
interrompere il nostro sonno ? – rantolò quello
più alto e forte di loro, schiantandosi a terra con un
gemito quando un lampo di luce azzurra rischiò di
trapassargli il petto.
- Il vostro Re.
°°°
L’ennesima
scintilla morì a contatto con la pelle fredda che sfiorava
con dita gentili, sfrigolando ogni qual volta le sue mani si
immergevano troppo a fondo nei capelli cangianti che
scivolavano in quella lingua di fata, la guida di ogni creatura
sperduta nel buio dell’universo verso la via di
casa.
- Qualcosa ti turba ?
Semjace
alzò lo sguardo dai capelli che stava acconciando in morbide
trecce quando H’ava la interpellò con la sua voce
bassa e vibrante, ma riabbassò in fretta gli occhi per paura
di essere derisa, di non essere giustificata per il vuoto che sentiva
all’altezza del petto.
Una voragine che
sibilava il proprio rammarico ogni qual volta i suoi occhi
seguivano i lineamenti pietrificati del Tesseract, stesa sullo squarcio
di universo che attingeva da lei la vita, la luce.
Eppure Semjace non
gioiva di quell’immobilità,
dell’incapacità di riflettere la propria mostruosa
immagine negli occhi luminosi della loro creatura, non ne traeva
godimento.
Sentiva solo un buco
al petto, un formicolio che strideva lungo i suoi artigli, un disagio
che si acuiva ad ogni ricordo del Tesseract che le sorrideva, gentile.
- Sei
infelice ?
La nota sorpresa nella
voce di H’ava non la infastidì, perché
loro non avrebbero dovuto sapere cos’era
l’infelicità, loro erano esseri superiori che
disdegnavano emozioni tanto umane, illogiche e prive di raziocinio.
Eppure lei si sentiva
triste, rammaricata, ferita da quel viso che, più richiudeva
tra i suoi artigli, più le causava una strana ansia,
un’irragionevole sensazione di malessere.
- E se avessimo
sbagliato tutto?
La presenza di
H’ava si fece soffocante alle sue spalle, come
l’abbraccio indesiderato di un genitore che non tollera
simili pensieri, simili ragionamenti, e anche se lei era la
più vecchia tra loro, la più potente e la
più severa, Semjace sentiva il bisogno di liberarsi di quel
peso.
Di sfogare il proprio
turbamento.
- Spiegati.
Ma H’ava non
voleva veramente capire, pretendeva solo di istruirla ad una
corretta comprensione dell’essere vivente dopo aver udito
quelli che lei credeva sproloqui di una creatura inferiore, vinta dalle
emozioni e soggetta agli errori.
Ed i Creatori non
commettevano mai
errori.
- Forse …-
trasse un respiro simile ad un singhiozzo quando sfiorò con
un lungo artiglio il corpo che giaceva immobile sotto le sue mani,
grattando la tenera carne dei polsi che teneva rovesciati sul ventre,
come in preghiera – forse lei sarebbe stata felice con gli
umani. Forse avremmo dovuta lasciarla vivere …
Il petto di Astrid si
macchiò di blu, un denso e corposo blu notte che Semjace
ripulì frettolosamente con la manica della tunica, attenta a
richiudere la ferita alla gola con la dovizia necessaria per non
macchiare nuovamente il corpo del Tesseract.
E quando
H’ava frusciò via con il suo sibilo di sdegno e
l’artiglio ancora sporco del suo sangue la Creatrice si
curvò su se stessa , abbracciando il corpo che
strinse al petto con frustrazione, rabbia.
Perché
Yehouda non capiva, H’ava non voleva provarci, e nessuno
poteva comprendere quanto a fondo l’avesse colpita sentirsi
“madre” di qualcosa.
Lei che aveva stretto
quel corpicino in un abbraccio che l’aveva scaldata dentro,
che si era sentita voluta da qualcuno, che aveva sentito
l’appartenenza di quella creatura, il suo bisogno, il suo
strazio, il suo amore.
La sua bambina.
- Stupidi insetti!
Il fragore
dell’urlo di H’ava volò per la fucina
come il rimbombo di uno sparo, strisciando tra le stelle che
componevano il pavimento e gli spruzzi di nebulose che vorticavano
attorno alla loro dimora, e quando Semjace seguì lo sguardo
della Creatrice sentì una bolla di sollievo scoppiarle nel
petto.
Perché le
creature, gli insetti che
H’ava fissava con rabbia lei li conosceva, li ricordava nella
sua mente come i più illogici delle creature, ma le uniche
che avessero amato la sua bambina.
Gli esseri umani
cheora, al cospetto di Odino, chiedevano notizie su di loro.
- Hanno deciso di
sfidarci – la infornò H’ava con voce
incredula, allungando un artiglio sullo squarcio di luce per raschiarne
la superficie e sfogare la propria stizza, ma Semjace sentì
un’ondata di sollievo sommergerla nel pensare che loro
sarebbero venuti, non per sfidarli, ma per riprendersi ciò
che avevano cresciuto e amato come una figlia.
La ragazza dormiente
che la Creatrice cullò tra le braccia quando H’ava
sigillò l’entrata per prepararsi allo scontro, e
Semjace si scoprì incapace di sperare per la loro, di
vittoria, quando la voce degli umani la raggiunse con le loro urla
rabbiose e con quel nome sussurrato tra le labbra secche per la
disperazione che la stessa creatura si trovò a bisbigliare,
amorevole come la madre che per natura, lei non era potuta
essere.
Ma la madre che Astrid
l’aveva fatta diventare, con un timido e debole richiamo.
°°°
Il brusio sconvolto
delle divinità accompagnò la loro rigida avanzata
come lo sguardo rapace di un nugolo di avvoltoi, e quando Thor
crollò in ginocchio davanti ad Odino, il padre degli dei non
potè che storcere la bocca e guardare in viso la strana
creatura che con la forza di una sola mano pressava il dio dei fulmini
contro il pavimento, per sottomerlo al suo volere e
utilizzarlo come merce di scambio.
- Cosa vi porta qui,
Midgardiani? – li interrogò fremente di stizza la
divinità, stringendo le labbra nel vedere come il richiamo
di suo figlio fosse stato soffocato dell’ennesimo strattone
brusco della creatura dalle pelle smeraldo.
Il Vendicatore che
Tony Stark ammansì con un’occhiata silenziosa
prima di sovrastare con la propria ombra la figura rigida di Pepper e
quella altera di Maria Hill, accostata a lui con la pistola puntata
contro la tempia del dio dei fulmini.
- Siamo qui
perché necessitiamo del vostro portale.
L’ennesimo
brusio colpì Iron Man come una pioggia di sguardi affilati e
increduli, oltraggiati da come quelle creature inferiori pretendessero
la loro attenzione, il loro interesse per una questione che non li
riguardava più, non dopo l’allontanamento del
Tesseract dall’universo.
- Non credo di
potervelo accordare – lo zittì risentito Odino,
trovando però nello sguardo scuro dell’uomo una
fermezza che travalicava la momentanea follia di un uomo incosciente
del pericolo che lo circondava, della possibilità di essere
lacerato come il più insignificante degli insetti da quel
dispiegamento di divinità.
- Non vi stiamo
chiedendo il permesso. Il mio era solo l’informazione
cordiale che precedete l’atto, s’intende-
soffiò lo scienziato con l’alterigia che un essere
umano non avrebbe mai avuto l’ardire di sfogare su chi
più potenti e avanzati di loro, avrebbe potuto schiacciarli
come mosche.
Ma Odino non era il
suo dio, e benché Iron Man fosse consapevole della
difficoltà sua e dei compagni nell’affrontare la
potenza di tutte quelle divinità, il pensiero di Astrid non
smorzava la proprio fermezza.
Non quella di Hulk che
dei loro crani avrebbe lasciato solo granelli di polvere a scivolare
via dalle dita tozze e verdi, non Pepper e Maria, benché
deboli, benché umane e nemmeno eroine che però di
quella missione ne erano le artefici.
Perché ad
una donna alla quale era stato tolto un affetto poteva chiedersi tutto,
ma non di abbandonare chi per l’una figlia, e per
l’altra bambina innocente aveva segnato la loro esistenza.
Ed Astrid era stata
tutto.
Figlia, nipote, alieno
e Tesseract, ma la loro, una proprietà che ora
avrebbero rivendicato a creature che davvero avrebbero potuto
massacrarli con la leggerezza di un infante vista la reazione esagitata
del padre degli dei nel sentirli nominare.
- A nessuno
è permesso varcare il confine dell’universo
– tuonò Odino con voce altera, serrando
l’unico occhio rimastogli per mettere a fuoco
quell’accozzaglia di uomini e donne senza poteri divini
– men che meno a voi midgardiani. Nessuno può.
- E chi lo dice?
L’orrore
portò via dal volto dell’anziana
divinità tutto il colore, come una mano di bianco passata su
una parete colorata ora divenuta grigia, cianotica come le guance che
Odino tirò assieme alle iridi frementi dalla pupilla
pulsante.
Perché
quella voce lui la ricordava, l’aveva amata e poi temuta, e
l’ilarità grottesca di quel tono suadente e carico
di oscenità lo aveva sempre addolorato, lui e quel cuore di
padre che Loki gli aveva smembrato con la follia dei suoi atti.
Lo stesso cuore che il
padre degli dei sentì andare in pezzi per
l’ennesima volta quando le porte dorate vennero
giù assieme alle urla di orrore di chi vedeva i Giganti di
Ghiaccio avanzare con i loro passi pesanti e grotteschi, comandati
dall’uomo sfregiato che tutti loro fissarono con
raccapriccio, astio e un velo di paura.
- Vedo che siete tutti
contenti di vedermi, come sempre – si lasciò
sfuggire il dio degli inganni nell’imitare un inchino che
interruppe a metà per sogghignare all’ala destra
di immortali e gioire dei sussulti spaventati delle loro spalle.
Terrorizzati.
Loki
respirò a fondo per imprimere nei polmoni l’odore
pungente della loro paura, un profumo inebriante che lo
investì di un tremore gioioso prima che la voce di suo padre
lo richiamasse all’ordine.
- Cosa ti porta qui,
figlio? – lo interrogò, aspro, rafforzando la
presa delle mani sui braccioli del trono dorato incassato nella parete.
L’uomo
stirò un altro sogghigno, un po’ più
pronunciato, giocherellando con lo scettro che stringeva delicatamente
nella mano destra.
- Sono venuto per
riprendere ciò che è mio di diritto, padre
– e calcò l’ultima parola con
l’astio e il disgusto che quella parola aveva sempre
scatenato in lui, il raccapriccio per quella figura che paterna non era
mai stata, né gentile, né comprensiva, solo
silente, come il peggiore degli spettatori seduti in sala.
E
nell’androne dorato il suo pubblico quel giorno era numeroso,
misto tra dei e i mortali che Loki osservò con una smorfia
contrariata prima di far vibrare la palpebra destra e tendere un
braccio accanto a sé.
Quando Heimdall
sentì lo scricchiolio della gabbia toracica che lo scettro
affondato nel suo petto aveva frantumato nel trapassarlo da parte a
parte il fiato gli venne via assieme al rantolo soffocato, e il sorriso
deliziato della divinità non potè che rendere
quel ‘crack ancora più osceno, ancora
più ributtante.
- Fa male vero, mio
nerboruto amico ? – sibilò Loki con odio,
strattonando il braccio per muovere lo scettro e scatenare nel
guardiano del portale un gemito di sofferenza.
- Non è
inebriante il suono delle tue ossa maciullate ? –
continuò mellifluo, tirando le labbra fino a farne
combaciare il bordo con la cicatrice pallida che gli segnava la
palpebra, una smorfia frantumata tra la gioia e il dolore di ricordare
che lui quel suono lo aveva sentito, ed era stato Heimdall a generarlo.
Lui e quelle sue mani
strette con forza attorno al gracile corpo che il guardiano aveva
frantumato al suolo impietosamente, macchiando il sottile fianco del
tesseract con la forma tozza delle sue dita.
Perché Loki
non lo aveva dimenticato, neanche per un istante, il dolore che ognuno
di loro aveva instillato nel Tesseract.
Ricordava ogni
cicatrice, ogni bestemmia rivoltale con l’accuratezza di uno
studioso, ed era giunto il momento di chiedere il conto di quel dolore.
- No!
Lady Sif si
trovò a spirare con un lento e tremulo battito di ciglia
quando, nel correre in contro al fratello si trovò con il
dio alle proprie spalle e il suo braccio affondato nel petto, la mano
piena del cuore che la guerriera vide pulsare tra le dita eleganti di
Loki prima di accasciarsi ai suoi piedi e tingergli il mantello e il
copricapo di gocce di sangue, segni scarlatti che Thor
guardò con orrore prima di urlare il proprio raccapriccio a
quella vista mentre Asgard intera gelava per la paura.
- Cosa credi di stare
facendo? – lo riprese suo padre con l’angoscia di
chi sa cosa lo avrebbe atteso, lui e la sua gente, di lì a
poco.
E quando Loki
alzò lo sguardo affilato dal corpo esanime lo fece
morbidamente, dando a quel viso divorato dall’odio un che di
dolce, in tutta la sua pazzia.
Una dolcezza che la
divinità impresse anche nelle sua voce quando
chiamò all’ordine i Giganti di Ghiaccio.
- Quello che ho sempre
voluto da quando ho compiuto il mio decimo compleanno.
I vendicatori e le
donne che li accompagnavano non poterono che stringersi in un cerchio
stretto e ansioso quando l’ombra abnorme delle creature dagli
occhi rossi inghiottì la loro, di ombra, portando via con i
loro gorgheggi gli ansiti spaventati di Odino e dei suoi figli mentre
Loki inclinava il capo con un sorriso deliziato.
- Uccidervi tutti.
Ciò che
venne dopo nessuno di loro seppe spiegarlo.
Perché vi
fu troppa morte, troppo sangue da costringersi a serrare le
palpebre e implorare il silenzio di smorzare le urla atroci degli
immortali che ora tappezzavano un regno distrutto, macerie sulle quali
Loki camminava con eleganza, quasi vedesse nella distesa di morte il
proprio tappeto rosso, scarlatto non per l’onore di poter
finalmente camminare sul suolo asgardiano come Re, ma per il sangue che
gli imbrattava le vesti e che il dio scrollò di dosso
nell’accostarsi al portarle assieme ai suoi sudditi, con
ancora piccoli pezzi di carne incastrati tra i denti.
- Loki.
Quello di Pepper fu il
più flebile dei sussurri, quelli che la notte inghiotte con
un sonoro deglutire, quello che la donna si costrinse a mandare
giù assieme alla saliva raggrumatasi in bocca nel sentire
quegli occhi su di sé.
Uno sguardo assente,
perso nell’immensità di quell’orrore che
gli sporcava le mani e che rendeva il suo profilo aguzzo più
affilato di una lama levigata.
- Veniamo con te.
Loki bloccò
l’avanzata istintiva dei Giganti di Ghiaccio, scattati al
gesto secco del suo braccio quando il pensiero di poter intristire il
Tesseract con la morte di quegli umani gli morse il cuore e
quell’angolo di emozioni che ancora lui poteva chiamare
umane, e fu proprio con la consapevolezza di trovarsi con lo sguardo
amaro della creatura su di sé che il dio diede agli umani le
spalle, aprendo uno squarcio nell’universo per giungere
lì dove lei lo stava aspettando.
Ai confini del
mondo, lì dove nessuno, secondo suo padre, avrebbe
potuto recarsi.
Il limite, umano e
divino, invalicabile per qualsiasi creatura dell’universo, ma
lui, i limiti, li aveva sempre varcati, frantumati, plasmati secondo il
suo volere.
Perché lui
era il Re senza trono, e se sterminare un intero popolo di immortali
per semplice ripicca poteva essere vista come la più
travalicata delle soglie, uccidere chi tutti loro avevano creato, chi
la vita dell’universo aveva generato, sarebbe stata la sua
opera più grande, il limite più buio da superare.
E lo avrebbe fatto.
Per il piacere di
distruggere chi di lui si era sbeffeggiato, ma soprattutto,
per riprendersi quell’amore che crudelmente, ogni
secolo, gli veniva brutalmente strappato.
°°°
Il silenzio
dell’androne cominciava ad essere soffocante per chi come
Yehouda odiava la staticità e il silenzio, preferendovi gli
sfrigolii dei mondi che ad un passo da loro svanivano come uno sbuffo
di luci colorate ad ogni suo tocco, o alito, e il Creatore non poteva
che trovare illogica la sua presenza lì.
Ma soprattutto, odiava
dover affiancare sua sorella H’ava, la Suprema, la
più potente, la più anziana, quella che si
sbeffeggiava del suo malsano interesse per ciò che non era
suo per natura ma che lui, in un modo o nell’altro, rendeva
proprio.
Ed era proprio
l’ingordigia di Yehouda a tenerlo inchiodato alle porte della
Fucina, immobile di fronte quei battenti di aria e polvere di stelle
che vibravano ad ogni onda di energia che si perdeva
nell’immensità dell’universo e bussava
alla loro porta per avvisarli dell’eventuale morte o nascita
di una galassia.
Ma il fremito dei
cardini di luce erano dovuti all’arrivo di creature ignobili,
dell’anello più debole della catena tra mondi.
Umani.
Yehouda li aveva
trovati sempre troppo emotivi, troppo illogici, troppo stupidi, troppo
tutto per attirare la sua attenzione, eppure eccolo lì, a
sorvegliare l’entrata come il più inutile dei
guardiani, accompagnato dalla soffocante figura che sentiva respirare
profondamente accanto a sé.
- Yehouda?
Il Creatore
inghiottì un sussulto interno nel sentire la voce
sfrigolante della sorella, nel riconoscere quel tono aspro e sprezzante
che lo aveva sempre fatto sentire una nullità,
perché lui lo era, in confronto alla potenza di
H’ava.
Inutile.
Patetico.
E perciò,
profondamente rancoroso verso di lei.
- Si sorella ?
H’ava tese
un sorriso accondiscendente nel cogliere la falsità di quel
dolce richiamo, perché la Creatrice sapeva che in quella
bocca, ciò che i denti affilati di Yehouda schiumavano non
era miele, ma il più terribili dei veleni, uno schiumoso
rantolo di violenza con il quale l’avrebbe decapitata con un
colpo netto, se ne avesse avuto il potere.
- Cerca di mantenere
il controllo, e non lasciarti influenzare dalle
emozioni– lo rimproverò aspra, scoccandogli una
lunga occhiata inquisitoria quando lo sentì sibilarle contro.
- Credo tu li stia
sopravvalutando, sorella. Quelli che dovremmo affrontare sono semplici
umani.
E con quell’umani Yehouda
pensò di averle spiegato come tutta
quell’attenzione fosse inutile, se riservata per piccoli
insetti, per lo scarto di un pianeta ancor più
inutile, ma H’ava si ritrovò a tendere un sorriso
saputo quando furono i suoi artigli a rimandare per primo il bagliore
ceruleo di un lampo che scaraventò il Creatore lontano da
lei mentre Loki batteva a terra il bastone con un ringhio sommesso,
informandoli del loro arrivo.
- Non se uno di loro
ha ancora la vita dalla sua parte – si lasciò
sfuggire H’ava in un soffio, aprendo le braccia per
accogliere quella fila di creature, così diverse tra loro,
ma unite dalla stupidità che li aveva condotti sul loro
suolo sacro.
- Benvenuti nella
Fucina, mie piccole e insignificanti creature mortali – li
accolse amorevole, frusciando sul pavimento con il mantello impalpabile
che le nascondeva gli arti ributtanti e affilati, nonché
quello sguardo vitreo e fisso che li fece tremare tutti, tutti eccetto
lui.
Il dio che la
Creatrice fissò con meno asprezza, quasi raddolcita
dall’immortale che per amore voleva ucciderli.
Quasi.
- E tu, figlio di
Laufey. Ciò che sei venuto a rivendicare non ti è
mai appartenuto, e mai ti sarà concesso.
Perciò vi
invito ad abbandonare questo suolo, per non farvi più
ritorno – continuò implacabile, profetica come la
più terribile delle indovine, perché la morte li
avrebbe attesi, una volta varcato quel confine, una morte in faccia
alla quale Loki sorrise, schiudendo le sue labbra che non parevano
neanche più umane, un taglio asimmetrico che sapeva solo
sibilare come lo schianto secco di un corpo caduto al suolo.
Quelli che le sue mani
e le fauci delle sue creature avrebbero dilaniato, scorticato come
tronchi secolari abbattuti dalla novità,
dall’avvento di un nuovo Dio, un nuovo Signore e padrone, la
fine che Loki sapeva di rappresentare, di aver sempre rappresentato.
Lui che fin dalla
nascita aveva portato il declino del popolo che lo aveva adottato,
destinato ad annegare nella pazzia della sua anima, nel marciume di
quel cuore che non aveva fatto altro che singhiozzargli nel petto, in
attesa di trovare qualcosa per il quale battere profondamente, la
creatura che lo attendeva al di là di quella porta, lei che
lo aveva sempre atteso.
Perché il
Tessercat era nato per essere suo, per essere amato da lui, una
verità della quale si investì il braccio con il
quale sollevò il bastone divino e il cuore di luce
da esso inglobato, il bagliore ceruleo che gli occhi di H’ava
non ebbero modo di fissare a lungo prima di patirne lo schianto.
- Astrid!
Un grido di battaglia
quello di Tony Stark, il primo a scaraventarsi sulla creatura che si
era sbeffeggiata della loro natura umana, di quell’amore per
ciò che non era mai stato loro, ma che avevano ugualmente
amato, tenuto vicino al cuore come il più tenero degli amori
infantili, quello che Hulk aveva cercato di stringere il più
a lungo possibile prima di esserne allontanato.
Si udì uno
schianto, e urla femminili, colleriche, affaticate da un combattimento
che umani non potevano condurre a lungo, non contro chi la vita aveva
creato, ma c’era lui, a sopprimere quel divario tra le loro
nature, la divinità che non batteva ciglio
nell’usare i suoi sudditi come scudo, lasciando corpi
smembrati, teste mozzate ed arti tranciati a difenderlo dagli artigli
della Creatrice che tornò ad accanirsi su di lui e sulla
barriera di luce che tornò ad abbracciarlo.
- Non
c’è onore in te, figlio di Leufey –
latrò H’ava con risentimento, sentendo gli artigli
sfrigolare su quel viso che avrebbe squarciato, se l’energia
non si fosse accanita tanto contro di lei, lei che quella
stessa energia aveva creato, donando parte dei suoi poteri.
- Onore?
Una risata bassa gli
tremolò sulle labbra arricciate, uno schioppo acuto come una
frustata sui denti, cacofonico e ributtante persino per le orecchie
della Creatrice abituata a suoni peggiori, mortali, come lo scoppio di
un mondo, alla scomparsa di un’intera stirpe, ma quella
divinità pareva riassumere in sé gli orrori del
mondo.
- A cosa serve
l’onore se non a renderci succubi di regole che non ci
permettono di esprimere noi stessi ? – rantolò
cupo, rafforzando la presa sul bastone che tese in avanti mentre
l’energia tornava a sfrigolare nell’impatto con il
corpo della Creatrice che gli si era avventata ancora contro.
- Osi metterti contro
chi la vita di ha donato, lurida creatura ? –
rantolò la Creatrice con rabbia, affondando gli artigli
nella bolla di energia che lo inglobava, indispettita dal trovarsi
così vicino a lui da potergli strappare il cuore con le mani
senza però riuscire a toccarlo.
- Vita? – la
sua risata questa volta risultò profonda, gonfia
d’astio, amarezza e un barlume di follia che fece arretrare
Hulk dal corpo dal capo mozzato che gettò di lato con
disinteresse, livido di paura per quel sorriso che avrebbe potuto
cavare il cuore a tutti loro.
Il sorriso di chi vivo
non lo era mai stato, e che forse, mai lo sarebbe diventato,
perché nato morto, lui e quel cuore che H’ava
avrebbe voluto risucchiare tra le fauci quando riuscì ad
essere ad un soffio dal suo petto.
E Loki lo vide,
l’odio di chi in lui vedeva la sporcizia, l’orrore
di un’esistenza sbagliata, corrotta, nata per errore, come lo
era stata la nascita del Tesseract, quella vita che lui aveva imparato
ad amare e per la quale si era ritrovato a ringraziare.
Perché
attraverso di lei avrebbe potuto essere ciò che per natura
non per potuto diventare, un uomo che poteva trovare bello
ciò che vedeva, chi gli avrebbe sorriso e lo avrebbe
chiamato con dolcezza, senza paura, senta timore, ma chiamato,
semplicemente.
- La mia vita non
è un qualcosa su cui voi possiate decidere, o
esprimere pretese, ma ti confiderò un
segreto. Sono io a decidere di quella degli altri.
Sempre.
H’ava
patì lo stupore di sentire il suo respiro sul viso
aguzzo, sulle palpebre di metallo che schiuse febbrilmente nel
comprendere di essere stata invitata lei stessa oltre la barriera, in
quella nube di energia e vita nella quale Loki la costrinse, accettando
l’artiglio calato sul suo viso con un sorriso sprezzate prima
che lo schizzo di sangue languisse sul pavimento.
Il fiotto che la
schiena della Creatrice singhiozzò quando il braccio del dio
la trapassò, lei e quel corpo che gli si accasciò
contro mentre la palpebra di Loki cadeva smorta sull’occhio
cavato, rotolato a terra assieme al cuore ancora pulsante della Dea.
E il silenzio accolse
il fruscio di membra martoriate, il crollo di chi il Re senza trono
aveva ucciso, dilaniato, per aprirsi un’altra strada
macchiata di rosso, sporca del peccato della sua nascita, di passi che
Loki sapeva di non poter mai ripulire dall’impronte scarlatte
dei cadaveri sui quali aveva sempre camminato.
I corpi di chi a lui
si era rivoltato, il tappeto che spettava a lui, che gli sarebbe sempre
spettato ma alla fine della quale, ora, avrebbe potuto
trovare qualcosa di pulito, di meno tetro, scuro, una luce
verso la quale il dio si incamminò, lasciando alle spalle il
sibilo angosciato di un mondo che aveva assistito alla nascita di un
nuovo Signore e Padrone.
Ancor prima di patirne
la presenza, Semjace ne sentì il fetore, il puzzo di sangue
e il gorgoglio dei passi che il suolo stentava a trattenere a terra,
poiché scivolosi, unti dal sangue che tinteggiò
la Fucina quando Loki aprì le porte con una spalla,
trascinandosi verso la creatura china su un corpo che riconobbe ancor
prima di vederlo.
Il fiato faticava a
rimanere intrappolato in gola per più di qualche secondo,
soffocato dal sangue che gli aveva riempito i polmoni, ma il dio
continuò ugualmente ad attingere aria, facendosi forza col
bastone sul quale si posò, percorrendo a rilento la via che
lo avrebbe condotto alla salvezza, alla sua, e a quella del cuore che
parve smettere di singhiozzare quando la vide.
Palpebre chiuse, e
respiro assente, ma lì, luminosa e morbida come ricordava,
come avrebbero ricordato i suoi palmi, una volta che l’avesse
raggiunta.
E quando vi
arrivò, il Re crollò in ginocchio, senza forze e
occhio, ma con un sorriso spezzato e la mano tesa su un corpo che
Semjace trattenne con ansia, trovando l’assenza di vita in
quell’iride opaca agghiacciante, spaventosa, ma lo
trovò, il riconoscimento, in quella pupilla, non di lei,
della sua essenza ultraterrena, ma di sua figlia, dell’unica
cosa che per quella creatura valesse la pena sapere in vita.
- Non
tornerà.
La mano
continuò la sua discesa verso quel viso che, una volta
raggiunto, inviò una scarica di piacere dai polpastrelli
alle terminazioni nervose di Loki, tornate a macinare sensazioni quando
riconobbe quella pelle e quell’odore, un profumo che sapeva
di stelle, di mondi e vita, la sua.
Perché era
lei, ciò per la quale avrebbe abbandonato
un’esistenza dedita alla vendetta, al rancore,
all’odio verso il mondo, verso se stesso che non poteva
cambiare, rendere diverso, ma lei non lo aveva mai voluto differente,
migliore, buono.
Lei lo aveva
accettato, ingenuamente, come potrebbe farlo una bambina alla quale si
chiede cosa si ama, e lei lo aveva amato, profondamente,
irrazionalmente, senza un reale perché, ma amato.
Una sensazione che
Loki aveva sempre temuto, ritenuto inutile, vigliacca e debole, solo
perché, non potendola avere, non poteva risultargli
importante, non a lui che non era stata mai concessa, quella
possibilità, ma finalmente l’aveva trovata,
ciò che fin dalla nascita aveva bramato, desiderato con
tutto se stesso.
Appartenere a
qualcosa, a qualcuno che a sua volta solo a lui sarebbe toccato, senza
trucchi, senza inganni.
Quando Semjace lo vide
faticare con il bastone abbandonato in grembo non capì, in
un primo momento, il perché di quel sorriso, di
quell’occhio vitreo solcato dalla tristezza che le
puntò addosso, facendolo scivolare sul petto verso il quale
Loki si tese, stringendo nel palmo il globo di luce che solo allora, la
Creatrice parve riconoscere.
- Fermo – lo
bloccò agitata, schiudendo gli artigli sul polso che il dio
irrigidì, tirando le labbra in una smorfia scontrosa che
Semjace intaccò con l’ennesima stretta sul gracile
arto che avrebbe potuto tranciare.
- Non puoi farlo, il
tuo corpo non può contenere il contraccolpo. Morirai.
Morire.
Loki non
mostrò alcun interesse per quella parola, per il senso di
quella frase, per la fine che avrebbe fatto, non ora che lei era
così vicina, che avrebbe potuta toccarla, ancora una volta,
prima di ridarle ciò che le apparteneva, ciò che
le doveva essere negato ma per il quale lui avrebbe pagato il prezzo.
Una vita voluta e
amata per una che non lo era mai stata, il saldo di
un’eternità che finalmente, il dio avrebbe potuto
scontare con un sorriso.
- Fermo.
- Non mi importa
– sfiatò senza voce, indebolito dalla perdita di
sangue nel quale sarebbe affogato, inghiottito da ciò che da
bambino e adulto lo aveva sempre circondato, fatto da padre, e da
guida, una scia che alle sue spalle sarebbe parsa lunga chilometri e
chilometri ma che ora lei avrebbe potuto far apparire meno nauseante,
con la luce che la attorniava.
E forse persino lui
sarebbe parso meno orrendo, meno ributtante, ma amabile, e solo,
tremendamente, solo.
- Morirai.
- Non credo che la
cosa possa importarti – latrò allora, sfiancato da
quell’accanimento odioso, perché voleva sentire
quegli occhi su di sé, almeno una volta, avrebbe voluto
sentire la sua voce chiamarlo ancora, prima di spirare, prima che il
mondo diventasse nero e da esso venisse inghiottito.
Ma Semjace la
trovò, l’importanza, perché in quel
globo che le dita sporche e scorticate dell’uomo stringevano
teneva qualcos’altro, qualcosa di suo, quel cuore che quella
creatura senza onore e senza patria tendeva a chi entrambi
avevano imparato ad amare, per il quale avrebbero rinnegato la propria
natura, la propria stirpe.
Un tradimento che la
Creatrice aveva compiuto quando aveva deciso di proteggerla, innamorata
di qualcosa che non sarebbe dovuto esistere, ma che in lei aveva acceso
la consapevolezza di poter essere diversa, di poter provare qualcosa
oltre alla noia e alla indifferenza, un amore per il quale si
trovò a sorridere con labbra con non aveva, e un cuore che
per natura non aveva avuto.
Ma era lì,
di fronte ai suoi occhi, su quel corpo verso il quale si tese, sfilando
dalle mani del dio ciò che di più prezioso vi
fosse per entrambi, che lo sarebbe sempre stato, una vita amata e
venerata come la più tenera delle divinità.
-
Mamma.
Bastò il
ricordo di quella voce a smuovere le dita di ferro, a convincerla a
conficcarle nel petto delicato e immobile che Loki vide sussultare,
mentre il mondo attorno a lui cominciava a sbiadire, influenzato da
quelle onde d’energia che il Tesseract stava inviando per
riattivarsi, per tornare a vedere, e ad amare lui.
-
Cos’è questo rumore?
Pepper si strinse al
corpo affaticato di Tony con la gamba malconcia abbandonata malamente
contro il pavimento, un suolo che vide tremolare e pulsare come la
ferita aperta di qualcosa che stava per morire, di quel mondo che era
stato il centro dell’universo, quello che loro, mortali,
videro contrarsi sotto i loro occhi increduli prima che
l’urlo di Hulk invocasse il nome di chi Loki stringeva tra le
braccia, abbandonato con lei in un sonno senza incubi, attorniati da
una figura astratta che sorrideva nel buio del cappuccio.
Perché una
vita andava concessa, pagata, il prezzo che venne estinto, ma un
pagamento al quale i Vendicatori non ebbero modo di
assistere, sbalzati nel portale da un’onda d’urto
che risucchiò ogni suono, luce, vita, prima di implodere
come una Supernova per continuare il ciclo della vita e concedere, con
la fine di quell’evoluzione, la nascita di qualcosa di nuovo,
di mai visto, ma di ugualmente amato.
Profondamente, amato.
Continua…
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